
- 310 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Modernità liquida
Informazioni su questo libro
«Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità liquida».La metafora della liquidità, da quando Bauman l'ha coniata, ha marcato i nostri anni ed è entrata nel linguaggio comune per descrivere la modernità nella quale viviamo. Individualizzata, privatizzata, incerta, flessibile, vulnerabile, nella quale a una libertà senza precedenti fanno da contraltare una gioia ambigua e un desiderio impossibile da saziare.Modernità liquida è un classico dei nostri giorni e un bestseller in Italia e all'estero.
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Informazioni
Argomento
Scienze socialiCategoria
Cultura popolare1. Emancipazione
Sul finire dei «trent’anni gloriosi» successivi alla seconda guerra mondiale – i tre decenni di crescita straordinaria e di consolidamento del benessere e della sicurezza economica nell’Occidente avanzato – Herbert Marcuse lamentò:
Per quanto riguarda l’oggi e la nostra condizione in particolare, ritengo che ci troviamo innanzi a una situazione senza precedenti nella storia, quella cioè di dover essere liberati da una società relativamente ben funzionante, ricca, potente [...]. Il problema che abbiamo dinanzi è l’urgenza di liberazione da una società che soddisfa in buona misura i bisogni materiali e anche culturali dell’uomo; una società che, per usare una frase fatta, dispensa i beni a una parte sempre più ampia della popolazione. E ciò significa che cerchiamo di liberarci da una società in cui la questione della liberazione è apparentemente priva di base di massa1.
Il fatto che ci si dovesse emancipare, si dovesse essere «liberati dalla società», non era un problema per Marcuse. Ciò che invece costituiva un problema (anzi, il problema specifico della società che «dispensa i beni») era che non esistesse alcuna «base di massa» per porre in atto tale liberazione. In poche parole: le persone desiderose di essere liberate erano poche, ancora meno quelle disposte ad agire in tal senso, e praticamente nessuno sapeva in che modo la «liberazione dalla società» potesse mutare la loro condizione.
«Liberare» significa letteralmente rendere liberi da qualsiasi tipo di catena impedisca o ostacoli i movimenti; iniziare a sentirsi liberi di muoversi o di agire. «Sentirsi liberi» significa non avere intralci, ostacoli, resistenze o altri impedimenti a movimenti presenti o futuri. Come ebbe a osservare Arthur Schopenhauer, la «realtà» è creata da un atto di volontà; è la sorda indifferenza del mondo alle mie intenzioni, la sua riluttanza a sottomettersi al mio volere, che si riflette nella percezione del mondo come «reale»: vincolante, limitante e recalcitrante. Sentirsi liberi da restrizioni, liberi di agire in conformità ai propri desideri, significa raggiungere un equilibrio tra i desideri, l’immaginazione e la capacità di agire: ci si sente liberi nella misura in cui l’immaginazione non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire. Tale equilibrio può dunque essere raggiunto e preservato in due modi diversi: ridimensionando i desideri e/o l’immaginazione, oppure ampliando la propria capacità di agire. Una volta raggiunto l’equilibrio, e fintantoché si riesce a preservarlo, «liberazione» è uno slogan senza senso, privo di forza motivante.
Tale utilizzo ci permette di distinguere tra libertà «soggettiva» e libertà «oggettiva», e di conseguenza tra «esigenza di liberazione» soggettiva e oggettiva. Potrebbe darsi che la volontà di migliorare sia stata frustrata o stroncata sul nascere (ad esempio dalla pressione del «principio di realtà» esercitata, secondo Sigmund Freud, sull’inclinazione umana al piacere e alla felicità); le intenzioni, realmente sperimentate o soltanto immaginabili che siano, sono state tagliate su misura della capacità di agire, e in particolare della capacità di agire in modo razionale, vale a dire con una possibilità di successo. D’altro canto, potrebbe darsi che la manipolazione diretta delle intenzioni – una qualche sorta di «lavaggio del cervello» – non consenta mai di mettere alla prova la capacità «oggettiva» di agire, e tanto meno di scoprire quali esse realmente siano, e induca in tal modo a definire le proprie ambizioni al di sotto del livello della libertà «oggettiva».
La distinzione tra libertà «soggettiva» e «oggettiva» aprì un vero e proprio vaso di Pandora di spinose questioni del tipo «fenomeno contro essenza», di diversa, ma nel complesso considerevole valenza filosofica e potenzialmente di enorme rilevanza politica. Una di tali questioni era la possibilità che ciò che viene percepito come libertà in realtà non lo sia affatto; che le persone siano soddisfatte del loro destino anche laddove tale destino sia ben lungi dall’essere «oggettivamente» soddisfacente; che, pur vivendo in schiavitù, esse si sentano libere e dunque non avvertano alcuna urgenza di affrancarsi, in tal modo facendosi sfuggire o rinunciando alla possibilità di diventare realmente libere. Corollario di tale possibilità era la supposizione che l’uomo potesse essere un giudice incompetente della propria condizione e dovesse dunque essere costretto o indotto, ma comunque guidato, ad avvertire l’esigenza di essere «oggettivamente» libero e a trovare il coraggio e la determinazione di lottare a tale fine. C’era poi un ancor più minaccioso presentimento che colpiva dritto al cuore dei filosofi: che l’uomo potesse semplicemente non desiderare di essere libero e dunque rifiutare la prospettiva dell’emancipazione, alla luce delle sofferenze che l’esercizio della libertà può infliggere.
