Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone
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Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone

  1. 168 pagine
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Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone

Informazioni su questo libro

Quando, nel 1814, si riunì a Vienna il congresso incaricato di restituire all'Europa un assetto simile a quello in vigore prima di Napoleone, non solo la galassia degli imperi risultava più ridotta, ma era anche evidente che soltanto le cinque grandi potenze europee – in prima fila la Gran Bretagna in campo marittimo e la Russia sul fronte di terra – che erano ascese ai vertici continentali dopo oltre tre secoli di guerre per lo più combattute tra loro, potevano ragionevolmente competere anche sul piano mondiale.

Prendendo in esame alcuni fenomeni caratteristici di quella fase storica – dal mercato della guerra all'esercito interarmi, dai fanti armati di picche al sempre più efficace impiego delle armi da fuoco, dall'architettura bastionata al varo di flotte d'alto mare armate di pezzi di artiglieria, dal fuoco continuo alle trasformazioni sei-settecentesche in campo strategico, tattico, organico e logistico – questo libro ricostruisce il progressivo aumento della scala di conflitti che portò alla globalizzazione militare.

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Informazioni

eBook ISBN
9788858149003
Argomento
Storia

L’età degli eserciti permanenti

Maurizio di Nassau e Gustavo Adolfo non lasciarono ai posteri opere sull’arte militare. Chi si assunse il compito di integrare una notevole esperienza sui campi di battaglia – dopo aver partecipato alla guerra dei Trent’anni e guidato l’esercito imperiale contro gli ottomani nel 1663-64, doveva concludere la sua carriera combattendo contro i francesi nel 1672-75 – «con le idee di Machiavelli e di Lipsio, come erano state adattate da Maurizio e ulteriormente sviluppate da Gustavo Adolfo, in una struttura intellettuale di vasta portata» (Rothenberg 1960) fu il modenese Montecuccoli. L’opera, alla quale rimase a lungo affidata la sua fama di teorico militare, fu un trattato, Della guerra col Turco in Ungheria 1660-1664, più conosciuto sotto il titolo di Aforismi dell’arte bellica: redatto nel 1670, fu stampato per la prima volta agli inizi del Settecento. Della guerra conobbe una grande diffusione (trenta edizioni in una mezza dozzina di lingue) e nell’età dei Lumi fu celebrato in quanto il primo libro che aveva ridotto l’arte della guerra «a forma di scienza». Negli Aforismi Montecuccoli non solo compendiò le lezioni del più recente passato (in particolare, come abbiamo visto, quelle ricavate dalla guerra contro i turchi), ma propose anche una versione aggiornata della rivoluzione militare in chiave assolutista, caldeggiando una serie di riforme che verranno realizzate, più che da un Impero anchilosato da una costituzione militare di tipo confederale, dalla Francia del re Sole. Quattro i punti qualificanti della ricetta di Montecuccoli: a) era necessario mantenere anche in tempo di pace un robusto esercito permanente, b) ciò non era possibile senza una finanza statale ben temperata (influenzato com’era dall’esperienza capitalistico-militare della guerra dei Trent’anni, il generale imperiale concepiva il denaro come «quello spirito universale, che per lo tutto infondendosi, lo anima e lo muove»), c) la chiave di volta del sistema politico-militare era identificata nel «dispotismo», nell’accentramento dei poteri nelle mani del principe e del comandante in capo, d) lo strumento principale del «dispotismo» era individuato nelle fortezze ‘reali’, «mezzi efficaci alla tranquillità pubblica coll’assicurar le forze de’ reggenti e l’obbedienza ne’ sudditi e il buon ordine dentro e la resistenza alle violenze di fuora».

