Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere)
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Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere)

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere)

Informazioni su questo libro

Improvvisa inversione dei poli? Arresto della rotazione terrestre? Pandemia? Impatto con un asteroide? Esplosione di una supernova? La concorrenza nel ramo della fine del mondo è implacabile. Per chi se lo fosse dimenticato, il 2012 è considerato un'ottima annata per le catastrofi. Siete sopravvissuti finora?La funesta profezia del 21 dicembre 2012 è solo un esempio. L'ultimo, se i Maya avevano ragione. Il fatto è che periodicamente l'umanità si prepara a sloggiare dal pianeta Terra. Millenarismi di ogni tipo per secoli hanno attirato la credulità popolare, e ogni scampato pericolo è sempre servito solo come carburante per la profezia successiva. In particolare, però, è la generazione di noi contemporanei quella che sta coltivando con maggiore convinzione l'idea di essere l'ultima della Storia del Mondo. Dopo di noi, il diluvio: e pazienza per i posteri. Potrà essere un collasso finanziario, oppure un drammatico stravolgimento climatico. Forse un'ondata migratoria devastante. Uno tsunami di spazzatura. Una guerra mondiale. La fine delle risorse petrolifere. Oppure tutte queste cose assieme, senza escludere i classici del cinema: impatto con un meteorite o invasione di extraterrestri. Se pure i Maya avessero torto, un'Apocalisse sembra davvero alle porte. Se non altro la fine del mondo così come siamo abituati a viverlo da qualche secolo a questa parte. Ecco lo specifico contemporaneo: ci sentiamo talmente sicuri di un'imminente Apocalisse che ci siamo convinti di non poter fare nulla per fermarla. Se ne ricava la più classica delle profezie che si autoverificano: siccome la fine del mondo ci sarà, ci sarà la fine del mondo.