I pro e i contro della libertà
In una versione apocrifa del famoso episodio tratto dall’Odissea (Odysseus und die Schweine: Das Unbehagen an der Kultur), Lion Feuchtwanger sostenne che i marinai ammaliati dalla maga Circe e trasformati in scrofe trovarono oltremodo soddisfacente la loro nuova condizione e si opposero disperatamente ai tentativi di Ulisse di ridare loro sembianze umane. Allorché questi disse loro di aver trovato delle erbe magiche in grado di spezzare l’incantesimo che li imprigionava e che essi sarebbero presto tornati nuovamente uomini, i marinai/scrofe se la dettero a gambe a tutta velocità piantando in asso il loro zelante salvatore. Alla fine questi riuscì a prenderne uno e a strofinargli l’erba magica sul dorso; ed ecco che dal corpo setoloso dell’animale spuntò fuori Elpenoro, un uomo – afferma Feuchtwanger – sotto tutti i punti di vista assolutamente normale. Il «liberato» Elpenoro non fu affatto grato a Ulisse di tale liberazione e attaccò furiosamente il suo «liberatore»:
E così sei tornato, farabutto, ficcanaso che non sei altro? Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com’ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi: «Che devo fare, questo o quello?». Perché sei tornato? Per rigettarmi nell’odiosa vita che conducevo prima?
La liberazione è una benedizione o una maledizione? Una maledizione mascherata da benedizione o una benedizione temuta come una maledizione? Tali domande avrebbero ossessionato i pensatori per gran parte dell’era moderna – che mise la «liberazione» al primo posto nell’agenda della riforma politica, e la «libertà» in cima al suo elenco di valori –, una volta diventato abbondantemente chiaro che la libertà tardava a giungere e che i suoi destinatari erano ben lungi dall’attenderla a braccia aperte. Vennero forniti due tipi di risposte. La prima gettava dei dubbi sul fatto che la «gente comune» fosse pronta per la libertà. Come ha sostenuto lo scrittore americano Herbert Sebastian Agar (in A Time for Greatness, 1942), «La verità che permette agli uomini di essere liberi è in buona misura una verità che gli uomini preferiscono non sentire». La seconda tendeva ad accettare il fatto che gli uomini avessero dei buoni motivi per gettare dubbi sui vantaggi derivanti dalle libertà acquisibili.
Le risposte del primo tipo suscitano, a seconda dei casi, pietà per la «gente» fuorviata, ingannata, indotta con la frode a rinunciare alla propria chance di conquistare la libertà, oppure disprezzo e rabbia contro la «massa» refrattaria ad assumersi i rischi e le responsabilità che sempre accompagnano ogni forma reale di autonomia e autoaffermazione. Il lamento di Marcuse implica un misto di entrambe, nonché un tentativo di attribuire alla nuova opulenza la colpa della palese acquiescenza esibita dall’asservito nei confronti della propria condizione. Altri bersagli comuni di simili lamenti sono stati l’«imborghesimento» del diseredato (la sostituzione dell’«essere» con l’«avere» e dell’«essere» con l’«agire» quali valori principali) e la «cultura di massa» (una follia collettiva causata da un’«industria culturale» che ha prodotto una sete di intrattenimento e divertimento nel posto che – come direbbe Matthew Arnold – dovrebbe essere occupato dalla «passione per la dolcezza e la luce e dalla passione per farle prevalere»).
Le risposte del secondo tipo suggerivano che il genere di libertà elogiato dai libertari di professione non è affatto, contrariamente a quanto costoro affermavano, una garanzia di felicità e che, al contrario, può arrecare più pene che gioia. Secondo tale punto di vista, i libertari hanno torto allorché affermano, come fa ad esempio David Conway2, riprendendo il principio di Henry Sidgwick, che il modo migliore di promuovere la felicità consiste nel nutrire negli adulti «l’aspettativa che per soddisfare i propri desideri ciascuno debba contare solo sulle proprie forze», o che – come fa Charles Murray3 sconfinando nel lirismo allorché descrive la felicità intrinseca nello sforzo individuale – «Ciò che dà maggiore soddisfazione nell’espletamento di un compito è il fatto che a compierlo sei stato tu [...] che una grossa parte della responsabilità gravava sulle tue spalle, e che buona parte del successo ottenuto è dovuto al tuo contributo». Il dover «contare sulle proprie forze» fa presagire tormenti interiori e l’agonia dell’indecisione, così come l’avere «responsabilità sulle spalle» preannunzia una paralizzante paura di possibili rischi e inappellabili fallimenti. Non può essere certo questo il vero significato del termine «libertà», e se la libertà «realmente esistente», la libertà disponibile, significa davvero tutto ciò, non può essere né una garanzia di felicità né un obiettivo per cui valga la pena di lottare.
