In battaglia, quando l'uva è matura
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In battaglia, quando l'uva è matura

Quarant'anni di Afghanistan

  1. 248 pagine
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In battaglia, quando l'uva è matura

Quarant'anni di Afghanistan

Informazioni su questo libro

Il cuore di Kabul è espropriato, circondato da alte mura, telecamere, reticolati, vietato agli afgani, riservato agli stranieri e agli uffici governativi. In cielo grandi palloni lenti e silenziosi come animali da preda sorvegliano la vita delle persone. Sullo sfondo valli ricche di verde e di acqua, pianure arse e pietrose.L'Afghanistan, così, non è mai stato raccontato.All'aeroporto di Kabul grandi cartelloni colorati, in lingua inglese, danno il benvenuto 'nella terra degli uomini coraggiosi'. Forse è l'unica iscrizione autentica, voluta dalle autorità afgane, in mezzo ai riti della sicurezza imposti dagli occidentali dentro quell'edificio. È un avvertimento più che una garanzia, il proclama che lì non abita gente docile. La tradizione ricorda che questo paese da secoli è l'orgoglioso e turbolento 'cimitero degli imperi', o meglio degli eserciti imperiali. Dopo oltre trenta anni di macerie l'Afghanistan è un mondo dissociato tra aquiloni e kalashnikov, tra giardini segreti curati con amore e attentati brutali, continui, tra vendette tribali e nevrosi del mondo digitale. Per la burocrazia internazionale qui sei afgani uccisi possono valere come due pecore. Nel carcere di Kandahar i prigionieri si sono cuciti da soli le labbra per protestare contro le guardie corrotte. Qui lo stesso commando americano che ha catturato Bin Laden, l'élite del primo esercito al mondo, ha perso parte dei suoi uomini in un attacco dei talebani malnutriti e malvestiti. Ma nelle valli del Badakhshan altri integralisti non hanno mai sfiorato sessanta nuove scuole femminili. A Kabul un libraio analfabeta ha salvato libri introvabili, e oggi un giovanissimo profugo afgano studia in Europa i robot applicati alle neuroscienze.Queste pagine raccontano senza pregiudizi storie di vita autentiche e inattese, ambientate in un paese che avremmo voluto conoscere da tempo.Finiremo per ammalarci di mal d'Afghanistan, malattia più contagiosa e attuale del mal d'Africa.