1. Le forze armate europee tra Sei e Settecento: permanenza, standardizzazione e specializzazione

Nel secondo Seicento le indicazioni di Montecuccoli furono recepite dalla maggioranza degli Stati europei. Fu attivato un circuito militare ‘virtuoso’, quanto meno dal punto di vista dei sovrani collocati alla testa dei grandi Stati. In precedenza, la guerra aveva innescato, con poche eccezioni, fenomeni entropici, di cui avevano fatto le spese gli stessi principi, che erano stati costretti, soprattutto per la loro incapacità di sostenere gli oneri finanziari imposti dai lunghi conflitti e gli investimenti richiesti dalle più impegnative iniziative bellico-mercantili d’oltremare, a delegare ampi poteri politico-militari sul fronte marittimo e coloniale alle grandi compagnie di commercio (si veda il triangolo atlantico formato da Inghilterra, Olanda e Francia) e su quello di terra ai ‘signori della guerra’ come Wallenstein e/o alla nobiltà (soprattutto nell’Europa centrale e orientale, in modo particolare in Polonia e nell’Ungheria imperiale, dove i magnati si erano conquistati, o avevano conservato, una notevole importanza) oppure, quando avevano continuato a schiacciare i sudditi sotto il peso di una sempre maggiore pressione fiscale, avevano visto il loro ruolo e, nel caso inglese, anche la loro testa compromessi dalle rivolte dei corpi intermedi, delle province o dei ceti, che erano o si ritenevano più colpiti (era stato il caso di alcuni paesi dell’Europa occidentale e mediterranea dalla Spagna alla Francia e all’Inghilterra).
L’adozione della formula ‘dispotica’ consentì di stabilire una correlazione positiva tra la guerra – e le armi in genere – e il potere della corona. Gli eserciti permanenti garantirono un impiego stabile a una frazione significativa della nobiltà – si calcola che, ad esempio, Luigi XIV arruolasse al proprio servizio un terzo dei membri del secondo ordine in grado di portare le armi, mentre nella Prussia del primo Settecento erano ben poche le casate aristocratiche rimaste estranee al mondo militare – con il risultato di integrarla nella compagine statale e quindi di trasformare, in molti casi, il più pericoloso nemico dell’assolutismo in uno strumento della sua affermazione. Nello stesso tempo, le numerose truppe rimaste in servizio in tempo di pace consentirono ai principi di controllare direttamente i loro domini, riducendo gli spazi tradizionalmente concessi alla mediazione nobiliare e notabiliare e contrastando le spinte centrifughe con ben altra efficacia rispetto al passato. Dal momento che le truppe potevano imporre l’autorità del sovrano anche ai sudditi più recalcitranti, divenne tra l’altro meno difficile riscuotere le tasse (e fu, quindi, possibile incrementare le entrate fiscali, il che a sua volta si tradusse in un’ulteriore dilatazione delle spese militari), nonché garantire una maggiore ‘tranquillità pubblica’. Risultò sempre più credibile la tradizionale pretesa dello Stato di monopolizzare – e quindi per un certo verso di legalizzare – la violenza organizzata. In poche parole, se si esclude l’eccezione inglese, «gli eserciti [permanenti] permisero l’assolutismo; senza di essi sarebbe rimasto un obiettivo impossibile» (Childs 1982).
Che questo processo presuponesse «una riconciliazione tra la corona e le élites» (Black 1991a), è scontato. Ma la ‘ri­con­ciliazione’ fu il risultato non tanto di una repentina conversione della nobiltà dalla contestazione alla collaborazione, quanto di una dialettica istituzionale, che non concedeva molti spazi all’ideologia. Senza dubbio gli orrori delle guerre di religione e fenomeni quanto mai preoccupanti per l’ordine egemone dell’antico regime come la rivoluzione inglese poterono agevolare un’intesa tra gli aristocratici e i principi. Ma è anche vero che ciò che pesò maggiormente sulla bilancia fu un mix tra la carota (il riconoscimento del rango nobiliare tramite il grado militare) e il bastone (la possibilità del sovrano di spuntare le unghie a un’aristocrazia, alla quale il notevole incremento dei costi della guerra impediva di regola di gareggiare sotto il profilo militare con il potere centrale). Inoltre, va tenuto presente che la diffusione degli eserciti permanenti fu soprattutto il frutto di una corsa europea agli armamenti guidata dalle grandi monarchie, una gara che allargò, in modo evidente, la faglia, che separava dagli Stati di secondo e terzo piano il sempre più ristretto gruppo di testa (che nel corso del Settecento registrò sì l’ingresso a pieno titolo della Russia e della Prussia, ma anche l’estromissione, più o meno drastica, di potenze terrestri e/o navali che, nel secolo precedente, erano state di tutto rispetto come la Spagna, l’Olanda, la Svezia, la Danimarca, la Polonia e Venezia), così come, più in generale, cacciò dal circuito della guerra molti degli ‘attori’ minori, che avevano potuto recitare una parte di rilievo nella guerra dei Trent’anni.
