
- 260 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Mente e linguaggio
Informazioni su questo libro
Organizzati secondo un criterio cronologico e concettuale, i contributi di Jerry A. Fodor presentati in questa raccolta affrontano alcune delle questioni più scottanti della filosofia della mente e della scienza cognitiva contemporanee.
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PhilosophyCategoria
Logic in PhilosophyIntroduzione. Naturalizzare le menti: un percorso introduttivo al pensiero di Jerry A. Fodor (di Francesco Ferretti)
Jerry A. Fodor, professore di filosofia al Rutgers Center for Cognitive Science (RuCCS), ha svolto per parecchi anni la sua attività al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, uno dei luoghi sacri della scienza cognitiva ortodossa (da dove, secondo lo psicologo George Miller, con il Symposium on Information Theory tenutosi il 10-12 settembre 1956, ha avuto inizio l’avventura della scienza cognitiva). Il periodo di militanza al MIT merita particolare attenzione: per inquadrare correttamente il pensiero del nostro autore, infatti, è decisivo esplicitare i termini del suo rapporto con il cognitivismo (la teoria dell’Establishment). Tale rapporto è, di fatto, ambivalente: da una parte, Fodor è senz’altro uno dei promotori di riferimento dell’ortodossia cognitivista; dall’altra parte, però, per aver compiuto delle vere e proprie svolte teoriche e, ancor più spesso, per aver promosso ipotesi decisamente controcorrente, egli rappresenta una nota dissonante all’interno di questo paradigma teorico. Tenuto conto di tale duplicità , divideremo questa introduzione in due parti: nella prima delineeremo un breve schizzo dei concetti principali del cognitivismo sottolineando quelli che vengono sottoscritti dal nostro autore; nella seconda parte, presentando la successione e la struttura dei brani dell’antologia, avremo modo di mettere in luce la peculiarità del pensiero di Fodor mostrando quegli aspetti che, su alcuni punti sostanziali, lo pongono anche in forte contrasto con l’Establishment.
La mente nella scienza cognitiva: rappresentazioni e computazioni
L’obiettivo della scienza cognitiva nascente è definito a chiare lettere nello State of the Art Report commissionato nel 1978 alla Sloan Foundation, nata a New York con l’intento di finanziare progetti di ricerca nuovi e promettenti: «scoprire le capacità di rappresentazione e di calcolo della mente e la loro rappresentazione strutturale e funzionale nel cervello» (cit. in Gardner, 1985, trad. it. p. 50). Rappresentazione, calcolo, cervello, le tre parole chiave della scienza cognitiva, segnano, enfatizzando ciò che avviene all’interno degli individui, una cesura netta con il comportamentismo, il paradigma teorico che, affermatosi nel primo decennio del nostro secolo, aveva rappresentato la teoria ufficiale nello studio della mente sino alla metà degli anni Cinquanta. Questo mutamento di prospettiva poggia su due assunti di fondo: la centralità accordata alle rappresentazioni mentali (secondo cui l’agire esterno è mediato da stati e processi interni); il riconoscimento del ruolo esplicativo della metafora del calcolatore (secondo cui i processi di pensiero sono forme di calcolo).
Contro la riduzione della mente allo schema stimolo-risposta e al comportamento effettivo, il cognitivismo rivaluta il ruolo delle rappresentazioni mentali. Secondo Fodor, per poter scegliere l’azione più appropriata in una determinata circostanza, infatti, l’organismo deve disporre di mezzi che gli consentano non solo di descrivere la situazione in cui si trova, ma di rappresentarsi anche: le azioni possibili in quella data situazione; le probabili conseguenze di ognuna delle azioni possibili; un ordine di preferenza nella scelta delle opzioni (Fodor, 1975, p. 31). Per interpretare e produrre il comportamento, dunque, non è sufficiente dire che esso è determinato e guidato dalla realizzazione di un certo risultato; ciò che è richiesto, in aggiunta, «è che l’agente percepisca il suo agire come capace di produrre il risultato che egli vuole» (Rollins, 1989, p. 2) – ciò che è richiesto, in altre parole, è che l’agente possa «agire nella mente» prima dell’agire effettivo, ovvero che possegga un sistema rappresentazionale.
