Sulla tolleranza
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Sulla tolleranza

  1. 188 pagine
  2. Italian
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Sulla tolleranza

Informazioni su questo libro

«In questo splendido libro, Michael Walzer torna a un tema, già caro a Locke e a Stuart Mill, che continua a essere la questione cruciale di ogni ordinamento liberale: come affrontare in modo civile la differenza, sia essa fra razze o fra culture, di genere o di classe? Si tratta di una questione che ha un nuovo rilievo nelle società postmoderne, così frammentate. Walzer ne dà una sua lettura, lucida, evocativa e scevra da dogmatismi, con un esempio raro di come la leggerezza dello stile si possa combinare alla profondità del pensiero. Un libro delizioso e provocatorio!» Ralf Dahrendorf

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Informazioni

1.
Atteggiamenti personali
e assetti politici

Incomincia sempre con una negazione, mi ha detto una volta un mio vecchio insegnante; dì innanzitutto ai tuoi lettori quello che non intendi fare: servirà a tranquillizzarli, e il fatto che il tuo progetto appaia loro più modesto li aiuterà ad accettarlo. Ebbene, seguirò il suo suggerimento aprendo il mio saggio sulla tolleranza con un paio di distinzioni negative. Innanzitutto non intendo porre al centro dell’attenzione la tolleranza verso gli anticonformisti o gli eccentrici presenti nella società civile o nello stato. È vero che con ogni probabilità i diritti individuali stanno alla radice di ogni tipo di tolleranza; ma a me tali diritti interessano principalmente quando sono esercitati in comune (all’interno di associazioni di volontariato, di comunità religiose e di associazioni culturali o anche in sede di autogoverno delle comunità) o quando vengono rivendicati dai gruppi per conto dei loro membri. L’individuo eccentrico, data la natura solitaria della sua differenza, è facilmente tollerabile; e nello stesso tempo l’insofferenza e la ripugnanza sociale per l’eccentricità, pur essendo certamente sgradevoli, non sono poi così pericolose. La posta in gioco è molto più alta, invece, quando si tratta di misurarsi con gruppi eccentrici o dissidenti.
Al centro della mia attenzione non porrò neppure la tolleranza politica, che riguarda movimenti e partiti di opposizione. Questi ultimi sono concorrenti nella conquista del potere politico e rappresentano una necessità dei regimi democratici, i quali esigono, letteralmente, che ci siano dei leader alternativi (con programmi alternativi), anche nell’ipotesi in cui questi siano destinati a non vincere mai le elezioni. Essi sono colleghi, un po’ come i giocatori della squadra avversaria in una partita di pallacanestro: senza di loro non ci può essere partita, sicché essi hanno il diritto di segnare punti e, se vi riescono, di vincere. I problemi nascono solo nel caso in cui vi siano persone che vogliano disturbare o interrompere la partita, pur invocando nello stesso tempo i diritti dei giocatori e la protezione delle regole. Questi problemi, per quanto spesso di difficile soluzione, non hanno molto a che fare con la tolleranza della differenza, insita nella politica democratica. Essi riguardano invece la tolleranza del disordine (o dei pericoli di disordine), che è tutta un’altra cosa.
Così, vietare a un partito programmaticamente antidemocratico di partecipare a elezioni democratiche significa essere non già intolleranti della differenza, ma semplicemente prudenti. Le questioni di tolleranza, in effetti, emergono di solito molto prima della sfida per il potere, e cioè quando si forma la comunità religiosa o il movimento ideologico, da cui questo partito è nato. A questo stadio i suoi membri semplicemente vivono tra noi, e si differenziano da noi in quanto illiberali o antidemocratici. Noi abbiamo il dovere di tollerare la loro predicazione e le loro pratiche? E se l’abbiamo (come io credo), fino a che punto deve estendersi la nostra tolleranza?
