Blacks Out
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Blacks Out

20 marzo, ore 00.01. Un giorno senza immigrati

  1. 172 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Blacks Out

20 marzo, ore 00.01. Un giorno senza immigrati

Informazioni su questo libro

Tra finzione e realtà. La finzione è lo scheletro di questo libro, le ossa che lo tengono in piedi e lo fanno camminare. La realtà sono i muscoli e i nervi, che danno corpo al testo: le storie degli immigrati, le interviste, le inchieste, i dati statistici, le opinioni della destra xenofoba. Questo è il racconto di uno sciopero che, se mai accadesse, ci metterebbe in ginocchio. 20 marzo. Ore 00.01. È il caos, anzi la paralisi. I cantieri edili si fermano di colpo. Chiudono le fabbriche. Si raffreddano i forni a ciclo continuo nelle aziende di ceramica. Vuoti i mercati ortofrutticoli. Chiusi ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie si scatena il panico: scompaiono badanti, colf e babysitter. È boom di ricoveri d'anziani e disabili negli ospedali. La sanità è in tilt. Si fermano i campionati di calcio, basket e pallavolo.Molte parrocchie restano senza preti. Tremano le casse dell'Inps. Nessuno se lo aspettava. "Blacks Out" – lo sciopero degli immigrati – avrebbe paralizzato il paese.Vai al sito: www.blacks-out.com

