Politica per un figlio
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Politica per un figlio

  1. 192 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Politica per un figlio

Informazioni su questo libro

«Caro figlio, in questo libro cercheremo di riflettere un po' sul fatto fondamentale che gli uomini non vivono isolati, ma riuniti in società. Parleremo del potere e dell'organizzazione, del mutuo soccorso e dello sfruttamento dei deboli da parte dei forti, dell'uguaglianza e del diritto alla differenza, della guerra e della pace. Parleremo delle ragioni dell'obbedienza e di quelle della ribellione. Tu mi conosci: anche se in questo libro penso di schierarmi del tutto apertamente da una parte o dall'altra, qualora mi vada di farlo, non ho intenzione di fare la morale alla fine su chi sono i 'buoni' e chi i 'cattivi'. Andremo alla ricerca delle questioni fondamentali, di ciò che è in gioco nella politica e non di ciò a cui giocano i politici».

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Informazioni

1. Siamo qui riuniti...

Apri gli occhi e ti guardi intorno, come se fosse la prima volta: che vedi? Il cielo dove splende il sole o fluttuano le nuvole, gli alberi, le montagne, i fiumi, gli animali, il vasto mare...? No, ti si offrirà prima un’altra immagine, quella più vicina a te, la più familiare di tutte (nel senso proprio del termine): la presenza umana. Il primo paesaggio che vediamo sono il volto e le tracce di altri esseri come noi: il sorriso materno, la curiosità di gente che ci assomiglia e si affaccenda intorno a noi, le pareti di una stanza (modesta o lussosa, ma sempre costruita, o perlomeno arrangiata, da mani umane), il fuoco acceso per scaldarci e proteggerci, strumenti, ornamenti, macchine e, forse, opere d’arte; insomma: gli altri e le loro cose. Venire al mondo significa venire al nostro mondo, al mondo degli umani. Stare al mondo significa stare fra gli umani, vivere, nel bene e nel male, in società. Ma questa società che ci circonda e ci pervade di se stessa e che poi contribuirà a darci forma (e cioè, formerà i nostri abiti mentali e le nostre facoltà fisiche), non è fatta solo di persone, oggetti e case. È una rete di legami più sottili o, se preferisci, più spirituali: è composta dal linguaggio, l’elemento umanizzante per eccellenza, come abbiamo già visto in Etica per un figlio, da una memoria collettiva, dalle tradizioni, dalle leggi... Ci sono doveri, feste, divieti, premi, punizioni. Alcuni comportamenti sono tabù e altri riscuotono il plauso generale. Per questo la società conserva le informazioni, che sono moltissime. Il cervello umano, una volta attivato dal linguaggio, già da piccolo comincia a trangugiare quante più informazioni possibili, digerendole e immagazzinandole. Vivere in società significa ricevere continuamente notizie, ordini, suggerimenti, scherzi, suppliche, tentazioni, insulti... e dichiarazioni d’amore.
La società ci eccita, ci stimola, ci sprona al massimo; però è la società che ci permette di rilassarci, di sentirci a nostro agio: ci accoglie come un rifugio. Anche la foresta, il mare e il deserto hanno le loro leggi, un funzionamento particolare, ma non sono al nostro servizio e molte volte si rivelano ostili all’uomo, pericolosi e perfino letali. Si suppone che la società sia stata pensata da uomini come noi per uomini come noi, poiché siamo in grado di capire le ragioni della sua organizzazione e di sfruttarle a nostro vantaggio. Dico «si suppone» perché a volte nella società umana avvengono cose incomprensibili e tremende, paragonabili alle peggiori che possano accadere nella giungla o nell’oceano. Probabilmente l’angoscia che provarono gli ebrei rinchiusi nei campi di concentramento dai nazisti o quella dei molti che oggi subiscono gli orrori della guerra e della persecuzione, sia essa politica, religiosa o di qualunque altro tipo, è la stessa di chi si trova in pieno deserto o su un’isola sperduta in mezzo al mare e battuta dalle tempeste. Tuttavia non si discute sul fatto che l’ambiente più naturale per vivere da uomini sia la società umana. Non si tratta di scegliere fra natura e società, ma di riconoscere che la nostra natura è la società. Nella foresta o fra le onde possiamo giungere a sentirci a nostro agio, per un certo tempo, ma nella società, in fin dei conti, ci sentiamo noi stessi. Biologicamente siamo prodotti della natura ma umanamente siamo prodotti, produttori e anche complici della società... Deve essere questo il motivo per cui sopportiamo gli inconvenienti naturali con maggior rassegnazione di quelli sociali: i primi possono infastidirci o minacciarci, ma i secondi rappresentano un tradimento...