Io mi occupo della tolleranza che ha per oggetto differenze culturali, religiose e di modi di vita – cioè della tolleranza che si esercita quando coloro con cui abbiamo a che fare non sono nostri avversari, non giocano la nostra stessa partita e coltivano o praticano differenze di cui non sussiste alcuna necessità intrinseca. Una molteplicità di gruppi etnici o di comunità religiose non costituisce una necessità neppure per una società liberale, la quale, infatti, può esistere e fiorire anche in una situazione di omogeneità culturale. In opposizione a quest’ultima affermazione, tuttavia, recentemente si è argomentato che l’ideale liberale dell’autonomia individuale può trovare realizzazione soltanto in una società «multiculturale», in cui la presenza di culture diverse consente di effettuare una scelta significativa1. In realtà degli individui autonomi possono scegliere anche tra occupazioni e professioni diverse, tra potenziali amici e partner da sposare, tra dottrine, partiti e movimenti politici, tra modelli di vita urbani, rurali e suburbani, tra forme culturali intellettualmente elevate, medie o rozze, e così via. A quanto sembra, non c’è nessuna ragione per cui l’autonomia non possa trovare spazio sufficiente all’interno di un gruppo culturalmente omogeneo.
Né si può dire che un gruppo di questo tipo richieda necessariamente, alla stregua di un partito politico, l’esistenza di altri gruppi analoghi. Dove il pluralismo è un fatto sociale, come solitamente è, alcuni gruppi competono con gli altri cercando adepti o fautori tra le persone poco o nulla impegnate. Ma il loro obiettivo primario è quello di accreditare e sostenere un modo di vita tra i loro membri, di riprodurre la propria cultura o la propria fede nelle generazioni successive. La loro azione si rivolge in prima istanza all’interno del gruppo stesso di cui fanno parte – che è esattamente ciò che i partiti politici non possono fare. Nello stesso tempo tali gruppi hanno bisogno di uno spazio sociale ampio (al di fuori di quello familiare) in cui possano organizzare le assemblee, le pratiche di culto, le discussioni, le celebrazioni, l’aiuto reciproco, l’istruzione e così via.
Ebbene, che cosa significa tollerare gruppi di questo tipo? Come atteggiamento o come orientamento mentale, la tolleranza può essere descritta in molti modi. Il primo, che riflette le origini della tolleranza religiosa nel Cinquecento e nel Seicento, la considera semplicemente un’accettazione rassegnata della differenza per amor di pace. Gli uomini si uccidono l’un l’altro per anni e anni finché insorge la pietà e la violenza si arresta: a questo punto si parla di tolleranza2. Ma c’è anche un continuum di forme di accettazione più sostanziali. Un secondo atteggiamento possibile è quello di passiva, rilassata e benevola indifferenza nei confronti della differenza: «Per fare il mondo ci vuole di tutto». Una terza posizione è quella che discende da un tipo di stoicismo morale e consiste nel riconoscere per ragioni di principio che gli «altri» hanno dei diritti, anche se poi li esercitano in modi che non ci piacciono3. Un quarto atteggiamento esprime apertura agli altri, curiosità, forse perfino rispetto: in una parola, disponibilità ad ascoltarli e a imparare da loro. Nel punto estremo di questo continuum c’è l’approvazione entusiastica della differenza: essa può essere di tipo estetico, quando si crede che la differenza rappresenti sul piano culturale la ricchezza e la varietà delle creature di Dio o del mondo naturale; oppure di tipo funzionale quando, come nell’argomentazione liberale della multiculturalità, si vede nella differenza la condizione necessaria di uno sviluppo pieno e rigoglioso dell’umanità, ciò che offre a uomini e donne una gamma di scelte capace di dar senso alla loro autonomia4.
Ma forse quest’ultimo atteggiamento esula dal mio tema: come si può dire che io tollero una cosa, se in realtà la sottoscrivo? Se è mio desiderio che gli altri vivano accanto a me all’interno della mia società, io in realtà non li tollero, li sostengo. Ciò non significa, però, che io necessariamente sottoscriva questa o quella versione dell’alterità. Posso benissimo preferirne un’altra, culturalmente o religiosamente più vicina alle mie pratiche e alle mie credenze (ma anche, perché no?, una più lontana ed esotica e quindi meno concorrenziale e minacciosa). In ogni società pluralistica, peraltro, ci saranno sempre persone che, per quanto assolutamente convinte del pluralismo che professano, troveranno alquanto difficile convivere con qualche differenza particolare, sia essa una forma di culto, un ordinamento dell’istituzione familiare, una regola dietetica, una pratica sessuale o un tipo di abbigliamento. Pur sostenendo l’idea della differenza in astratto, tali persone, poste di fronte a precise differenze concrete, si limitano a tollerarle. Tuttavia vengono giustamente considerate tolleranti anche persone che non incontrano tale difficoltà: esse fanno posto senza alcuna fatica a uomini e donne di cui non accettano le credenze né intendono imitare le pratiche; convivono con un’alterità di cui approvano la presenza nel mondo, ma che resta nondimeno un elemento estraneo alla loro esperienza, qualcosa di alieno e stravagante. Tutte le persone che riescono a comportarsi così, indipendentemente dalla loro collocazione sul continuum formato da rassegnazione, indifferenza, accettazione stoica, curiosità ed entusiasmo, io dirò che possiedono la virtù della tolleranza.
