Diario italiano
eBook - ePub

Diario italiano

1976-2006

  1. 524 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Diario italiano

1976-2006

Informazioni su questo libro

Miriam Mafai si racconta attraverso i suoi articoli. Esce il ritratto straordinario di una grande giornalista che riesce a raccontare le vicende della politica e i suoi protagonisti con asciutta obiettività, a renderli vivi senza perdersi nel pettegolezzo minuto e soprattutto senza smarrire il filo della storia complessiva.Chiara Valentini, "L'espresso"Raccontando gli ultimi trent'anni della nostra vicenda collettiva, in Diario italiano Miriam Mafai finisce per svelare molto anche di sé, una donna capace di leggere oltre i fatti intravedendo la possibilità del cambiamento senza scoramenti, anche nei tempi più cupi.Titti Marrone, "Il Mattino"Note, editoriali, inchieste, fatti di cronaca, battaglie civili, storie di politica. Le pagine di un diario ideale che ci riguarda tutti: l'Italia che non c'è più e l'Italia dei nostri giorni.

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Informazioni

Argomento
Economia
Categoria
Giornalismo

La fine delle rivoluzioni

Quelle trentamila persone che sognano il giorno della Grande Rivolta

Roma «Grande è il disordine sotto il cielo: la situazione è eccellente»: la vecchia massima di Mao, ormai espulsa dai tatzebao di Pechino, campeggia ancora nelle celle di Trani. «Tutte le galere salteranno in aria – l’unica giustizia è quella proletaria»: l’utopia anarchica, diventata impegno di lotta, vigila sulle giornate dei detenuti di Palmi. A Messina un parlamentare del Pdup chiedeva a Maria Pia Vianale informazioni sulla vita del carcere: «Chiedilo al direttore», si è sentito rispondere con alterigia e disprezzo. A Trani un parlamentare radicale si è sentito apostrofare da uno dei capi della colonna romana delle Br: «Attento al gioco che fai: non ti accorgi che ormai siamo vicini alla fine?».
La fine è la fine del carcere: la Grande Rivolta, come sognano i detenuti comuni; la Rivoluzione Proletaria, come pensano e promettono i detenuti «politici». La madre di Ognibene, il brigatista rosso di Reggio Emilia condannato all’ergastolo, sembra molto tranquilla: «Tra sei mesi o sei anni sarà lui, saranno loro gli eroi di questo paese. Basta aspettare». Laura Grimaldi, madre di un detenuto in attesa di giudizio, imputato nel delitto Torreggiani, spiega: «Hanno sempre fame di sapere cosa c’è fuori, cosa succede fuori, quali sono gli umori fuori. Non gli bastano i giornali. Vivono una realtà deformata e vedono deformata anche la realtà esterna. Del nostro disordine, del nostro sfascio captano solo il senso del disordine, dello sfascio, della debolezza dello Stato. Noi che siamo fuori sappiamo benissimo che questo disordine è elastico, gommoso, a suo modo resistente. È uno sbrindellamento che regge, nonostante tutto. Ma certo, chi sta dentro deve pensare, per sopravvivere, che qualcosa fuori accadrà...».
Qualcosa accadrà. Privi ormai di supporto nelle fabbriche o nelle scuole, dove godettero di qualche simpatia e solidarietà negli anni passati, i sostenitori della lotta armata hanno concentrato tutta la loro attenzione, tutto il loro sforzo, sulle carceri: una popolazione costante di oltre 30.000 detenuti, ma un luogo attraverso il quale ne passano, nel corso di un anno, almeno altrettanti.
La risoluzione strategica delle Br dell’ottobre scorso e i comunicati diffusi durante la prigionia di D’Urso parlano chiaro: si tratta di «far uscire definitivamente la lotta dei proletari prigionieri dalle mura delle carceri collocando il proletariato extralegale all’interno del movimento rivoluzionario. La lotta contro l’annientamento carcerario continua fino al conseguimento dell’obiettivo finale: distruzione di tutte le carceri e liberazione di tutti i proletari imprigionati».
L’impostazione è diversa da quella iniziale dei Nap, che si proponevano la «politicizzazione» dei detenuti comuni per immetterli poi all’esterno nelle file della lotta armata. «Detenuti comuni, sbandati, ribelli senza speranza – annunciava Sante Notarnicola, il più giovane della banda Cavallero – noi ve li ritorneremo con una coscienza rivoluzionaria». Il proposito del partito armato appare oggi diverso, più ambizioso e pericoloso. Non si tratta più di «restituire» alla società dei detenuti comuni politicizzati, si tratta invece di ricostituire all’interno delle stesse carceri la banda armata, se possibile tra «politici» e comuni, rendendo ingovernabile il carcere, attraverso il collegamento con l’esterno, la rivolta e il regolamento di conti feroce con chi si tira indietro o tradisce.