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Informazioni

Categoria
Journalism

Ore 11.00. Caccia all’uomo

Lì per lì non afferro la notizia. «Sono scomparsi», mi ripete Colantonio.
«Chi?».
«Ma come chi? I neri, i cinesi, i romeni. Tutti!».
«Scomparsi? Dove?».
«Leggi l’Ansa delle 9.40 e l’Agi delle dieci».
Mi giro verso il terminale acceso. Scorro le agenzie. «Confindustria Veneto: 60% delle fabbriche ferme», è il lancio Ansa.
«Veneto, allarme degli industriali: ferme sei imprese su dieci», batte l’Agi con venti minuti di ritardo. Ancora non capisco. Il testo delle due agenzie è confuso. Sembrerebbe che molti operai non si sono presentati al lavoro. Di sicuro, tutti quelli di nazionalità straniera. Eppure non risulta annunciato alcuno sciopero.
Squilla il cellulare. Sarà Nina? Rifiuto la chiamata. Il direttore non smette di fissarmi. Mi rivolgo a Colantonio: «È strano. Non ne sapevo nulla, provo a fare qualche telefonata».
«Ecco, bravo, fammi sapere presto».
«Aspetta, guarda questa!». È Alessio Conti, il vicedirettore, l’erede designato, il futuro re del giornale. «Associazione industriale bresciana: dipendenti stranieri non si presentano al lavoro». La vedo anch’io. È una nuova Agi delle 11.06.
«Lavoraci su. Potrebbe essere l’apertura del giornale». La voce del direttore mi raggiunge alle spalle, mentre sono ancora intento a leggere le agenzie. Mi irrigidisco: «Certo, direttore. Potrebbe essere...».
«Delle Donne, non perdiamo tempo. Parti con la caccia all’uomo. Quanti non si sono presentati al lavoro? Chi li organizza? Perché scioperano? Fai le tue telefonate e tienici aggiornati». Colantonio spezza ogni possibilità di dialogo tra me e il grande capo. Lo maledico, mi alzo, lascio la sala.
È raro che Hal rivolga la parola a un collaboratore come me, un microscopico satellite del grande pianeta che deve governare. Hal è il soprannome ufficiale del nostro direttore. Perché? Semplice: come il computer di bordo di 2001: odissea nello spazio, spetta a lui controllare e guidare l’astronave. E il nostro direttore è veramente una macchina formidabile. Sembra che nulla gli sfugga: dal titolo di prima pagina, al più insignificante box della cronaca locale. Almeno fino a quando non impazzirà come Hal...
Sono nervoso e sudato. Mi sono fatto trovare impreparato. Operai stranieri che non si presentano al lavoro, fabbriche che annunciano la chiusura degli stabilimenti per un giorno. Cosa succede? Gli immigrati in sciopero? Non è mai accaduto. Né può accadere: i lavoratori stranieri sono troppo divisi tra loro e poco organizzati. Quando gli italiani parlano genericamente di immigrati, dimenticano che stanno fotografando una realtà profondamente disomogenea, suddivisa in comunità etniche molto distanti tra loro e attraversata da vene razziste anche al proprio interno: il colombiano non ha nulla da condividere con il cinese, e il romeno non di rado guarda con una certa superiorità il nigeriano. Insomma, tra gli immigrati manca la coscienza di far parte di un unico gruppo socialmente svantaggiato. È sempre stato così. Ovunque.
Mentre l’ascensore mi riporta lentamente al terzo piano, mi torna in mente una lettera che devo aver letto qualche mese fa. Un lettore di «Metropoli. Il giornale dell’Italia multietnica», settimanale che usciva la domenica con «la Repubblica», denunciava l’ingratitudine degli italiani verso i migranti e raccontava cosa sarebbe accaduto senza di loro.
Mi siedo al tavolo, apro le agenzie sul computer e chiamo l’archivio del giornale.
«Pronto? Sono Delle Donne...».
«Ciao, sono Cinzia. Che ci fai così presto al lavoro?».
«Mi hanno chiamato dal centrale».
«Roba d’immigrati?».
«Come al solito».
«Che ti serve?».
«Una lettera uscita sul settimanale ‘Metropoli’, nella primavera scorsa. Mi ricordo che nel titolo c’era la parola ‘ingratitudine’. Mi puoi aiutare?».
«Dammi qualche minuto».
«Visto che ci sei, mandami pure dei dati sui lavoratori immigrati. Qualcosa del tipo ‘che ne sarebbe dell’Italia senza di loro?’. Chissà se c’è qualche studio in tal senso».
«Nient’altro? Vuoi pure che ti scriva il pezzo?».
«Magari. Grazie».
Attacco. Non so bene cosa fare. Poi un lampo: Aly Baba Faye. Quella insolita telefonata mattutina potrebbe avere a che fare con la storia degli operai scomparsi. Perché non gli ho risposto? Forse mi avrebbe spiegato tutto e avrei fatto la mia bella figura davanti al direttore. Maledetta colazione...
Provo a chiamarlo. Il telefono squilla. Bene. Aspetto con ansia di sentire la voce calda e baritonale della mia fonte senegalese. Il telefono continua a suonare libero. Nessuna risposta. Attacco e richiamo. Niente. Aly non risponde. Insisto. Parte la segreteria telefonica. «Aly, sono Valentino. Ho visto che mi hai cercato, richiamami appena puoi, è urgente».
Che fare? Forse potrei chiamare qualche sindacalista. Mentre rialzo la cornetta del telefono, mi arriva un messaggio sulla casella di posta elettronica. Viene dall’archivio. Contiene due allegati. Il primo è la lettera che cercavo: è datata 10 maggio 2009. Apro l’allegato e mi metto a leggere.