Problema numero uno da risolvere (o prima difficoltà da affrontare, se preferisci): la società ci serve ma bisogna anche servirla, è sì al mio servizio ma nella misura in cui io sono disposto a mettermi al suo. Tutti i vantaggi che mi offre (protezione, aiuto, compagnia, informazione, divertimento, ecc.) sono accompagnati da limitazioni, da richieste, da istruzioni per l’uso: insomma, da imposizioni. Mi aiuta a modo suo, senza chiedermi come preferirei essere aiutato e il più delle volte, se obietto alle sue imposizioni o rifiuto il suo aiuto, trova il modo di punirmi. Per farla breve, è impossibile mantenere le distanze dalla società degli esseri umani: sei sempre compromesso con lei fino al collo, spesso più di quanto non vorresti. Quando ci si rende conto di questo, prima, istintivamente, nell’infanzia e poi, più coscientemente, nell’adolescenza, si prova rabbia e voglia di ribellarsi. Non le ho inventate io tutte queste regole e queste limitazioni e nessuno ha chiesto il mio parere su di esse: perché dovrei rispettarle? Da dove vengono? Si possono cambiare in modo tale che risultino più di mio gusto? Eccoci a un punto importante della questione e di tutto quello che cercherò di dirti in questo libretto. Se questo fosse un film, adesso suonerebbe il tamburo: ratataplan! Attenzione: le leggi e le imposizioni della società non sono niente di più (ma neppure niente di meno) di convenzioni. Per quanto sembrino antiche, rispettabili o temibili, non sono parte inamovibile della realtà, come, per esempio, la legge di gravità, né nascono dalla volontà di un dio misterioso: sono state inventate dagli uomini e rispondono a propositi umani comprensibili, seppure a volte così antichi che ormai non siamo più in grado di capirli; comunque possono essere modificate o abolite da un nuovo accordo fra gli umani. Naturalmente non devi confondere le convenzioni con i capricci, né credere che la «convenzionalità» non abbia sostanza, una bagattella che può essere eliminata senza esitazioni. È vero che ci sono convenzioni (come portare la cravatta per accedere a un certo ristorante, o non mettersi i calzini bianchi per poter ballare in quella tal discoteca) che sono solo l’espressione di pregiudizi abbastanza stupidi, ma ce ne sono altre (non uccidere il vicino di casa o mantenere la parola data, per esempio) che meritano di essere apprezzate infinitamente di più. Non tutte le convenzioni sono usa e getta: molte di esse hanno conseguenze decisive per la nostra vita, e comunque considera che in assenza assoluta di convenzioni (il linguaggio stesso è convenzionale) non sapremmo vivere. Dire che tradizioni e leggi sono convenzionali non significa negare che nascano da condizioni naturali della vita umana, cioè che abbiano un’origine nient’affatto convenzionale. Negli animali esistono meccanismi istintivi che li obbligano a fare certe cose impedendo loro di farne altre. In questo modo l’evoluzione biologica protegge le specie dai pericoli e ne assicura la sopravvivenza. Però noi uomini abbiamo istinti meno certi o, se preferisci, più flessibili. Le bestie azzeccano quasi tutto quello che fanno, però non possono fare più di una certa quantità di cose e possono cambiare poco; gli uomini, invece, si sbagliano continuamente anche nelle cose più elementari, ma non smettono mai di inventarne di nuove... trovate geniali ma anche geniali assurdità. Perché? Perché oltre all’istinto possediamo la razionalità, grazie alla quale possiamo fare cose di gran lunga migliori (e di gran lunga peggiori) degli animali. È la ragione che fa di noi degli animali così strani, così poco... animali. Mi chiederai che cos’è la ragione: è la capacità di stabilire convenzioni, cioè leggi che non ci siano imposte dalla biologia ma che siamo noi ad accettare volontariamente. È la ragione che ci permette di integrare e completare il nostro istinto; siamo, vediamo se mi capisci, istintivamente razionali. Gli animali hanno solo il codice genetico; naturalmente ce l’ha anche l’uomo, ma insieme al codice penale, al codice civile, al codice stradale... e a molti altri. Queste leggi stabilite fra di noi e alle quali obbediamo con il cervello (e non solo con le cellule) non sono né totalmente istintive né totalmente razionali, ma un miscuglio di stimoli differenti e a volte paradossali. Siccome le