Prima del rapimento D’Urso – che è stata una tappa politicamente rilevante di questa strategia – si erano avute, in ottobre, le rivolte di Trento, di Volterra, di Nuoro. Questa la più feroce: due dei detenuti del carcere di massima sicurezza sono stati trucidati dai rivoltosi: Iaquinta è stato garrotato con un lenzuolo e lasciato con un limone in bocca; Zarillo è stato trafitto da decine di pugnalate. Sul corpo di Iaquinta è stata tatuata a sangue la stella a cinque punte delle Br. Il partito armato assume così in carcere, attraverso questa carica di violenza, una sua mafiosa autorità, diventando il punto di riferimento di tutta la rabbia che bolle non solo nei cosiddetti «carceri speciali», ma nel complesso del mondo carcerario.
I carceri di massima sicurezza vennero istituiti nella primavera del 1977 con un provvedimento ministeriale. Fino allo scorso anno erano dieci: Ascoli, Cuneo, Novara, Fossombrone, Trani, Palmi, Nuoro, Termini Imerese, Pianosa, Favignana; Asinara e Messina per le donne. Quello di Favignana è stato chiuso nella primavera del 1980, dopo un’ispezione del sottosegretario Costa. Incerta la situazione dell’Asinara: la sezione di massima sicurezza di Fornelli infatti non è stata svuotata. Ci sono ancora otto detenuti. Esiste infine una sezione di massima sicurezza presso Rebibbia, e analoghe sezioni a Torino, Milano, Genova e Napoli, dove normalmente vengono inviati i detenuti nel momento del processo.
Nei carceri di massima sicurezza risultano rinchiusi 718 detenuti, la metà dei quali in attesa di giudizio.
Il 1976, l’anno che ha preceduto l’istituzione dei carceri di massima sicurezza, passerà alla storia dell’organizzazione carceraria come «l’anno delle evasioni»: se ne erano registrate complessivamente 515, più di una al giorno. L’istituzione del carcere di massima sicurezza ha ridotto drasticamente il fenomeno: nel primo semestre del 1980 si sono avute soltanto 66 evasioni. Questo obiettivo quindi – impedire la fuga dei detenuti – è stato sostanzialmente raggiunto.
«Il carcere di massima sicurezza – ricorda il socialista Dino Felisetti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio – si giustificava proprio con questo obiettivo e nel concreto si specificava attraverso la sorveglianza esterna, affidata, del tutto eccezionalmente, ai carabinieri anziché al corpo delle guardie carcerarie. Fu Dalla Chiesa a sovraintendere a questa nuova sistemazione, che doveva scoraggiare e impedire ogni tentativo di fuga. Col passare del tempo, tuttavia, la cosiddetta massima sicurezza è stata ricavata anche attraverso una compressione del trattamento interno. L’Asinara è stata, di questa compressione del trattamento interno, l’esempio più clamoroso, ma non il solo. Insomma da Fossombrone, da Cuneo, da Nuoro oggi non si evade. Ma come ci si vive? E, soprattutto, perché e in base a quali criteri ci si viene destinati?».
Non esistono in questa materia principi codificati. Il criterio per il quale un detenuto viene inviato a Trani o a Pianosa, a Nuoro o a Ascoli è quello della «massima pericolosità». Ma, appunto, cosa significa «massima pericolosità»? Chi la decide?
Nel corso dell’interrogatorio cui è stato sottoposto durante il sequestro, il giudice D’Urso ha rinviato ai carabinieri la responsabilità di questa classificazione: «I carabinieri – dice – hanno fatto degli elenchi indicativi»; «i carabinieri hanno una maggiore conoscenza dei prigionieri». Ma è certo che nei carceri di «massima sicurezza» sono finiti anche degli innocenti (è il caso di Dante Forni, di Bologna, su cui torneremo, assolto dal Tribunale di Milano per il reato di organizzazione di banda armata che gli era stato addebitato). È altrettanto certo che il timbro «massima pericolosità» con cui viene contrassegnato il fascicolo di un detenuto può stare a indicare le cose più varie: può anche bollare un detenuto irrequieto, turbolento, indisciplinato. La destinazione al carcere di massima sicurezza finisce così con il rappresentare la minaccia o la punizione, che pende sul capo di qualsiasi detenuto e persino di qualsiasi guardia.
Non tutti i detenuti «politici» sono nelle carceri di massima sicurezza. E le carceri di massima sicurezza non ospitano soltanto detenuti «politici». Gomito a gomito, a Palmi come a Trani, vivono brigatisti rossi e mafiosi, terroristi già condannati a lunghe pene per omicidio e giovani in attesa di giudizio, accusati di partecipazione o costituzione di banda armata per i quali sono previste pene assai minori (nel caso che il reato sia provato).
La promiscuità impedisce a un detenuto in attesa di giudizio ogni tentativo di dissociazione, la durezza del trattamento e la vicinanza con i «capi» ne irrigidisce ed esaspera i comportamenti anti-istituzionali, quando non lo coinvolge in altri fatti criminosi, il che accade regolarmente in caso di rivolta. È quanto è già accaduto, ad esempio, a Dalmaviva, coinvolto contro la sua volontà nella rivolta dell’Asinara e che oggi disperatamente chiede, con lo sciopero della fame, di essere destinato a un carcere normale.