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Informazioni

Categoria
Giornalismo

La giostra dei corrotti

È come una giostra. Rallenta, si ferma per far scendere i clienti già a bordo, fa salire quelli in attesa, sempre più numerosi dei posti disponibili, e poi improvvisamente riparte più veloce di prima. Ma la frequenza delle soste e la loro durata non sono mai regolari. Così funziona la macchina del potere centrale in questo paese. Attorno a Karzai c’è come un cerchio magico, duecento, trecento persone che filtrano e decidono tutto. Sono loro che contano. Che propongono nuovi candidati, che costruiscono nomine di ambasciatori, generali, che trasferiscono governatori e ministri. Così riassume la situazione Nasir Farahmand, professore in una università privata a Herat, membro della Commissione indipendente dei diritti umani.
Ogni mattina Nasir si alza alle sei, mentre fa la barba si ritrova immancabilmente di fronte la sua faccia e sempre, immancabilmente, ritorna lo stesso dilemma: «Se voglio sopravvivere al mio stipendio mensile di cento dollari devo cercare un lavoro migliore, ma per un nuovo lavoro devo entrare nel cerchio del potere, della corruzione». Un muratore in un mese guadagna tre volte più di lui. Nasir per ora resiste nella sua dignitosa indigenza, aiutato dai familiari. Esce di casa puntuale per fare il suo lavoro, ma ha dentro un sentimento di impotenza, di malinconia. Si è convinto che non riuscirà a cambiare nulla, che la caduta dei talebani non ha portato i cambiamenti sperati, che la sua generazione è perduta.
In questa rincorsa di carriere volatili e di benefici concreti la corruzione progressivamente ha cambiato la mentalità degli afgani. Una volta, ai tempi della monarchia, essere corrotti era una debolezza, una vergogna, una condizione da tenere nascosta. Adesso è diventato un merito, un fatto da esibire con spavalderia, apertamente, sfacciatamente. Come le auto straniere di grossa cilindrata, come le ville costruite con gusto pacchiano, impossessandosi con documenti falsi o con prepotenze fisiche di terreni pubblici, chiudendo al traffico le strade attorno, come se anche quelle fossero una proprietà privata.
Rafiq Shahir al tempo dei comunisti fu messo in prigione. Oggi siede in parlamento e si oppone al regime di Karzai, lavorando nella Commissione giustizia e anti-corruzione. Ha creato il Consiglio delle professioni, che raccoglie poliziotti, magistrati, medici, commercianti. E quando questa associazione ha cominciato a prendere forza, il potente Ismail Khan, guerrigliero anti-sovietico famoso e oggi vero padrone di Herat, gli ha mandato due emissari che lo hanno bendato, sequestrato per due giorni, ferito brutalmente, per ammonirlo a contenere le sue iniziative. Se pensavano di intimidirlo hanno ottenuto l’effetto contrario.
Più o meno negli stessi giorni in cui il professore Farahmand confessava la sua impotenza e sfiducia, nella provincia di Oruzgan, a nord di Kandahar, il consiglio locale chiudeva i suoi uffici a tempo indeterminato. Era un gesto di solidarietà contro l’arresto di uno dei suoi membri, Jan Mohammad Popal, un personaggio coraggioso del quale la cronaca internazionale non si interesserà mai. Mohammad si era recato dalla polizia per affrontare il tormento quotidiano dei funzionari corrotti, e in risposta alle sue contestazioni gli agenti lo avevano sbrigativamente arrestato, dicendo che era lui ad aver violato la legge. Di fronte alla solidarietà compatta del consiglio la polizia lo aveva poi liberato, senza spiegare in che cosa consisteva l’accusa e perché era così velocemente svanita. In un tipico braccio di ferro che caratterizza molte giornate della vita quotidiana in questo paese.
Sempre in quei giorni, nella stessa provincia, nel distretto di Deh Raud, un altro membro del consiglio provinciale denunciava pubblicamente la corruzione e il contrabbando di droga organizzato da alcuni ufficiali della polizia. Questi personaggi imponevano ai contadini di vendere soltanto a loro l’oppio raccolto, lo rastrellavano così a un prezzo più basso, e poi lo rivendevano in negozi di loro proprietà. Il responsabile di un posto di blocco arrivava a confiscare più di cento chili di oppio. E contemporaneamente, sempre grazie a funzionari corrotti, chiunque poteva aprire senza rischi un negozio dove vendere droga. Bastava versare l’equivalente di oltre mille dollari. Uno degli abitanti ha raccontato di avere raccolto sette chili di oppio, non li ha venduti, non li ha portati a casa, ma per proteggere il risultato della sua fatica li ha nascosti nella casa di un amico. Il capo della polizia ha respinto queste denunce. Però ha concesso che forse qualcuno dei suoi uomini aveva chiesto ai produttori di droga una tassa sul raccolto, spiegando, senza alcun pudore, che sicuramente era stata «imposta per scherzo».
Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, già dieci anni fa gli «scherzi» attorno alla droga davano profitti attraenti, anche per i manovali dell’organizzazione. Portare un chilo di oppio in Iran dopo la caduta dei talebani rendeva come due anni di lavoro pulito, un chilo di eroina invece fruttava come quattro anni. Oggi il mercato della droga ha prodotto in Afghanistan il dilagare dei tossicodipendenti. A Kabul si raccolgono in luoghi tremendi, come le macerie del grande Palazzo di Darulaman, che richiamano l’inferno dantesco.