Domande frequenti

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Informazioni

I barbari alle porte

Esistono abbastanza risorse
per soddisfare le necessità di tutti, ma non per saziare l’avidità
di ognuno.
Gandhi
È pur vero che la fine del mondo, quando avverrà, difficilmente terrà conto dei confini nazionali. Già adesso, l’incidente in una centrale nucleare è destinato a far danni sulla base della direzione del vento, a prescindere dalle responsabilità dei governi nazionali. Il virtuosismo ostentato di certe municipalità che si fregiano dell’insegna di «Comune denuclearizzato» ben rappresenta l’illusione di farla franca su basi scaramantiche. Per venire spazzati via basta che non sia denuclearizzato il Comune limitrofo.
Il discorso non cambia se trasposto su basi planetarie e va esteso ai disastri naturali, a prescindere dalle responsabilità umane.
La natura borbotta, mugugna, sempre più spesso si incazza direttamente. Come in un allestimento teatrale, il diario delle prove dell’Apocalisse si va infittendo, e sono prove sempre più «filate». Una di quelle più riuscite è stata l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökul. È stata la prova primaverile 2010, dopo che quella invernale, il terremoto di Haiti, per quanto devastante, era rapidamente scomparsa dalle pagine dei giornali. (Quando poi, a distanza di mesi, qualche giornalista del Primo Mondo ha trovato l’occasione di andare a vedere com’era la situazione nelle zone terremotate, ha scritto che gli haitiani senza tetto non se la passavano poi troppo male. Le tendopoli erano più vivibili dei centri abitati preesistenti. Ancora qualche mese ed è scoppiata una devastante epidemia di colera).
In occasione della versione vulcanica islandese dell’Apocalisse, secondo copione il cielo si è oscurato su gran parte dell’Occidente civilizzato, causando un tracollo della mobilità aerea e la perdita di miliardi di euro, oltre che la disdetta di migliaia e migliaia di appuntamenti d’affari, d’amore e di famiglia in tutto il mondo. A parte le questioni economiche e quelle geologiche, l’occasione è stata utile per osservare le reazioni dell’umanità da un punto di vista antropologico. La domanda è: come si comporterà il genere umano di fronte alla fine del mondo? Bisogna ammettere che la prova è andata abbastanza bene. Niente scene di panico, niente fughe di massa come quelle che si vedono nei film catastrofisti. Piuttosto, come nei film di genere, il dramma collettivo si è scomposto in una miriade di microdrammi personali, che coinvolgevano i singoli individui e la loro immediata cerchia familiare o lavorativa. Qualche pianto al telefono, qualche abbraccio rimandato o annullato. Ma il carattere di prova ha fatto sì che non ci fossero vittime civili. In fondo è stato come quando suona la sirena e però un altoparlante avverte che si tratta di una simulazione. La popolazione è invitata a mantenere la calma, e l’esercitazione avviene nella generale compostezza.
Dopo l’iniziale contrarietà, persino il popolo dei manager è sembrato rassegnarsi alla forza della natura. C’è niente da fare? No. E allora mettiti comodo e aspetta che passi. Per molti, forse è stato un bagno di umiltà: scoprire che nessuno è indispensabile, in nessuna circostanza. Ogni potente del mondo si è visto costretto a rinunciare al proprio viaggio, e soprattutto ha scoperto che la vita del pianeta è andata avanti lo stesso. È quel che succede quando muori: un po’ di subbuglio, e poi persino i tuoi cari tornano ad assestarsi sui binari della quotidianità. In fondo la fine del mondo non sarà altro che la sommatoria di molti singoli lutti.
Questo è stata l’eruzione dell’Eyjafjallajökul: una piccolissima metafora di morte collettiva che ha lasciato le cose come stavano. Forse andrà così anche quando sarà il momento: ti metterai disciplinatamente in coda assieme a tutti gli altri di fronte all’apposito banco transiti, in attesa di trovare la miglior soluzione per sgomberare il caro pianeta Terra. Ma ammettilo: un’Apocalisse provocata da sole cause naturali sarebbe molto deludente, e non renderebbe merito al trattamento che il genere umano ha riservato negli ultimi decenni al suo habitat naturale.
Ecco allora spuntare una assai più esaltante e probabile catastrofe per colpa, un vero e proprio suicidio planetario. La prova generale stavolta si è tenuta nel golfo del Messico, con il disastro della piattaforma petrolifera BP e la conseguente emorragia di petrolio andata a infestare il litorale della Louisiana. Uno sfortunato gioco delle correnti: sarebbe bastato poco per evitare il danno sulla costa degli Stati Uniti. Se le correnti si fossero mosse diversamente, la macchia oleosa sarebbe finita da tutt’altra parte, magari su qualche isola caraibica più avvezza ad affrontare le calamità, e meno interessante da un punto di vista mediatico.