Questi sviluppi consentirono ai sovrani, tra l’altro, un maggior controllo sugli eserciti e sulla guerra, la cui gestione fu sottratta agli imprenditori militari del tipo di Wallenstein e affidata, in linea di principio, a una burocrazia statale specializzata come gli intendenti alle armi creati da Richelieu nel 1635, quando la partecipazione diretta della Francia alla guerra dei Trent’anni aveva dilatato l’esercito del re da poco più di trenta a centocinquantamila uomini. Certo, anche dopo la svolta del secondo Seicento i ‘privati’ conservarono un ruolo spesso determinante nelle faccende militari (banchieri e appaltatori continuarono, fino a Ottocento inoltrato, a condizionare pesantemente l’organica e la logistica), mentre alcuni istituti residuali tipici del mercenariato – la proprietà dei reggimenti riconosciuta ai colonnelli, la venalità dei gradi militari ecc. – sopravvissero di fatto o di diritto nella maggior parte dei paesi fino al secondo Settecento e in Inghilterra ancora più a lungo.
Ma, mentre l’internazionale aristocratica delle armi continuò a dominare la scena fino alla caduta dell’antico regime senza essere in alcun modo frenata dal parziale e discontinuo processo di ‘nazionalizzazione’ degli eserciti permanenti (esemplare il caso di Ulrich-Friedrich-Waldemar von Lowendahl, un figlio naturale del re di Danimarca che tra il 1713 e il 1751 servì negli eserciti della Polonia, della Danimarca, dell’Impero, della Prussia, della Sassonia e della Russia e terminò la sua carriera militare quale maresciallo di Francia), nel Settecento il mercenariato ‘collettivo’ fu praticato quasi esclusivamente da alcuni Stati minori dell’Europa centrale a vantaggio delle potenze, che potevano permettersi di prendere in affitto i loro reggimenti. Un fenomeno, questo del mercenariato dei principi, che testimonia quanto fosse diffusa l’esigenza di dotarsi di un esercito permanente, il quale evidentemente era sempre più spesso concepito come un must della sovranità, e a un tempo quali problemi comportasse questa pretesa per i fragili equilibri economico-sociali di Stati troppo piccoli per sostenere un onere così impegnativo: la soluzione quanto mai paradossale di uno scarto tra ambizioni militari e risorse finanziarie tipico del vecchio modello militare, del modello prevalso fino alla guerra dei Trent’anni, fu quella di un ulteriore consolidamento dell’oligopolio internazionale.
Gli eserciti permanenti innalzarono in misura significativa il tasso di militarizzazione dell’Europa non soltanto perché ridussero di parecchio il divario tra le forze armate in tempo di guerra e quelle mantenute in tempo di pace, ma soprattutto perché molti Stati, pur continuando a ricorrere al mercato internazionale della guerra per il reclutamento, oltre che degli ufficiali, anche dei soldati (ad esempio, a metà Settecento le truppe straniere erano superiori a un quinto nell’esercito francese, a un quarto in quello spagnolo e ai due quinti in quello prussiano), ritennero necessario imitare, più o meno da vicino, l’esempio della Svezia (dove nel 1682 il sistema di reclutamento, l’Indelningsverket, fu esteso e consolidato in modo da sostenere un esercito di più di quarantamila uomini) e, quindi, alimentare l’esercito permanente con forme più o meno mediate di coscrizione. Nel 1688 fu creata in Francia la milizia reale, cui fu affidato il duplice compito di armata ausiliaria (guarnigioni nelle fortezze ecc.) e riserva dell’esercito regolare (nella guerra di successione austriaca quasi un terzo dei soldati francesi erano dei miliziani). Su questa strada si posero anche alcuni Stati tedeschi, la Danimarca, la Spagna, la Savoia e, in una certa misura, l’Inghilterra, dove la ‘nuova milizia’ fu creata nel 1757, mentre svilupparono forme di reclutamento di tipo svedese la Russia e soprattutto, come vedremo più avanti, la Prussia.