Le risposte del secondo tipo derivano, in ultima analisi, dal terrore hobbesiano per «l’uomo uccel di bosco». Traggono credibilità dal presupposto che un essere umano liberato da qualsiasi freno sociale (o che non vi sia stato mai soggetto) è una bestia anziché un individuo libero; e l’orrore che esse generano deriva da un altro presupposto, e cioè che l’assenza di freni efficaci renderà la vita «orribile, brutale e breve», e dunque certamente non felice. Si tratta della stessa intuizione hobbesiana sviluppata da Émile Durkheim in una coerente filosofia sociale secondo la quale è la «norma» – basata sul livello medio o più comune e corroborata da severe sanzioni punitive – che realmente libera l’uomo dal genere di schiavitù più terrificante e temuto, quello che non si manifesta in una qualsiasi pressione esterna ma che cova dentro di noi, nella natura presociale e asociale dell’uomo. La coercizione sociale è, secondo questa filosofia, la forza emancipatrice e la sola speranza di libertà che un essere umano può ragionevolmente nutrire.
L’individuo si sottomette alla società e tale sottomissione è la condizione della sua liberazione. Per l’uomo, la libertà consiste nell’affrancarsi da forze fisiche cieche, irrazionali; egli conquista ciò opponendo a tali forze la grande e razionale forza della società, sotto le cui ali trova riparo. Mettendosi sotto l’ala protettrice della società, egli si rende anche, in certa misura, dipendente da essa. Ma si tratta di una dipendenza liberatrice; non c’è alcuna contraddizione in ciò4.
Non solo non esiste alcuna contraddizione tra dipendenza e liberazione: non esiste altro modo di ricercare la liberazione se non «sottomettendosi alla società» e rispettandone le regole. La libertà non può essere acquisita in opposizione alla società. Il risultato della ribellione alle regole, anche laddove i ribelli non si sono trasformati in vere e proprie bestie perdendo così il potere di giudicare la propria condizione, è una perpetua agonia di indecisione correlata a uno stato di incertezza sulle intenzioni e i movimenti di chi li circonda, qualcosa che rende probabilmente la vita un inferno. Modelli e standard imposti da forti pressioni sociali risparmiano tale agonia: grazie alla monotonia e alla regolarità dei modelli di condotta raccomandati, imposti e inculcati, gli esseri umani sanno quasi sempre come procedere e ben di rado vengono a trovarsi privi di adeguate direttive o finiscono in situazioni in cui occorre prendere decisioni e assumersene la responsabilità senza conoscerne le conseguenze, rendendo così ogni passo irto di rischi e difficile da calcolare. L’assenza di regole o la scarsa chiarezza di quelle esistenti – l’anomia – è la peggior sorte che possa capitare a un uomo impegnato a espletare i compiti che la vita gli riserva. Le regole possono dare o sottrarre autorità; l’anomia ha un effetto esclusivamente esautorante. Una volta che le truppe della regolamentazione normativa abbandonano i campi di battaglia della vita, ciò che resta sono solo dubbi e paure. Nel momento in cui l’individuo si trova nella condizione di «andare avanti e sperare nella fortuna» (come Erich Fromm ha memorabilmente affermato), si vede costretto a «bere o affogare», parte la «compulsiva ricerca di certezze», inizia la disperata ricerca di «soluzioni» in grado di «eliminare la consapevolezza del dubbio» e qualsiasi cosa prometta di «assumersi la responsabilità di garantire ‘certezza’» è bene accetta5.
«La routine disgrega, ma può anche proteggere»; così afferma Richard Sennett, il quale ricorda poi ai propri lettori la vecchia controversia tra Adam Smith e Denis Diderot. Laddove Smith metteva in guardia contro i degradanti e invalidanti effetti della routine lavorativa, «Diderot non credeva che la routine lavorativa fosse degradante. [...] Il più eminente erede moderno di Diderot, Anthony Giddens, ha tentato di rinverdire l’intuizione di Diderot dimostrando l’importantissimo valore dell’abitudine sia nell’espletamento delle attività sociali che per la comprensione di sé». La tesi di Sennett è chiara e precisa: «Immaginare una vita fatta di impulsi momentanei, di azione a breve termine, avulsa da routine sostenibili, una vita priva di consuetudini, significa immaginare un’esistenza del tutto stolida»6.
La vita non è ancora giunta a estremi tali da diventare stolida, ma il d...
Indice dei contenuti
- 1. Emancipazione
- 2. Individualità
- 3. Tempo/spazio
- 4. Lavoro
- 5. Comunità
- Riflessione. Sullo scrivere; sullo scrivere di sociologia