Col senno di poi, potrai leggere la catastrofe come un’opportunità che ti era stata concessa, la spia di qualcosa che non funzionava più a dovere. Una gigantesca chiazza oleosa, un blog che vischiosamente va ad ammorbare ogni terra emersa, le vene del mondo recise ai polsi e infine il dissanguamento: questa sì che sarebbe una fine del mondo degna del genere umano, del suo status di benessere. Oltretutto molto ben rappresentabile nei tg di prima serata. Commovente e fatale, almeno per il momento, soltanto per i poveri animali. Gli uccelli, le tartarughe, così gentili da venire a morire incatramati sulla spiaggia, a favore delle telecamere. Così fotogenici, in una ripresa rasoterra, con l’onda nera sullo sfondo che si infrange sulla sabbia.
Molto suggestive anche le immagini dei volontari in tuta e stivali di gomma che si adoperano per limitare i danni, coi pochi risultati possibili, lavorando quasi a mani nude. Per alimentare la drammaturgia di un possibile colossal cinematografico ecco pure la corsa contro il tempo per turare la falla, i diversi tentativi di fermare la fuga di petrolio adoperando tecnologie che si rivelano man mano sempre inadeguate. Nell’inquadratura successiva c’è un palombaro che emerge dall’oceano semiasfaltato, si toglie il casco e scuote la testa: anche questo tentativo non ha funzionato.
Un’Apocalisse di questo genere comporterebbe innegabili vantaggi morali. Consentirebbe il tempo di un dibattito fra tutta la popolazione mondiale, che si potrebbe suddividere molto chiaramente in buoni e cattivi, lasciando libero lo spettatore di iscriversi idealmente a uno dei due gruppi: e autoassolversi, con ogni probabilità. I cattivi conclamati, quelli della compagnia petrolifera, nel caso hanno subito dichiarato di essere intenzionati a pagare i danni all’ambiente. Poi hanno cercato di fare i furbi, ma l’ammissione di colpa ha tolto un po’ di mordente alla trama. Di solito, in questo genere di film, la multinazionale cattiva nasconde le prove e nega ogni addebito, salvo poi lasciarsi smascherare dall’Eroe Buono. Ma tant’è: la realtà si rivela talvolta drammaturgicamente inadeguata.
Una variante ancora più mediatica della catastrofe ambientale per colpa è rappresentata dal precipizio climatico. Spesso è il cuore dell’estate il momento in cui i nodi del clima vengono al pettine. Un po’, è vero, sono i giornali che ogni anno resettano la memoria e annunciano l’ondata di caldo più efferata da cento/cinquecento/mille anni a questa parte. E ci sarebbe da chiedere su che basi vengano appurate le temperature antecedenti al secolo scorso; su questo tema molti spesso hanno fatto esercizio di sarcasmo. Ma al di là del fenomeno di superficie, è pure vero che questo gridare al lupo fa perdere la prospettiva delle cose, provoca assuefazione: anche quest’anno è l’agosto più caldo di tutti i tempi. Fatti una doccia e tira avanti.
Per cui poi è difficile distinguere l’allarmismo stagionale, agevolato dalla mancanza di altre notizie, dalle autentiche crisi planetarie. Bisogna fare la tara ai vizi e alle distorsioni del sistema mediatico. Un esempio a suo modo perfetto sono stati i fuochi russi dell’estate 2010. Attorno a Mosca a un certo punto i boschi hanno cominciato a bruciare tutti nello stesso momento. Caldo, piromani, tutte e due le cose assieme: ma con una veemenza da fine del mondo, proprio. Quando i giornali hanno cominciato a parlarne era già passato un po’ di tempo, troppo per stabilire le responsabilità. E poi oltre ai boschi hanno cominciato a bruciare pure i giacimenti di torba, che nessuno sapeva davvero come spegnere. Sta di fatto che settimana dopo settimana la capitale russa è stata avvolta da un fumo denso e invadente. I turisti che c’erano sono partiti in fretta e quelli in arrivo si sono tenuti alla larga. Sui giornali sono comparse fotografie di passanti che indossavano mascherine di garza, e poi articoli in cui si spiegava che le mascherine di garza non servivano a niente.