Nella storia della filosofia la teoria rappresentazionale della mente (trm) ha avuto fortune alterne. Uno dei problemi più rilevanti promossi dal dibattito sul tema è stato (e lo è ancora) la questione del «formato» della rappresentazione. Nell’empirismo classico le rappresentazioni erano immagini (o idee) degli oggetti o stati di cose rappresentati. Per Fodor, invece, in sintonia con molti autori contemporanei, il sistema rappresentazionale è un vero e proprio «linguaggio del pensiero»: i contenuti dei pensieri sono espressi in strutture simboliche (le formule del Mentalese) che, per quanto più astratte degli enunciati dei linguaggi naturali, devono avere una sintassi e una semantica molto simile alla loro. Sul perché le rappresentazioni debbano avere proprio tale tipo di forma e, più in generale, sulla centralità del «realismo rappresentazionale» nel pensiero di Fodor rimandiamo alla scheda introduttiva alla Parte terza di questa antologia. Il punto che qui ci preme rilevare è la forza esplicativa della trm rispetto a un’altra questione: oltre a spiegare il modo di codificare l’informazione, infatti, tale teoria è indispensabile per dar conto dei processi mentali – il costo di non avere un linguaggio del pensiero è, secondo Fodor (1987), non avere una teoria dei processi mentali. La trm non è dunque solo un’ipotesi teorica sulla natura del contenuto mentale, ma è anche un’ipotesi empirica che spiega come funziona, di fatto, una mente-cervello capace di elaborare quel contenuto e di produrre un comportamento ad esso conforme. Ed è qui che la metafora del calcolatore entra prepotentemente in gioco.
Nella storia della filosofia le macchine sono sempre state considerate un modello per le concezioni materialistiche della natura umana, ma è solo con l’avvento del computer che la metafora diventa più realistica e plausibile e quindi induce un vero e proprio mutamento di prospettiva. I cognitivisti hanno a loro disposizione un modello di simulazione capace di estendere il meccanicismo alla sfera del mentale. Questa rivoluzione non avrebbe mai potuto aver luogo senza l’avvento del computer: per utilizzare la macchina come metafora dei processi interni è necessaria infatti una nozione più astratta di meccanismo (Pylyshyn, 1984). Il computer può essere considerato come un modello adeguato di questo livello di astrazione: i calcolatori, infatti, possono essere visti, oltre che come meccanismi fisici che agiscono in conformità alle leggi della fisica, come dispositivi che, eseguendo operazioni su simboli e strutture simboliche, agiscono nel rispetto di quelle leggi che buona parte della tradizione occidentale ha posto a fondamento del pensiero: le leggi della logica. Solo questa nozione più astratta di meccanismo è capace di dar corpo all’idea di Thomas Hobbes secondo cui «ragionare non è nient’altro che calcolare». Il punto chiave della simulazione del mentale non è l’imitazione, per quanto fedele, dell’agire e del comportamento umani (come nel caso degli automi di Jacques de Vaucanson), ma è l’imitazione di quei processi interni che stanno alla base del suo funzionamento. Se consideriamo gli stati mentali come strutture simboliche e i processi mentali come operazioni su tali strutture, allora il calcolatore (manipolatore di simboli) diviene una metafora estremamente proficua di una nuova concezione della natura umana: l’uomo come elaboratore di informazioni. È la teoria computazionale della mente (tcm), dunque, a richiedere il darsi delle rappresentazioni mentali:
Utilizzare questa sorta di modello equivale allora a presupporre che l’agente abbia accesso ad un sistema rappresentazionale davvero molto ricco. In accordo con tale modello, infatti, la decisione è un processo computazionale e l’atto che l’agente esegue è la conseguenza delle computazioni definite sulle rappresentazioni di azioni possibili. Senza rappresentazioni, niente computazioni. E senza computazioni nessun modello (Fodor, 1975, p. 31).