Come vedremo, una caratteristica di tutti i regimi che praticano bene la tolleranza è che non dipendono da una forma particolare di questa virtù: cioè, non c’è bisogno che tutti i loro componenti si collochino in un punto particolare del continuum. Di fatto accade che, mentre alcuni regimi riescono meglio nell’intento facendo leva sulla rassegnazione, sull’indifferenza o sullo stoicismo, altri hanno bisogno di stimolare la curiosità o l’entusiasmo; personalmente, però, non credo nella possibilità di identificare tendenze sistematiche lungo queste direttive. Nemmeno la differenza tra regimi più collettivistici e regimi più individualistici trova riscontro negli atteggiamenti particolari che essi richiedono. Ma non è forse vero che la tolleranza è più stabile se le persone hanno raggiunto un punto più avanzato in quel continuum? Non è compito delle scuole pubbliche, per esempio, cercare di promuovere un progresso in questo senso? Di fatto, tutti questi atteggiamenti, se sono radicati a fondo, servono a consolidare la tolleranza. Il miglior programma educativo potrebbe benissimo non comprendere nulla più che una descrizione vivida e precisa della guerra religiosa o etnica. Senza dubbio, però, un modo per migliorare le relazioni personali al di là dei confini culturali potrebbe essere quello di far sì che gli individui vadano oltre quel minimo di tolleranza che certe vivide descrizioni dell’intolleranza mirano a produrre; ma ciò è vero in tutti i regimi. In nessuno di essi il successo politico dipende dalle buone relazioni personali che si hanno. Alla fine, tuttavia, dovrò chiedermi se queste affermazioni valgano anche per l’emergente versione «postmoderna» della tolleranza.
Per ora analizzerò tutti gli assetti sociali mediante i quali noi incorporiamo la differenza, conviviamo con essa e le assegniamo una quota dello spazio sociale; lo farò presentando tali assetti come forme istituzionalizzate di una virtù indifferenziata. Storicamente (in Occidente) sono esistiti cinque diversi assetti politici che hanno favorito la tolleranza, cinque modelli di società tollerante. Non pretendo che il mio elenco sia esaustivo; mi limito a sostenere che esso comprende le possibilità più importanti e interessanti. Ovviamente si possono considerare anche dei regimi misti; ma inizialmente intendo descrivere in termini generali questi cinque, combinando insieme indicazioni storiche e ideal-tipiche. Successivamente esaminerò alcuni regimi misti, indicherò le difficoltà che i vari assetti si sono trovati ad affrontare e infine illustrerò brevemente il mondo sociale e la percezione di sé propri degli uomini e delle donne che oggi praticano la tolleranza (nella misura in cui effettivamente lo fanno, giacché la tolleranza è sempre una conquista precaria). Che cosa facciamo esattamente quando tolleriamo la differenza?
1 Joseph Raz, Multiculturalism. A liberal perspective, in «Dissent», inverno 1994, pp. 67-79.
2 Questa sazietà e i calcoli prudenziali che essa consente trovano la loro migliore esemplificazione nei politiques francesi del Cinquecento: cfr. il breve resoconto che ne offre Quentin Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, vol. 2, L’età della Riforma, trad. it., Il Mulino, Bologna 1989, pp. 246 sgg. e pp. 501-14.
3 Molti filosofi sono orientati a usare il termine tolleranza solo per questo atteggiamento; in tal modo essi adottano un’accezione che corrisponde a certi usi della parola e associa a essa l’idea che comunemente la pratica della tolleranza si accompagna a una certa riluttanza. Questa interpretazione, però, trascura completamente l’entusiasmo di molti profeti della tolleranza. Cfr. David Heyd (a cura di), Toleration: An Elusive Virtue, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1996, specialmente l’introduzione di Heyd e il saggio di apertura di Bernard Williams.
4 Per un’analisi storica di questi atteggiamenti, cfr. Wilbur K. Jordan, The Development of Religious Toleration in England, 4 voll., Cambridge University Press, Cambridge 1932-40.