Corruzione e rivolta armata camminano assieme. C’è una storia, praticamente ignota fuori dai confini afgani, dove la corruzione locale si mescola con il carattere orgoglioso e bellicoso dei protagonisti, creando una miscela assolutamente esplosiva.
Tutto si è svolto dentro la prigione di Kandahar. La rivolta dei prigionieri era iniziata per la corruzione sfacciata dei giudici e delle guardie. Molte condanne erano palesemente ingiuste. Alcuni prigionieri erano rinchiusi da due anni senza conoscere ancora la loro colpa. E in ogni caso bastava pagare e si tornava liberi, più o meno rapidamente. Il governo aveva mandato un’ispezione di magistrati, ma il racket delle tariffe era continuato indisturbato.
Shekiba Hashemi arrivò sei mesi dopo le prime proteste. Era senza velo in testa. Nata a Kandahar, di etnia persiana, professoressa, deputata al parlamento, entrò nella prigione della sua città impavida, per incontrare i rivoltosi. Davanti a lei c’era un lungo corridoio a volta, largo cinque metri, profondo cinquanta, male illuminato, sporco, affollato da centinaia di prigionieri che protestavano. Un cancello con grosse sbarre divideva lei, appartenente alla minoranza persiana, e alcuni deputati uomini, da quella umanità frustrata e turbolenta, in grande maggioranza di etnia pashtun. La signora non decifrò subito, con chiarezza, la scena che aveva davanti in quell’antro oscuro. Poi i suoi occhi misero a fuoco volti deformi, che le barbe nere rendevano ancora più simili a maschere grottesche.
Quarantasette uomini da sette giorni, in modo rudimentale, senza alcuna precauzione igienica, si erano cuciti le labbra da soli, per attuare un autentico sciopero della fame e della parola, senza flebo al braccio, senza medici ad assisterli e avvocati a spiegare le loro ragioni. Erano tutti afgani vigorosi, tra i venticinque e i quarant’anni, non ragazzini incantati dalle promesse dei mullah nelle scuole coraniche, o anziani senza più speranza di appartenere a un paese normale dopo trent’anni di conflitti ininterrotti. I rivoltosi avevano deciso quella protesta integrale, ad oltranza, doppiamente dolorosa, esasperati dalla corruzione integrata di giudici e secondini. Le bocche legate con il filo erano l’ultima prova di quella «tenacia afgana» che gli occidentali credono circoscritta ai campi di battaglia. Quel giorno, il 12 maggio 2008, il governo centrale sembrò finalmente deciso ad ascoltare le ragioni profonde di quella rivolta. Uno degli uomini venuti dalla capitale disse: «Sono qui perché i rappresentanti delle vostre maggiori tribù mi hanno chiesto di intervenire. Come sapete anche il mio clan è di Kandahar. Ma ho rinunciato al mio abito tradizionale e di proposito sono venuto con giacca e cravatta, perché questo è il mio abito quando entro in parlamento. In questo momento rappresento il governo, ascolterò le vostre parole e dirò al presidente Karzai di mandare un giudice onesto a prendere provvedimenti».
Shekiba Hashemi restò nel carcere a parlamentare per cinque ore. Assieme a lei c’erano anche due comandanti guerriglieri – Habibullah Jan Senzarai e Amir Lalai – che avevano combattuto contro l’Armata rossa trent’anni prima, che avevano conosciuto la brutalità della guerra, che l’avevano anche praticata questa brutalità, ma che non avevano mai visto degli uomini torturare se stessi in quel modo e con quella determinazione, imprigionandosi da soli. Uno dei comandanti, forte del prestigio accumulato in passato, si fece portare un paio di forbici e cominciò a tagliare con le sue mani, inesperte di infermeria, il filo che chiudeva dieci bocche, prima che arrivassero i medici a eliminare i rimanenti fili sottili che legavano un labbro contro l’altro.
C’era anche un fotografo con quel piccolo gruppo di deputati, chiamati a verificare la vergogna di un carcere che garantiva la libertà a pagamento. Certo, là dentro trecentocinquanta uomini, un terzo dei prigionieri, erano talebani autentici, irriducibili, dichiarati. Ma gli altri erano stati accusati e messi in cella con vari pretesti. Il fotografo aveva filmato molte scene. Ma la sua testimonianza fu sequestrata velocemente e cancellata da un agente locale dei servizi segreti. Un mese dopo la visita dei parlamentari quella prigione era un luogo ancora più carico di turbolenza, una bomba a tempo senza più margine. L’invio successivo di un giudice galantuomo aveva rivelato solo la sua impotenza di fronte alla ragnatela dei corrotti.
Una sera, verso le nove, ci fu un attacco kamikaze. L’esplosione aprì un’ampia breccia, attraverso la quale i prigionieri fuggirono in massa. Gli organizzatori dell’attacco avevano portato camion, auto, moto, per evacuare il carcere con la consueta, apparente confusione che però nasconde in questo paese una sostanziale efficienza. Per due ore non si vide una sola divisa attorno all’edificio. Dopo le prime dichiarazioni pasticciate, reticenti, le cifre ufficiali alla fine ammettevano che su 1059 carcerati ne restavano dentro solo 167.
Quella fuga spettacolare, tutta opera di teste e braccia locali, resta come lo spartiacque tra i diversi livelli della corruzione. Il primo, quello principale, il più ricco, riguarda esclusivamente autorità straniere e società straniere. Un gradino sotto c’è il secondo livello, quello con risorse minori ma sempre imponenti, che coinvolge stranieri e compatrioti di Karzai. L’evasione dalla prigione a pagamento di Kandahar invece, come tante altre storie di tangenti, appalti e promozioni rubate, appartiene al terzo scalino, che coinvolge solo personaggi locali, tutti iscritti alla potente tribù dei corrotti, dove l’etnia di appartenenza non è più una discriminante.