convenzioni in parte derivano dall’istinto, hanno come scopo ultimo quello a cui tendono tutti gli istinti: la sopravvivenza della specie. Ma poiché sono anche istintivamente razionali, oltre al desiderio di sopravvivere, rispecchiano anche quello di vivere meglio e di più. Le società umane non sono semplicemente il mezzo grazie al quale alcuni animaletti un po’ tarati come noi possono vivere un po’ più al sicuro in un mondo ostile. Siamo animali sociali, ma non nel senso in cui lo sono tutti gli altri animali. Prima ti ho detto che la differenza fondamentale fra gli animali e gli uomini è che noi abbiamo la «ragione» oltre agli istinti. Ma è altrettanto vero che anche l’animale ha un barlume di ragione, una certa capacità di inventiva e di improvvisazione che gli consente di sganciarsi dall’automatismo degli istinti programmati geneticamente. Naturalmente la differenza d’intensità è talmente grande che a malapena possiamo parlare di «ragione» animale come parliamo di quella umana: non è la stessa cosa essere in grado di fare un passo in avanti e battere il record dei cento metri piani... anche se chi batte il record comincia sempre facendo un passo in avanti! Ma, in fin dei conti, forse si tratta solo di somministrazione in dosi diverse dello stesso prodotto. Può darsi che la vera differenza fra animali e (animali) umani sia un’altra: gli animali muoiono, gli uomini sanno che devono morire. Gli animali vivono nello sforzo di non morire, mentre gli uomini vivono lottando contro la morte, ma in attesa del momento imprevedibile in cui essa li sorprenderà. A differenza degli altri animali, che il cielo li benedica, l’uomo ha esperienza della morte, ne serba memoria e sa con certezza che dovrà morire. Dunque gli animali «comuni» cercano di evitare la morte e questa, in genere, li sorprende senza fatica né spavento, come il sonno di ogni notte; gli umani, invece, non solo tentano di prolungare la vita, ma si ribellano contro la morte, si oppongono alla sua necessità, s’inventano cose per sopportare il peso della sua ombra. È questa la differenza sostanziale fra la società degli uomini e la società degli animali definiti sociali: quest’ultimi si sono uniti in gruppi per meglio garantirsi la sopravvivenza mentre noi aspiriamo... all’immortalità.
Non ti sei mai chiesto perché gli uomini vivono in un modo tanto complicato? Perché non si accontentano di mangiare, accoppiarsi, proteggersi dal freddo e dal caldo, riposarsi un po’... e poi di ricominciare da capo? D’altra parte c’è sempre qualche ecologista benintenzionato che consiglia di tornare alla «semplicità» naturale. Ma gli uomini sono mai stati veramente «semplici»? Forse molto tempo fa, perché la verità è che non abbiamo alcuna testimonianza di uomini che non siano stati complicati. Anche le tribù più primitive di cui siamo a conoscenza hanno una gran quantità di invenzioni sofisticate, anche se si tratta solo di invenzioni mentali: miti, leggende, riti, magie, cerimonie funebri o erotiche, tabù, ornamenti, mode, gerarchie, eroi e demoni, canti, barzellette, scherzi, danze, gare, forme di ebbrezza, ribellioni... Gli uomini non si limitano mai a lasciarsi vivere, senza ulteriori complicazioni: in ogni gruppo umano ci sono i curiosi, i perfezionisti e gli esploratori. Evidentemente una caratteristica tipica degli umani è questa sorta di inquietudine che gli altri esseri viventi sembrano non provare. Un’inquietudine fatta in gran parte di noia e di paura: abbiamo tutti, compresi i più sciocchi tra noi, un cervello enorme che vive di informazioni, di novità, di bugie e di scoperte; quando viene meno l’eccitazione intellettuale, a forza di abitudine, i più inquieti (i più umani?) cominciano a cercare, al principio con prudenza e poi freneticamente, nuove forme di stimolo. A uno viene in mente di scalare una montagna inaccessibile, un altro vuole attraversare l’oceano per vedere che cosa c’è dall’altra parte, un altro ancora si dedica a inventare storie o a costruire armi, c’è chi vuole diventare re, e non manca mai quello che sogna di avere tutte le donne per sé. Quand’è che bisogna fermarsi e dire «basta»? L’ecologista a cui abbiamo accennato prima pretende di tornare indietro, ma come? E come si fa a decidere ciò di cui dobbiamo accontentarci, se quello che caratterizza noi umani è l’inquietudine? Si incomincia dedicandosi alla terracotta e si finisce con il razzo lanciato sulla luna o il missile che distrugge il nemico; si parte dalla magia, ma si continua a tentoni fino ad Aristotele, Shakespeare o Einstein... L’inquietudine è sempre presente e in continuo aumento: perché sognare di tornare a quella primitiva e relativa semplicità quando è proprio da essa che nascono le attuali complicazioni? Perché credere che non torneremmo sugli stessi passi, se potessimo ricominciare daccapo?
