I generi: autori, meccanismi, ideologia
I generi e la critica
Dopo che in Francia, nei primi anni Sessanta, una serie di articoli e di numeri di riviste specializzate aveva esaltato l’importanza di alcuni «piccoli maestri» del cinema popolare, da Cottafavi a Freda, verso la metà degli anni Settanta c’è stato anche in Italia un forte risveglio di interesse, specie nei critici delle nuove generazioni e nell’attività dei cineclub, per il film popolare. La spinta iniziale è venuta dunque, ancora una volta, quasi in base a leggi di inesorabile ciclicità, da retrospettive e riscoperte straniere1, e poi si è radicata in un comportamento diffuso, di cui forse troppo semplicisticamente è stato valutato solo l’aspetto ludico e carnevalesco. Quello, per capirci, in base al quale, per comunicare l’intensità del piacere della scoperta e la forte attrazione per il proprio oggetto in cui, di volta in volta, immergersi del tutto, i giovani critici, dopo il tuffo e l’immersione nelle acque lutulente della produzione popolare, riemergevano gridando come Gurdulù, il personaggio del Cavaliere inesistente di Italo Calvino – che viveva solo allo stato di puri istinti animali –, «tutto mélo, tutto popolare, tutto flamboyant!». Nonostante i loro sforzi generosi e il moltiplicarsi delle retrospettive e degli omaggi, i film di Matarazzo, Gallone, Cottafavi, Freda, Costa sono sì diventati dei cult-movies da sottoporre all’adorazione perenne dei cinefili e del pubblico, ma non hanno sovvertito le classifiche dei valori. Sono stati però visti, si è ristabilito un contatto materiale con questo tipo di produzione, anche se raramente lo sguardo ha saputo allargarsi dalla singola individualità registica recuperata alle caratteristiche complessive del genere.
Al di là dell’eccessiva e ingenua passione, della scoperta volontà di farne un processo alla critica dei padri, rea di essersi troppo occupata di Visconti (e di non aver saputo eccessivamente godere e apprezzare i valori delle opere di Freda, Cottafavi, Bava, Mastrocinque, Francisci, ecc.), alcuni di questi critici cominciavano a giocare delle carte capaci di andare oltre il piacere del testo e di ricollegarsi a una prospettiva di revisione del cinema italiano, preoccupata anche di ricostituire gli anelli mancanti del sistema per tentare di saldarli alla catena complessiva. Esigenza tutto sommato corretta e sostenibile. L’ipotesi guida era – in alcuni casi – legittimata dalla proposta di partire da una elementare filologia descrittiva con cui ridisegnare le mappe di un mondo cinematografico che, come la mitica Atlantide, sembrava essere scomparso e aver lasciati, come unici segni vaganti, i testi e le grandi opere salvate miracolosamente e ancora più miracolosamente conservate nelle cineteche pubbliche2.
Nei limiti però vistosi di un lavoro critico, fatto in un’ottica pressoché indifferente al recupero delle coordinate storiche del contesto (disposto comunque a recuperare tutti gli esponenti di un sistema produttivo legato in sostanza al mondo cattolico, ai suoi aspetti ideologici più conservativi), si poteva constatare e toccare con mano, grazie ad alcune di queste proposte, che i giochi critici e le possibilità di arricchimento della conoscenza del cinema italiano del passato erano ancora aperti e ricchi di opportunità. Rivedere criticamente il cinema popolare italiano significava porsi il problema di ridefinire la trama e l’ordito di tutto il sistema narrativo-stilistico-tematico, della sua suddivisione in insiemi e delle relazioni intertestuali tra gli insiemi e i vari livelli, delle dinamiche e della differente vitalità degli insiemi stessi, dei modelli ideologici e culturali soggiacenti, della differente aggregazione e disaggregazione dei pubblici. Il recupero massiccio e l’offerta ininterrotta di prodotti popolari nelle reti televisive pubbliche e private, la ristampa in DVD di centinaia di titoli considerati come cinema spazzatura e divenuti oggetti di culto delle nuove generazioni di cinefili, consentono e consentiranno comunque di riscrivere la storia di questa produzione lavorando sui testi con una precisione negata ai critici e ricercatori di soltanto pochi anni fa. Qualche dubbio suscita invece la scelta della Mostra del cinema di Venezia del 2004 di varare una retrospettiva dal titolo Storia segreta del cinema italiano, semplicemente per riconoscere i meriti di alcuni autori e l’importanza di alcuni film di fatto già ampiamente rivisitati, apprezzati per le loro qualità stilistiche e drammatiche e considerati degni d’attenzione. Se per la critica dell’immediato dopoguerra il sistema di valori era un presupposto irrinunciabile per orientarsi e dare un senso complessivo al lavoro culturale sia dalla parte degli autori che degli interpreti e del grande pubblico, la possibilità di collocare tutti i testi in una prospettiva dilatata al massimo consente di considerare meno influenti le funzioni estetiche e di recuperare tutti i testi esaltandone anzitutto il valore di documento, di fonte storica che racchiude quantità di informazioni comunque significative sulle trasformazioni dei comportamenti, della moralità, del comune senso del pudore, delle forme elementari di comunicazione, ecc. 3.
Tra i limiti di cui ho parlato c’era anche quello di credersi gli scopritori unici e privilegiati di fenomeni ignorati dalla critica del dopoguerra. In pratica, il non aver voluto accettare il confronto con i discorsi dei padri, che pure ci sono stati e non hanno, per la verità, trascurato o perduto alcun fenomeno4. Lo hanno piuttosto osservato all’interno di un quadro di riferimenti e in un’ottica di tipo valutativo-ideologico, frutto di una mentalità diffusa non soltanto nella critica di sinistra, che portava inevitabilmente a certi risultati. Basterebbe però pensare ad alcune inchieste sull’«Avanti!», a quella promossa da Ugo Casiraghi sull’«Unità» a partire dal 27 novembre del 1955, con una lettera articolo (Il cinema: vediamolo insieme) in cui venivano posti una serie di interrogativi, agli articoli di Chiarini (una netta presa di posizione favorevole, fin dal suo primo articolo sul primo numero del «Contemporaneo»), Cosulich, Vecchietti, Cacia, Renzi, Spinazzola, e ripercorrere sistematicamente le annate delle riviste cinematografiche più autorevoli, per vedere come il cinema popolare fosse tutt’altro che un fenomeno isolato e marginale5. Volendo concorrere alla nascita di una nuova cultura, non si poteva però, al tempo stesso, sposare la battaglia in un periodo in cui la critica, automaticamente, doveva essere pro o contro – e non aveva il privilegio di posizioni neutre – e dichiararsi a favore di modelli narrativi che sembravano confermare trionfalmente i princìpi del conformismo ideologico voluto dal governo. Teniamo anche conto che buona parte del prodotto popolare non raggiungeva neppure le prime visioni.
Una produzione grigia per lo più, e non certo «fiammeggiante», come qualche posizione ingenua ha tentato di definirla, dove rispuntavano in maniera iperbolica le categorie secolari di colpa, destino, perdono, conflitti tra giustizia umana e divina, stendeva il suo potere in maniera egemone sul pubblico tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. Una produzione che, con i suoi successi, sarebbe riuscita a omogeneizzare i pubblici popolari, riconquistando alla produzione americana i mercati perduti, e dimostrando di saper unificare e mantenere in vita, per più di una decina d’anni, una serie di fi...