Non stupisce, quindi, che gli eserciti moltiplicassero i loro effettivi nel corso del secondo Seicento e del Settecento, lasciandosi alle spalle i primati raggiunti all’epoca della guerra dei Trent’anni. I circa settecentomila soldati, che nel 1632 erano a disposizione – in parte soltanto sulla carta – di quelle che erano all’epoca o che sarebbero diventate, nel secolo successivo, le grandi potenze militari (Impero, Spagna, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Russia e Prussia), salirono nel 1710 parecchio al di sopra del milione e nel 1756 superarono il milione e trecentomila. Senza dubbio, questo incremento fu favorito dal massiccio aumento della popolazione registrato in tutta l’Europa, ma va, in ogni caso, sottolineato che, nella maggioranza dei Paesi (si collocarono in controtendenza Svezia, Spagna e Olanda, soprattutto nel secondo Settecento), il tasso di incremento demografico – tra l’altro tendenzialmente piatto nel Seicento e in forte crescita soprattutto dopo la metà del Settecento – fu, in particolar modo nei decenni che videro il radicamento degli eserciti e delle marine permanenti, parecchio inferiore a quello di militarizzazione. Di qui un fenomeno come l’urbanesimo burocratico-militare tipico dell’Europa centro-orientale: nel corso del Settecento Berlino, San Pietroburgo, in una certa misura anche Vienna registrarono elevati indici di sviluppo grazie a un numero elevato di uniformi.
L’accresciuta presenza dei militari in seno alla società europea fu in parte mascherata (la caserma fu la novità settecentesca, che sanzionò sotto il profilo edilizio il sempre maggiore isolamento dei soldati rispetto ai civili, la loro trasformazione in una società a sé) e in parte sottolineata (l’adozione di uniformi spesso sgargianti; l’impiego delle truppe per un maggiore controllo del territorio) dall’avvento degli eserciti permanenti. Il nuovo carattere burocratico-professionale assunto dagli eserciti fece sì che assomigliassero sempre più l’uno all’altro. Il processo di omologazione delle forze armate fu favorito dall’internazionale aristocratica delle armi, dalla moltiplicazione delle scuole per la formazione degli ufficiali (che rimasero tuttavia, salvo che in Prussia e – limitatamente a una fase a cavallo tra Sei e Settecento – in Francia un’istituzione riservata a una minoranza uscita con poche eccezioni, se si escludono, in parte, le scuole di artiglieria e di genio, dalle file della nobiltà oppure della stessa classe militare), dall’affermazione di una gerarchia militare che faceva direttamente capo al sovrano e ai suoi ministri ed era basata su un sistema di promozioni valido per tutto l’esercito e dall’adozione di una struttura organica standard incentrata sul reggimento. Riecheggiava, quindi, un’opinione assai diffusa Carlo Goldoni (1760) quando, durante la guerra dei Sette anni, giustificò l’anonimato degli eserciti di scena nella sua commedia La guerra con la tesi che «poco più, poco meno, tutte le nazioni d’Europa guerreggiano a una maniera» e che erano «tutte forti, valorose, intrepide, e gloriose»: nel Settecento l’identità europea era garantita anche dalla Repubblica delle armi.
La guerra raccontava un assedio, l’occorrenza bellica più frequente e spesso più importante in questa fase storica, come testimoniava un’altra creatura letteraria di metà Settecento, lo zio Toby di Laurence Sterne: «nel tardo diciassettesimo secolo e in tutto il diciottesimo la guerra spesso ci appare nella ­forma di un’ininterrotta successione di assedi» (Henri Guerlac in Paret). Nella seconda metà del Seicento erano stati registrati significativi sviluppi, grazie, in particolare, all’olandese Menno van Coheoorn e al francese Sébastien Le Prestre de Vauban (1633-1707), in un sapere fortificatorio concepito sempre più nella prospettiva di una difesa globale dello Stato. Vauban aveva realizzato per Luigi XIV un sistema integrato di fortificazioni permanenti – la cosiddetta «cintura di ferro» – simile a quello auspicato da Montecuccoli: il «pré carré» (letteralmente: ‘prato quadrato’) del grande ingegnere francese non doveva soltanto garantire la protezione dei confini (era l’epoca, in cui si stava affermando il concetto di frontiera naturale, uno dei frutti della sempre maggiore integrazione tra scienza, politica e arte della guerra), ma anche costituire una base di partenza strategico-logistica (in quanto controllava le linee di comunicazione e ospitava le risorse di viveri e di armi necessarie a un’offensiva) funzionale alla politica aggressiva del re Sole. Nello stesso tempo, Vauban aveva demolito all’interno del regno quei castelli nobiliari e quelle roccaforti, che potevano ostacolare la piena affermazione del sovrano sul suo ‘prato’ o che risultavano controproducenti dal punto di vista dello Stato, dal momento che costringevano a distribuire a pioggia nelle guarnigioni una parte notevole delle truppe.