Sono proprio il turbamento, l’inquietudine, la paura permanente e la noia le ragioni per cui le società umane non si accontentano di sopravvivere, ma aspirano all’immortalità. Vedi, per gli uomini, in grado di avere coscienza della morte, di comprenderla come una fatalità ineluttabile, di pensarla, morire non è semplicemente uno dei tanti incidenti biologici, ma il simbolo decisivo del destino umano, all’ombra del quale e contro il quale edificano la fantasiosa complessità della loro vita. Non sembra che ci siano rimedi reali ed efficaci contro la morte: come disse il poeta Borges in una milonga, «la gente ha l’abitudine di morire», e non c’è modo di levargliela. Invece i rimedi simbolici, cioè quelli che ci gratificano e ci danno un certo sollievo di fronte alla certezza della morte, sono di due tipi: religiosi e sociali. Quelli religiosi già li conosciamo (la vita oltre la morte, l’immortalità dell’anima, la resurrezione del corpo, la metempsicosi, lo spiritismo, ecc.), e son faccende di cui non voglio occuparmi, visto che non voglio mettermi a far concorrenza ai molti uomini di chiesa che già ci sono al mondo. Ciò che qui mi interessa sono i rimedi sociali o civili con cui gli uomini non solo sono riusciti a salvaguardare le nostre vite, ma anche, e soprattutto, a fortificare i nostri animi contro la presenza della morte, vincendola simbolicamente, giacché non esiste altro modo. Ti dico che le società umane funzionano sempre da macchine dell’immortalità alle quali noi individui ci colleghiamo per ricevere scariche simboliche e vitalizzanti che ci consentano di combattere l’innegabile minaccia della morte. Il gruppo sociale si presenta come il nucleo che non può morire, a differenza degli individui, e le sue istituzioni servono ad arginare ciò che ognuno di noi teme del destino mortale: se la morte è la solitudine definitiva, la società ci offre una compagnia permanente; se la morte è debolezza e inazione, la società si propone come il luogo della forza collettiva e l’origine di innumerevoli cose da fare e di gesta gloriose; se la morte cancella ogni differenza fra gli individui e livella tutto, la società offre le sue gerarchie, la possibilità di distinguersi e di essere riconosciuti e ammirati dagli altri; se la morte è oblio, la società alimenta tutto ciò che è memoria, leggenda, monumento, celebrazione della gloria passata; se la morte è insensibilità e monotonia, la società potenzia i nostri sensi, con le sue arti raffina il nostro palato, il nostro udito e la nostra vista, ci prepara diversivi impegnativi ed emozionanti con cui rompere l’avvilente routine. La morte ci spoglia di tutto e per questo la società si impegna ad accumulare e a produrre ogni tipo di cose e di ricchezze; la morte è silenzio, la società gioco di parole, di comunicazioni, di storie, di informazioni, ecc. Per questo la vita umana è tanto complicata: perché siamo sempre lì a inventarci cose nuove e gesti inediti per esorcizzare la morte con il suo corteo di fantasmi. Per questo gli uomini possono morire contenti per difendere le società in cui vivono: perché in quel caso la morte non è un incidente senza senso, ma la possibilità che l’individuo ha di scommettere tutto volontariamente su ciò che invece non muore, su ciò che rappresenta collettivamente la negazione della morte. E anche per questo gli uomini vivono la distruzione delle loro comunità come un trionfo della morte ben più grave e terribile di qualsiasi morte individuale...
La morte è «naturale», e per questo la società umana è, in un certo modo, «sovrannaturale», artificiale, è la grande opera d’arte che noi uomini conveniamo gli uni con gli altri (è la convenzione che ci unisce ed è anche ciò che ci conviene di più), il luogo vero e proprio dove trascorre questa miscela di mito e biologia, metafora e istinto, simbolo e chimica che è l’esistenza umana. Aristotele disse che siamo «animali cittadini», esseri di natura politica, cioè esseri di natura un po’... sovrannaturale, ed è per questo che ci troviamo qui riuniti. Adesso possiamo già incominciare a chiederci quali siano i modi migliori per organizzarci e quali i pericoli che minacciano la comunità in cui viviamo.