La vecchia affermazione per cui «il carcere è scuola di crimine» si conferma ed esalta: il «carcere speciale diventa scuola di criminalità speciale».
Attorno a questo carcere speciale matura ormai una cupa leggenda alimentata dalla mancanza di notizie ufficiali, dalla disperata denuncia delle famiglie dei detenuti, dalle proteste degli avvocati, dai documenti stessi dei terroristi. Chi ricerchi notizie attendibili, chi si proponga di informare obiettivamente la pubblica opinione su questo aspetto della realtà carceraria si colloca su un terreno scivoloso e ambiguo, esposto a coinvolgimenti psicologici e ricatti, stretto tra il pericolo di trasformarsi in inconsapevole difensore dei terroristi in nome della difesa dei diritti umani e il pericolo altrettanto reale di dimenticare, in nome della difesa dello Stato democratico, la necessità di difendere i diritti umani di tutti, anche dei detenuti. Questa difficoltà è aggravata dal fatto che il regime carcerario, anche negli stabilimenti di massima sicurezza, è tutt’altro che omogeneo.
Giovanni Caloria, 40 anni, cieco dalla nascita, professore di filosofia, uno degli imputati del 7 aprile, non è mai riuscito a farsi consegnare i libri Braille che si era fatto mandare. Ma Alberto Magnaghi, architetto, imputato nello stesso processo, ha ottenuto libri e mappe di pianificazione del territorio attorno alle quali lavora per un centro di ricerca di edilizia popolare. Per un Renato Curcio che in carcere organizza corsi di filosofia e storia, per un Toni Negri che passa il tempo scrivendo un libro su Spinoza, ricostituendo così in carcere la vita o uno spezzone della vita che conducevano all’esterno, c’è invece il detenuto distrutto dall’isolamento, dall’ozio e dalla mancanza di cure, incapace persino, una volta uscito dal carcere, di riassumere la sua identità. È il caso di Alberto Buonoconto, che, lasciato il carcere dopo cinque anni di detenzione, ha trasformato la sua stanza in una cella, e in quella cella inventata si è impiccato.
La leggenda del carcere speciale oscilla tra due atteggiamenti estremi, ambedue carichi di emotività.
Un parlamentare di Bari minimizza con un’alzata di spalle: «Ma quale carcere speciale! C’è la televisione! C’è il termosifone! Io, a casa mia il termosifone non l’ho avuto fino al 1963...». Ma c’è la denuncia, mai convincentemente smentita, di violenze fisiche che lasciano i detenuti storditi e sanguinanti. Confessa un agente di custodia: «Se picchiamo? Qualche volta sì, picchiamo. Non possiamo fare altro: è una questione di forza. O noi ci imponiamo con la durezza fisica o quelli prendono il sopravvento con le minacce e la sfrontatezza».
Dice un magistrato: «Non facciamo del pietismo, per favore. I detenuti comuni stanno molto peggio dei terroristi, ma di loro non si occupa nessuno perché non fanno proclami né minacce».
Un gruppo di familiari di detenuti di Trani ha sporto alla Procura della Repubblica regolare denuncia: «I detenuti portano ancora i segni delle percosse e delle ferite inflitte dopo la rivolta. Alcuni di loro, ricoverati presso il Policlinico con prognosi di molti giorni, in un caso di quaranta, sono stati invece dimessi dopo sole quarantotto ore. I detenuti sono stati tenuti in piedi per un giorno e una notte all’aperto con una temperatura gelida senza cibo né indumenti. Per quanto sopra i sottoscritti ritengono che possano configurarsi numerosi reati nel comportamento dei vari pubblici ufficiali in causa...».
Il senatore Valiani liquida il problema commentando: «Le condizioni di vita dei detenuti nel carcere fascista erano incomparabilmente peggiori di come non siano oggi». Il ricordo e persino l’orgoglio dell’antica sofferenza sembra far velo a ogni comprensione di questa nuova sofferenza patita da altri: anzi impedisce persino che questa sia valutata come tale.
A una mia precisa domanda, se in queste carceri speciali si consumino illegalità a danno dei detenuti, ho ricevuto spesso risposte cinicamente elusive.
«Può darsi – ammette il sottosegretario alla Giustizia Gargani – che in qualche caso il trattamento sia particolarmente, come dire?, duro; ma è un po’ inevitabile». Luciano Violante, magistrato, parlamentare comunista: «È possibile che si verifichino abusi, più tipici però dell’universo carcerario che del carcere di massima sicurezza. Intendiamoci, io ritengo che debba ottenersi il rispetto massimo delle garanzie individuali, ma per tutti, non solo per i politici».
[5 febbraio 1981]