«Mi dispiace dirlo, ma il vostro non è un paese per giovani, vecchi e immigrati. Posso criticarvi perché io amo profondamente l’Italia, è la mia seconda patria e sta diventando la prima, perciò in nome di questo amore mi sento autorizzata. Che sia un paese non per giovani, lo dimostra il numero dei precari e dei disoccupati; non per i vecchi, lo dimostrano le drammatiche condizioni di chi a una certa età non ha l’aiuto della famiglia; non per gli immigrati, perché basta leggere alcune proposte restrittive sulla concessione della cittadinanza italiana che il governo sta per varare. Ce n’è una che chiede non solo la conoscenza della lingua, ma anche nozioni generali di cultura e dettagliate di storia e perfino di saper parlare nel dialetto locale. Questa è una proposta della Lega e chi sa quanti leghisti riuscirebbero a dimostrarsi italiani se fossero anche loro sottoposti a un esame del genere. Ma quello che più mi disturba è l’ingratitudine degli italiani. È vero che nessuno, questi immigrati, li ha chiamati, ma è anche vero che loro fanno i lavori che gli italiani non fanno più. Se improvvisamente, da un giorno all’altro, sparissero gli immigrati, quanti anziani resterebbero soli nelle loro case senza soccorso, quanti cantieri resterebbero paralizzati, quanta frutta e ortaggi marcirebbero nei campi? E poi, è loro il merito se gli italiani possono vantarsi di essere arrivati a sessanta milioni. Sono loro a rimpinguare le casse dell’Inps con i loro contributi. Sono loro a far crescere il prodotto interno lordo. È vero, c’è tanta malavita, ma in questa gli italiani non sono in seconda fila. Insomma, se noi siamo grati all’Italia perché ci ha accolti e ci ha permesso di vivere, non vedo perché gli italiani non dovrebbero essere grati a tutti quelli di noi che si comportano onestamente, che lavorano, che pagano le tasse, con una percentuale di evasione inferiore a quella media degli italiani». Firmato: Aimée Sonko, da Perugia.
La lettera è ben scritta. Pare una sorta di manifesto: andrebbe appesa in ogni scuola, fabbrica e questura. In poche righe dà conto del contributo essenziale degli immigrati alla nostra economia. Cosa accadrebbe davvero se di colpo i lavoratori stranieri scomparissero? Rileggo le agenzie sull’allarme a Brescia e in Veneto. Fabbriche ferme. Non mi stupisco. In Veneto, nella sola industria meccanica, gli operai immigrati sono oltre 42mila: il 20% del totale. Nella provincia di Brescia, un metalmeccanico su cinque è straniero. La percentuale sale al 50% se si considerano solo le fonderie. Se si fermano loro, insomma, si ferma tutto.
Il secondo allegato è un articolo uscito in prima pagina sul «Corriere della Sera» il 23 maggio 2009. Cinzia deve aver pensato che mi potesse essere utile. E ha ragione. Lo firmano Giuliano Amato e Massimo D’Alema, ministri dell’Interno e degli Esteri ai tempi del governo Prodi. Il titolo non mi attrae: Una strategia (che funziona) per fermare i clandestini. La parola «clandestini» non mi piace, né confido molto nella capacità di dettare strategie globali che davvero funzionino. L’attacco però è fulminante:
«Proviamo a immaginare l’impossibile. L’Italia privata all’improvviso dei cinque milioni di cittadini immigrati residenti nelle nostre regioni, città, borgate. Sarebbe la paralisi. Lo sbandamento di milioni di famiglie, dove spesso una tata o una badante fanno andare avanti le cose e la vita. Migliaia di piccole imprese del Nord non aprirebbero i battenti. E l’agricoltura, l’edilizia, mille altre attività entrerebbero in debito d’ossigeno, come succede all’atleta quando non ce la fa più. Perché questa è l’Italia oggi. Una grande società ‘aperta’, plurale, multietnica. Una comunità qualitativamente diversa da prima, da com’era venti o dieci anni fa. Abbiamo imparato ad accogliere, questa è la verità. E per fortuna».
Sulla nostra capacità d’accogliere nutro forti dubbi. Ma è l’immagine di un paese paralizzato dalla scomparsa degli immigrati ad affascinarmi. E se i casi del Veneto e di Brescia non fossero isolati?
Cerco sulla mia vecchia agenda il numero di Mauro Bova, un amico sindacalista. Negli ultimi cinque anni il numero dei lavoratori stranieri iscritti ai sindacati è più che raddoppiato, sfiorando quota un milione. In testa c’è la Cisl. Dopo un duello con la Cgil a colpi di numeri, l’ha spuntata: le sue 334mila tessere le assicurano il primato tra i lavoratori immigrati. La Cgil si ferma a 300mila, segue la Uil con 190mila e l’Ugl con 103mila iscritti stranieri. Le loro tessere costituiscono il 12% degli iscritti attivi (senza cioè tenere conto dei pensionati). Gli stranieri fanno gola ai sindacati: portano nuovi iscritti, dunque maggiore potere contrattuale e soldi. Secondo un’indagine del giornale on-line «Stranieriinitalia.it», nel 2005 gli immigrati – tra trattenute sindacali, attività di Caaf e patronati – avrebbero portato in dote alle casse dei confederali ben 55 milioni di euro. Peccato però che ancora oggi siano pochi i lavoratori stranieri inseriti nei ruoli apicali dei sindacati. Sono un esercito senza gradi, né stellette. Tutti soldati semplici, nessun ufficiale. Non manca qualche rara eccezione: Abdou Faye, cinquantenne senegalese di Dakar, è da qualche anno al vertice della Cgil del Friuli Venezia Giulia; Moulay El Akkioui, marocchino, è segretario nazionale della Fillea Cgil; Liliana Ocmin, 37 anni, peruviana, è membro della segreteria confederale della Cisl; Clarisse Essane Niagne, nata in Costa d’Avorio, è responsabile provinciale Ugl a Viterbo.
Mi ricordo di un sondaggio dell’istituto di ricerca Eures dell’ottobre 2008. Ne conservo una sintesi nell’armadietto che sono riuscito a farmi assegnare dal giornale: 8 immigrati su 10 vorrebbero un sindacato fatto solo di lavoratori stranieri e il 76% sarebbe pronto a uno sciopero per rivendicare i propri diritti. L’Eures osserva che se tutti i lavoratori stranieri incrociassero le braccia si avrebbe una paralisi di molti settori chiave, a partire da quello dei servizi alle famiglie (dove gli stranieri sono oltre il 67%): in Italia, infatti, secondo l’Eures almeno 300mila famiglie ricorrono quotidianamente all’aiuto di una colf o badante straniera. Ed è un dato prudenziale. Gli immigrati sono decisivi anche in agricoltura e pesca (rappresentano il 20,9% della forza lavoro), edilizia (19,7%), alberghi e ristoranti (20,9%). Senza di loro finirebbe in crisi anche il settore tessile (14,8% di operai immigrati), l’industria conciaria (15,7%), quella meccanica (14,6%) e, più in...