Col passare dei giorni sono cominciate a spuntare le cifre, ma sempre cifre ballerine, da prendere in considerazione con cautela. Perché intanto era difficile diagnosticare un’insufficienza respiratoria e collegarla con certezza alla coltre di fumo che ammantava ogni cosa, si infilava nelle case e nelle sale operatorie rendendo irrespirabile l’aria di qualsiasi ambiente. Senza contare che le autorità ex sovietiche devono aver fatto capire a fonti mediche e organi di stampa che in un momento del genere non erano graditi toni disfattistici. Sono spuntati scienziati disposti a spiegare perché e percome il fumo non era pericoloso. Parola di scienziato, parola di televisione. Il risultato è che qualcosa in più si capiva stando a distanza, leggendo la stampa internazionale. Standoci dentro, è sempre più difficile rendersi conto della gravità della situazione. Se ne ricava un insegnamento utile da tener presente quando l’Apocalisse deciderà di arrivare in forze: è probabile che dovrai accomodarti all’uscita cercando invano notizie sul tuo giornale, scoprendo che in fondo si tratta di una fine del mondo che viene percepita soltanto da te, a livello individuale. Nulla che meriti di essere elevato al rango di notizia.
Ancora una volta il rischio è l’assuefazione. Quante volte ti è capitato di leggere di inondazioni che hanno colpito il subcontinente indiano? E sempre meno, ammettilo, te ne sei angosciato. Eppure l’inondazione è un sintomo perfetto, a suo modo. Evoca nella mente degli apocalittici l’idea che ci sia qualcosa da lavare, l’idea di una purificazione. Il terremoto, in questo senso, rappresenta una semplice centrifuga.
La memoria collettiva è piuttosto labile, a proposito di catastrofi naturali. Labile e superficiale: a nessuno piace ricordare che esistono responsabilità che vanno oltre il puro e semplice destino.
Per due volte nel giro di poco più di un anno, in provincia di Messina un’inondazione ha provocato morti e feriti, danni materiali a non finire. Non è che in Sicilia le sciagure siano mai mancate: dopo gli anni della siccità, l’Apocalisse ha preso forma di inondazione, come un beffardo contrappasso sulle stesse terre già messe in ginocchio dalla mancanza d’acqua. Ma ecco un altro esempio di Apocalisse-Opportunità: a un certo punto gli agricoltori siciliani hanno ricevuto pubblici indennizzi sia per la siccità sia per le inondazioni. E nello stesso anno.
Ma attenzione: capita spesso, specie nelle regioni meridionali, che i risarcimenti rappresentino un fondo perduto che istiga la popolazione ad adagiarsi sull’improvvisa folata di denaro. È successo con molta evidenza dopo il terremoto del Belice, sempre in Sicilia, dove i finanziamenti sono serviti solo a illudere la gente e convincerla ad abbandonare la faticosa vita dei campi. A trasformare le formiche in altrettante cicale. Ma i fondi poi finiscono, e di solito a quel punto il danno antropologico è già compiuto. In casi del genere, altro che opportunità: l’Apocalisse è un disastro dal quale discendono a grappolo una serie di altri disastri.
Le inondazioni, in particolare, rappresentano perfettamente il modello di catastrofe della smemoratezza. Di tanto in tanto fango e spazzatura prendono a correre sul letto di fiumare prosciugate, che vengono trasformate negli anni in strade o discariche, immaginando che la siccità duri per sempre: e nella cieca convinzione che «per sempre» coincida con l’arco di tempo della tua esistenza. Dopo, chissenefrega. Certe volte, però, «per sempre» è un lasso di tempo che si esaurisce presto, e dura meno ancora della tua aspettativa di vita. Un’eternità provvisoria e fragilissima. Basta una pioggia autunnale per trasformare la spensieratezza in tragedia. Ma non è nemmeno una tragedia a riuscire a scuotere la famosa rassegnazione delle popolazioni meridionali. L’uomo che ha perso tutto siede idealmente non sulla riva del fiume, ma proprio al centro dell’alveo. E aspetta che passi la piena, secondo la nota prescrizione proverbiale: calati junco. Da domani ricomincerà a costruire i suoi castelli di sabbia, e di nuovo fin dentro il nido del fiume. Nella convinzione che i castelli di sabbia durino per sempre e che smemorato sia il fiume, non l’uomo. In questi casi, nella migliore delle ipotesi, si corre in soccorso delle vittime; si rimuovono le macerie, ma senza porsi il problema della rimozione delle cause. Un po’ come succede per certe malattie, quando si cerca di rimuovere il sintomo, senza agire sulla malattia in sé.
Quando poi le sciagure avvengono lontano, hanno difficoltà a trasformarsi in titolo di telegiornale. Un po’ perché indiani, pakistani, eccetera sono considerati un’umanità a parte, sufficientemente numerosa e predisposta a sopportare un certo numero di disastri naturali all’anno senza lamentarsi più di tanto. Invano le Nazioni Unite si sforzano di offrire qualche cifra comparativa che renda l’idea: peggio del terremoto di Haiti, peggio dello tsunami del 2004. Il fatto è che i parametri per misurare un disastro naturale sono fragili. Conta dei danni, numero dei senza tetto, ammontare dei morti. In ogni caso il raffronto avviene sempre con eventi ormai remoti, archiviati con l’incalzare delle sciagure di giornata, dopo i quali la vita è andata avanti anche per quelle popolazioni lontane e insondabili.