La tcm è, secondo Fodor, l’idea per cui i processi di elaborazione hanno accesso soltanto alle proprietà formali (non semantiche) dei simboli. La macchina di Turing è l’esemplificazione ideale della «condizione di formalità » alla base dell’idea dei processi mentali come una forma di calcolo. Con l’intento di definire in modo rigoroso la nozione intuitiva di funzione computabile (una procedura capace di risolvere un problema applicando in modo meccanico un numero finito di istruzioni), Alan Turing (1950) si propose di produrre un modello formale dell’attività di un essere umano che esegue un calcolo. A tale scopo ideò una serie di macchine calcolatrici astratte (in cui a contare erano le relazioni funzionali tra le parti piuttosto che la loro realizzazione fisica) che presero il nome di Macchine di Turing (mt). Una mt è composta da un’unità di esecuzione, che esegue le operazioni specificate dallo stato in cui la macchina si trova e dal simbolo che sta leggendo; da un nastro (potenzialmente infinito) diviso in celle su cui sono scritti i simboli dell’alfabeto finito di quella macchina. Oltre a scrivere simboli o a cancellarli, l’unità di esecuzione può spostarsi sul nastro (a destra e a sinistra), fermarsi e porsi in un certo stato interno. Le operazioni dell’unità di esecuzione sono determinate da una sequenza di regole condizionali del tipo: «Se ti trovi nel presente stato iniziale e stai leggendo questo simbolo, allora esegui la seguente operazione, se è il caso, spostati sul nastro e assumi il seguente stato finale». La capacità operativa di una mt (ciò che rende, poniamo, quella macchina una macchina per l’addizione piuttosto che per la moltiplicazione) è determinata dalla tavola delle regole condizionali, ovvero dalla successione delle operazioni che la macchina deve eseguire per risolvere un certo compito: rispettando tale successione, dato un input opportunamente codificato, la macchina è capace di produrre in output il risultato scritto sul nastro. A dispetto della semplicità delle sue operazioni di base, una mt è molto potente: ogni funzione computabile per mezzo di un algoritmo è, infatti, calcolabile da una mt (tesi di Turing-Church). Tale potenza è resa più evidente dal fatto che una mt può diventare una mt «universale», una macchina, cioè, capace di simulare il comportamento di qualsiasi altra mt e dunque, per la tesi di Turing-Church, di computare qualsiasi funzione calcolabile mediante un algoritmo. Ma, se la macchina di Turing può eseguire qualsiasi funzione calcolabile e il pensiero è una forma di calcolo, allora il computer è una metafora adeguata dei processi mentali (ovvero i processi mentali sono, almeno a un certo livello di astrazione, processi meccanici).
Il comportamento, si è detto, è interpretabile in riferimento agli stati rappresentazionali degli individui. La distinzione software-hardware alla base della metafora del calcolatore si sposa in modo perfetto con la tesi rappresentazionale. A patto che le rappresentazioni siano di un certo tipo (quelle che il sistema è in grado di elaborare), inoltre, l’adesione alla tesi rappresentazionale segna anche un modo di spiegare la natura dei processi mentali. Per quanto la metafora del calcolatore comporti dei vantaggi indubbi nella formulazione di un’ipotesi non dualistica di mentalismo, è anche vero che essa lascia aperto un problema di carattere più generale. I processi computazionali (la mt ne è un esempio eclatante) si attengono alla condizione di formalità , ovvero sfruttano soltanto le proprietà sintattico-formali dei simboli. Ma come può una macchina che esegue operazioni sulla forma dei simboli accedere, per ciò stesso, anche al contenuto che tali simboli esprimono? Per rispondere a questa domanda (di vitale importanza per il futuro della metafora del calcolatore) Fodor dovrà , come vedremo nel prossimo paragrafo, aderire ad una speciale concezione («stretta», ovvero incentrata soltanto su «ciò che avviene nella testa degli individui») di contenuto. Ora, è realmente possibile dar conto degli aspetti intenzionali del pensiero (e per loro tramite anche del «significato») lasciando fuori gioco il rapporto degli individui con «ciò che è fuori delle loro teste»?