Vauban fu il primo ingegnere promosso al grado di maresciallo di Francia, un riconoscimento tributato – oltre che a un personaggio d’indiscussa caratura per le sue doti organizzative e per uno spirito riformatore che non si esauriva nell’ambito militare (propugnatore del metodo quantitativo, fu tra i padri fondatori della statistica, della demografia e della meteorologia) – a una categoria, quella dei tecnici della guerra (ingegneri e artiglieri), che, fino ad allora, era stata tenuta, nonostante il sempre più importante contributo, che dava alle forze armate, ai margini del mondo in divisa. Tra la fine del Seicento e il primo Settecento nella maggior parte degli Stati europei ­furono istituiti dei corpi di artiglieria e di genio: la loro formazione fu particolarmente curata tramite accademie militari dai profili scientifico-culturali spesso di prim’ordine e, in ogni caso, nettamente superiori a quelli delle scuole per cadetti di fanteria e di cavalleria, il cui obiettivo era quasi sempre quello assistenziale di favorire la nobiltà meno agiata e gli ufficiali di carriera. Invece il retroterra sociale delle accademie d’artiglieria e del genio e, ancora prima, delle due armi ‘dotte’ era prevalentemente borghese o tutt’al più piccolo nobiliare (era questo il caso di Vauban). In ogni caso, l’immissione dei corpi tecnici nell’universo militare mise in luce, al di là dei tentativi di riscossa aristocratica tipici del secondo Settecento, i limiti dell’egemonia nobiliare sulle forze armate e introdusse una razionalità scientifica e dei criteri meritocratici destinati a entrare in conflitto, prima o dopo, con i privilegi garantiti dalla nascita.
In questo secolo e mezzo, se si esclude un’improvvisa accelerazione registrata negli ultimi decenni del Seicento, quando si sostituì il moschetto a ruota con quello a pietra focaia (il fucile permise di poter sparare anche tre colpi al minuto e conseguentemente di ridurre la profondità delle formazioni a sole tre righe) e quando la baionetta a collare (che Vauban aveva raccomandato fin dal 1668) e i cavalli di Frisia estromisero gradualmente la picca dai campi di battaglia, i progressi militari segnarono il passo. Fu questo relativo immobilismo il prezzo che il centralismo burocratico e la sempre maggiore standardizzazione delle armi dovettero, in una certa misura, pagare. In particolare la standardizzazione, se consentì di ottenere notevoli vantaggi sotto il profilo economico (le grandi commesse e la produzione in serie potevano garantire nel medio periodo risparmi assai elevati), logistico e tattico (fu favorito un addestramento sempre più rigoroso, il cui prodotto più celebre fu il soldato-automa prussiano), rese, tuttavia, assai costosa la sostituzione delle armi e quindi meno conveniente l’innovazione tecnologica. Nel Settecento i mutamenti più importanti furono quelli che riguardarono la cavalleria, un’arma ritornata a essere efficace non tanto per il suo impiego quale forza d’urto (anzi le sue cariche risultarono spesso fallimentari di fronte all’impressionante fuoco continuo della fanteria), quanto perché in grado di assicurare, grazie ai dragoni, una massa di fuoco mobile e soprattutto perché i sempre più diffusi squadroni di cavalleria leggera (ussari, croati, cosacchi ecc.) consentivano di praticare al meglio la ‘piccola guerra’, la guerra di ‘partiti’ tipica delle grandi pianure dell’Europa centrale e orientale.
Nei primi secoli dell’età moderna «guerra, scoperte e commercio erano termini quasi intercambiabili» (Howard), anche perché, di regola, le navi da guerra erano, nello stesso tempo, navi da commercio. Nel secondo Seicento s’impose anche in ambito navale la specializzazione e, in misura più limitata che sul fronte di terra, la standardizzazione. La tradizionale ‘gara’ tra le navi esclusivamente a vela e quelle a remi e a vela...

Indice dei contenuti

  1. L’affermazione della modernità militare
  2. Guerre per il potere e guerre di religione tra Cinque e Seicento
  3. L’età degli eserciti permanenti
  4. Le guerre della Rivoluzione e dell’Impero
  5. Conclusione. La «rivoluzione militare»
  6. Bibliografia