Quei duri e tesi rapporti fra le guardie e i detenuti

Il carcere di massima sicurezza non è che uno spezzone, parziale ma emblematico, dell’universo carcerario, e a questo inevitabilmente rimanda. Esiste una contiguità di problemi, una permeabilità fisica psicologica e in certo senso politica tra l’uno e l’altro. Ed è proprio questa contiguità che consente ai detenuti «politici» di proporsi come «avanguardia», nucleo forte e dirigente di tutto il sistema carcerario. Il carcere che definiamo «normale» non è, come vorrebbe la Costituzione, luogo di recupero del condannato, ma luogo di pena e di espiazione per il giudicato e luogo di transito doloroso per il giudicando, contraddistinto dalla violenza, dall’arbitrio e dalla corruzione. È il luogo dove si rivela evidente lo scollamento tra una dichiarata giustizia e democrazia e la sua realizzazione, contraddizione che apre la strada al contagio. La tentazione eversiva rischia di propagarsi da un carcere all’altro, da un braccio all’altro, come un’infezione, proprio in virtù delle condizioni di umiliazione e di violenza in cui sono tenuti i detenuti.
«Per convincermi di quanto siano buone le leggi civili e i comportamenti del tuo paese, amico mio, tu continui a parlarmi dei palazzi, degli archi e dei costumi della tua gente. No, fratello, parlami di come funzionano i tribunali e soprattutto delle carceri e di come ci vive e ci muore la gente». Era Voltaire che lo scriveva. E vale anche per noi.
Nel carcere normale sono concentrati oggi 32.000 detenuti, dei quali 18.000 in attesa di giudizio. Cresce il numero dei detenuti giovani: circa il 40% ha meno di venticinque anni (erano, nel 1960, solo il 20%). Dopo oltre dieci anni di dibattito culturale e politico, nel 1975 venne approvata dal Parlamento una riforma penitenziaria che è una delle più avanzate del mondo. Dimentichiamocela, per favore. Come molte altre riforme di questo paese era tanto avanzata che non è stato possibile applicarla.
«Per rendere concreta la riforma – dice Dino Felisetti, presidente della Commissione Giustizia della Camera – erano indispensabili subito due cose: la riforma del corpo degli agenti di custodia e stanziamenti sufficienti. Non abbiamo avuto né l’una cosa né l’altra». Salvatore Mannuzzu, magistrato e deputato comunista, sostiene che ancora oggi il carcere «è governato da costanti intrinseche di violenza. C’è la violenza oggettiva e spontanea della galera, il suo codice nefando, la sua rovesciata scala di valori, le sue pratiche di sopraffazione e di sottomissione abietta, recluso su recluso. Il carcere in realtà rischia di essere ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Gli anni dei compromessi
  3. La fine delle rivoluzioni
  4. Un mondo nuovo?
  5. Il passato che torna