Fodor e la naturalizzazione del mentale: due ipotesi a confronto
La naturalizzazione del mentale è il vero filo conduttore del pensiero di Fodor ed è per questo che il piano della presente antologia ruota attorno al dibattito internismo/esternismo, una questione decisiva a tale riguardo. I brani che seguono mettono in risalto due diverse nozioni di naturalizzazione (per certi versi contrapposte), a cui Fodor aderisce in fasi diverse del suo pensiero. La successione dei brani rispetta un preciso piano argomentativo: dar spazio alle ragioni (che in parte coincidono con l’evoluzione diacronica del pensiero di Fodor) che sottostanno al passaggio da una concezione solipsistica del mentale (incentrata su ciò che avviene nella testa degli individui) ad una concezione informazionale (in cui prevale il ruolo causale col mondo esterno). Entrambe queste ipotesi comportano vantaggi e svantaggi reciproci: la prima spiega la causalità del mentale nei termini della causalità fisica (dando conto in termini non dualistici del rapporto mente-corpo), ma non analizza il rapporto tra stati intenzionali e mondo esterno; la seconda spiega il contenuto degli stati mentali in riferimento al rapporto organismo-ambiente, ma mette in serio pericolo la tesi rappresentazionale della mente (così proficua nella spiegazione del comportamento). Lo sforzo di Fodor è oggi di far convergere le due concezioni di naturalizzazione, dando luogo ad un «esternismo moderato» in cui abbia ancora spazio la tesi rappresentazionale. Sono le ragioni di questo intento a costituire l’ossatura di base dell’antologia.
Accanto al tema generale della naturalizzazione, la cui analisi scandisce la successione dei brani dell’antologia, un secondo tema, ortogonale rispetto al primo, riguarda la distinzione tra la natura intenzionale dei pensieri e l’architettura funzionale dei processi cognitivi. Dal punto di vista di questa distinzione, l’antologia appare distinta in due tipi di contributi: quelli (dichiaratamente filosofici) che affrontano questioni come l’intenzionalità , la rappresentazione, il contenuto mentale; quelli (di carattere psicologico) che riguardano, invece, il problema di come deve essere strutturato un sistema fisico per rappresentare tali contenuti: che tipo di operazioni deve compiere, quali facoltà deve possedere, quali meccanismi deve adoperare per l’apprendimento, la memorizzazione e, più in generale, per l’elaborazione dell’informazione che utilizza. Il punto rilevante consiste nel fatto che i due aspetti, per quanto distinti, devono, per Fodor, trovare un punto di convergenza: non solo perché, in generale, le scienze cognitive mirano a far scienza della mente e quindi ad assottigliare il limite di demarcazione tra scienze empiriche e filosofia; ma, più nello specifico, perché secondo Fodor la particolare natura di un sistema di elaborazione ha ricadute immediate sul piano della natura di ciò che viene elaborato (per l’analisi di questo aspetto della questione rimandiamo alla scheda introduttiva della parte relativa all’architettura funzionale). Fatta questa precisazione, torniamo alla questione princi...
Indice dei contenuti
- Introduzione. Naturalizzare le menti: un percorso introduttivo al pensiero di Jerry A. Fodor (di Francesco Ferretti)
- Parte prima. La natura degli stati mentali
- Gli atteggiamenti proposizionali
- Parte seconda. Questioni di architettura funzionale
- Innatismo
- La mente modulare
- Percezione e intenzionalitÃ
- Percezione e contenuto mentale
- Parte terza. Il realismo intenzionale
- La teoria rappresentazionale della mente (trm)
- Parte quarta. La natura del contenuto
- Il problema
- La teoria
- Parte quinta. La questione eponima
- La «questione eponima»
- Bibliografia
- Il curatore