2.
Cinque regimi
di tolleranza

Gli imperi multinazionali

Gli assetti sociali più antichi sono quelli dei grandi imperi multinazionali: la Persia, l’Egitto dei Tolomei e Roma. Qui i vari gruppi costituiscono comunità autonome o semi-autonome di natura politica o giuridica non meno che culturale o religiosa, che si autogovernano in una gamma notevolmente ampia delle loro attività. Tali gruppi non hanno altra scelta che di coesistere l’uno con l’altro, poiché le loro interazioni sono governate dai burocrati imperiali sulla base di un codice, come il romano jus gentium, concepito proprio per mantenere un minimo di equità, nel senso che questo termine aveva al cuore dell’impero. Di solito, comunque, non è che i burocrati interferiscano con la vita interna delle comunità autonome per amore della equità o di qualche altro obiettivo, almeno finché tutti pagano regolarmente le tasse e regna la pace. Gli imperi multinazionali dell’antichità, quindi, tollerano modi di vita diversi e possono considerarsi regimi in cui vige la tolleranza, indipendentemente dal fatto che i membri delle varie comunità si tollerino fra loro o no.
In un regime imperiale, gli individui, volenti o nolenti, danno prova di tolleranza nelle loro interazioni quotidiane (o nella maggioranza di esse), e forse in alcuni casi imparano ad accettare la differenza, collocandosi a un certo punto del continuum precedentemente descritto. Comunque la sopravvivenza delle varie comunità dipende non già da questa accettazione, ma solo dalla tolleranza ufficiale, che viene sostenuta soprattutto per amor di pace – anche se i singoli funzionari hanno tenuto conto della differenza per i fini più disparati, taluni sono diventati famosi per essersene interessati e altri l’hanno addirittura difesa in maniera entusiastica1. Questi burocrati imperiali vengono spesso accusati di seguire la politica del divide et impera, ed effettivamente a volte la loro politica è proprio questa. Ma sarà bene ricordare che essi non sono gli...

Indice dei contenuti

  1. Premessa all’edizione italiana
  2. Prefazione*
  3. Ringraziamenti
  4. Introduzione. Come scrivere sulla tolleranza
  5. 1. Atteggiamenti personali e assetti politici
  6. 2. Cinque regimi di tolleranza
  7. 3. Casi complicati
  8. 4. Questioni pratiche
  9. 5. Tolleranza moderna e postmoderna
  10. Epilogo. Riflessioni sul multiculturalismo americano