Sulle testate nazionali le inondazioni conseguono la prima pagina solo quando, in mezzo ai tanti morti, ne spunta uno di nazionalità europea. Come in Pakistan, nel 2010: si trattava di un appassionato di trekking che aveva scelto male il suo periodo di ferie. Da cui si ricava la legge fondamentale per valutare il peso di una notizia: un evento acquista importanza inversamente proporzionale alla distanza che separa la redazione centrale del giornale dall’epicentro della sciagura.
Poi improvvisamente succede che un giorno la catastrofe colpisce un paese del Primo Mondo. Per dire: il Giappone. Un paese ordinato, tecnologicamente all’avanguardia. Un paese ricco. Certo: un paese che si trova dall’altra parte della Terra, dove tutti gli abitanti si somigliano talmente tanto che dire «un giapponese», «cento giapponesi», o «ventimila giapponesi» sembra sempre un po’ lo stesso: specialmente se li guardi da lontano. I morti sono meno gravemente morti, se si somigliano fra loro e se non ci sono conoscenze comuni. L’ideale è un grado di separazione cinque o sei. La commozione è sempre inversamente proporzionale alla distanza. Difatti la questione centrale di prima pagina è: ma c’erano italiani? Che fine hanno fatto? E quando il ministero degli Esteri rassicura, sei autorizzato a tirare un sospiro di sollievo.
Tu che hai viaggiato e in passato eri stato in Giappone scruti le immagini del disastro e cerchi di riconoscere i luoghi. Ecco, ti sei trovato lì appena pochi anni fa. Resta sottinteso il sollievo: beato te che sei ancora vivo, peggio per quelli che hanno voluto essere giapponesi a loro rischio e pericolo.
Allo stesso tempo, tuttavia, il Giappone, pur essendo così lontano, somiglia moltissimo a un paese occidentale. Di sicuro condivide gli stessi standard di vita. È un paese «normale», non uno di quelli sfigati su cui sempre vanno ad abbattersi le sciagure. Al massimo, che si poteva imputare al Giappone? Qualche vulcano nemmeno particolarmente esuberante e una spiccata predisposizione tellurica. Lo sapevano che un terremoto poteva arrivare da un momento all’altro. Ma mica sono latini: si sono documentati, si sono organizzati, hanno costruito le loro case secondo i più avanzati canoni antisismici, hanno previsto tutto quel che c’era da prevedere. E difatti il disastro c’è stato, ma i danni diretti, nell’immediatezza, sono stati abbastanza limitati. Tanto che qualche commentatore straniero ha bruciato tutti scrivendo un editoriale beffardo nei confronti delle anime belle antinucleariste. In sintesi: avete visto? Alle centrali nucleari non è successo niente. Ah-ah-ah.
Come il battito d’ali di una farfalla giapponese può procurare una catastrofe dall’altra parte del mondo, può benissimo darsi il contrario: che il battito di lingua di un commentatore occidentale iperpositivista provochi una catastrofe agli antipodi. Per cui, povero Giappone: terremoto, tsunami e poi anche apocalisse nucleare.
Stavolta tu, occidentale perbene, non hai potuto nemmeno scaricarti la coscienza raccogliendo fondi e mandando aiuti alle popolazioni. I giapponesi non erano abbastanza poveri per la bisogna. Sei rimasto sbigottito nel vedere quelle città così simili alla tua venire spazzate via. Hai visto le centrali esplodere e affumicare i dintorni. Hai visto le persone scappare dalle case e morire a breve o lungo termine. Erano persone vestite come te, solo con gli occhi a mandorla per fare la differenza. Hai pensato: forse questa è l’Apocalisse. E, malgrado la distanza, ti sei spaventato più di ogni altra volta perché hai capito che eri di fronte a una specie di specchio. Le centrali nucleari non le hai più volute nel tuo cortile; e nemmeno in quello del vicino, stavolta. Non ne vuoi più sentir parlare, di centrali. Resta da stabilire come far andare il tuo condizionatore d’aria. Ma per quello ci sono le energie alternative. Sapere di non poter più fare affidamento sul nucleare metterà le ali alla ricerca e ai governi. Tu prega. Ma per sicurezza, nel frattempo, sarebbe meglio spegnere il condizionatore.
Ecco come il mondo diventa all’improvviso piccolo. Un guasto a migliaia di chilometri di distanza si ripercuote su un continente diverso. Basta un piccolo intoppo e il disastro si mette a rimbalzare da un angolo all’altro del pianeta come su un flipper isterico.
È successo. Un operatore finanziario, a Wall Street...

Indice dei contenuti

  1. — epigrafe
  2. — ringraziamenti
  3. Innanzi tutto
  4. Repertorio delle catastrofi in arrivo
  5. Oppure sei già morto e non te ne sei accorto
  6. Epicentro Italia
  7. I barbari alle porte
  8. Tragico Vuoto
  9. Che faccia fare