Indice dei contenuti

  1. Ore 00.00. Le ossa, la carne
  2. Ore 9.00. L’uomo senza Luna
  3. Ore 10.00. Gli affari di Lin
  4. Ore 11.00. Caccia all’uomo
  5. Primo intermezzo: Nina
  6. Ore 12.00. Badanti & Braccianti
  7. Secondo intermezzo: Franco
  8. Ore 13.00. Blacks Out
  9. Terzo intermezzo: Alice
  10. Quarto intermezzo: genitori
  11. Ore 14.00. Preti part time
  12. Ore 15.00. Domenica non si gioca
  13. Ore 16.00. Il marocchino senza metrò
  14. Quinto intermezzo: Cata007 e Oana
  15. Sesto intermezzo: Ispettorato USA
  16. Settimo intermezzo: l’appello di Gerenzano
  17. Ore 17.00. La paura dell’uomo nero
  18. Ore 18.00. Una testa, un voto
  19. Ottavo intermezzo: Giancarlo
  20. Ore 19.00. Il tesoro degli immigrati
  21. Ore 20.00. La crisi colpisce tutti
  22. Nono intermezzo: Nina
  23. Ore 21.00. Il pane e le rose
  24. Decimo intermezzo: Aly
  25. Ore 22.00. È la stampa, bellezza!
  26. Ore 9.00. «Buongiorno dottore»
  27. Nota al testo
  28. Bibliografia
  29. Siti internet
  30. Ringraziamenti