Vatti a leggere...

«Da queste considerazioni è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole [...]
Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo, e l’uomo, solo fra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato» (Aristotele, Politica, I [A], 1253 a, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 6-7).
«La lingua dei romani, forse il popolo più politico che abbiamo conosciuto, usava le espressioni ‘vivere’ e ‘essere fra gli uomini’, e ‘morire’ e ‘cessare di essere fra gli uomini’ come sinonimi» (H. Arendt, Vita activa, la condizione umana, Bompiani, Milano 1989).
«Ma la vita politica non è la sola forma di esistenza umana comunitaria. Nella storia dell’umanità lo Stato inteso nella sua forma attuale figura come un prodotto relativamente tardo del processo civilizzatorio. Assai prima...

Indice dei contenuti

  1. 1. Siamo qui riuniti...
  2. 2. Obbedienti e ribelli
  3. 3. Vediamo un po’ chi è che comanda
  4. 4. La grande invenzione greca
  5. 5. Tutti per uno, uno per tutti
  6. 6. Le ricchezze del mondo
  7. 7. Come far guerra alla guerra
  8. 8. Liberi o felici?
  9. Epilogo. Potevamo arrivare fin qui
  10. Dizionario del cittadino che non ha paura di sapere
  11. Premessa
  12. Commiato