Il generale Nur al-Haq Olumi appartiene a un grande clan di Kandahar. Ai tempi del re aveva frequentato l’accademia militare in Usa e anche in Urss, per sostenere la sempre precaria neutralità del suo paese. Nell’inverno 2002 Karzai gli aveva affidato un’inchiesta riservata sulle condizioni effettive delle forze armate, dopo i cinque anni del regime talebano. Olumi compilò in cinquanta giorni di lavoro un piccolo quaderno nero con rigore prussiano, senza una sola cancellatura. Scoprì che esistevano tremilaseicento generali, nominati per le ragioni più strane e vestiti nei modi più bizzarri. Queste le sue parole: «Sembrava che avessero trovato le uniformi nei bauli di un teatro. Ognuno si metteva addosso quello che voleva». Successivamente è stato presidente della Commissione parlamentare per la difesa e l’integrità territoriale. È stato chiamato a Washington, a Bruxelles, nelle università occidentali.
Da anni ripete che gli eserciti stranieri in Afghanistan pagano per non essere attaccati. «Chi è nato in questo paese sa che i segreti non resistono a lungo. Hanno pagato tutti, solo che ogni esercito lo fa in modo diverso. O direttamente con i soldi, o indirettamente offrendo munizioni, veicoli, rifornimenti, viveri, medicinali. Poi in Occidente gli uomini politici, i vertici militari, quando i loro soldati vengono uccisi in un agguato, quando pagare il nemico non è più sufficiente, allora esaltano l’onore di quegli uomini caduti. Ma questo è il gioco della politica. C’è un vecchio motto inglese per la diplomazia: negare e mentire. Hanno pagato i francesi, gli olandesi, i tedeschi, gli italiani, gli spagnoli, i canadesi, gli inglesi, e anche gli stessi americani. E i governi hanno consegnato valigette di dollari anche per liberare gli ostaggi. In un caso, e non si trattava nemmeno di un ostaggio così importante, sono stati versati due milioni di dollari per un solo prigioniero».
Il generale Abdul Rahman, originario di Logar, con buone relazioni nelle zone di confine, all’inizio del 2003 aveva organizzato un incontro perché le truppe straniere non avessero problemi a Khost. Quella era, e resta, una delle zone più pericolose del paese, dove i russi vent’anni fa scaricavano le loro truppe di corsa, senza nemmeno fermare l’aereo. Abdul Rahman si riunì in una stanza con altre quattro persone. L’accordo fu raggiunto senza grande fatica. Se la tangente pattuita non veniva consegnata puntualmente, o se l’avidità locale pretendeva degli extra, allora alcuni razzi cadevano ai bordi del fortino che ospitava le truppe straniere, come un brusco sollecito di pagamento. E non solo Abdul Rahman, ma molti altri personaggi si sono impegnati in trattative di quel tipo.
Nell’estate 2011 è stato pubblicato un rapporto chiesto dal Congresso americano sui contratti firmati dal Pentagono dopo l’11 settembre. Secondo la commissione d’inchiesta da allora sono stati dilapidati trentuno miliardi di dollari e una cifra almeno doppia verrà sprecata nei prossimi anni, se non verranno modificati i rapporti con i privati che curano la sicurezza e la logistica nelle zone di guerra. L’Afghanistan occupa il capitolo più consistente e ingombrante. L’elenco delle spese ingiustificate o sospette va in tutte le direzioni. Una fornitura di cibo alle truppe ha superato senza troppe spiegazioni i quattro miliardi di dollari. Un contratto per noleggiare tremila vetture in leasing ha raggiunto i centoventi milioni di dollari. La centrale elettrica di Kabul è costata trecento milioni di dollari, ma gli afgani non sono attrezzati per gestirla. Quella di Kandahar non è stata nemmeno montata, i macchinari sono ancora da installare.
Solo nel settore della sicurezza sono stati reclutati ventisettemila privati con diversi contratti. Karzai da tempo aveva annunciato di voler rimuovere tutte le società private straniere di sicurezza, accusate di violare abitualmente le leggi afgane. Nonostante ciò, la società Dyncorps, una delle sigle più note nel settore, aveva egualmente ottenuto un contratto di 1,2 miliardi di dollari per addestrare i poliziotti locali, ma otto mesi dopo la firma aveva ancora da reclutare oltre metà del personale. La commissione d’inchiesta concludeva che in Afghanistan «non esiste alcun controllo effettivo sull’armamento del personale privato». E così i ruoli si sono invertiti pericolosamente, la guerra privata si è sovrapposta a quella degli eserciti regolari. Negli ultimi due anni il numero dei morti, legati alle società di sicurezza in terra afgana, ha superato quello dei militari professionisti uccisi.
Gli europei sono molto critici su questo dilagare dei privati tra i ranghi e nelle funzioni che sono istituzionalmente riservate all’esercito e ai rappresentanti armati dello stato. Secondo un documento dell’Istituto francese di alti studi per la difesa, gli americani in Afghanistan utilizzano circa il sessanta per cento di uomini ingaggiati da società private, legate alla sicurezza e alla difesa. Quasi le cifre di una degenerazione istituzionale. Secondo gli esperti di Parigi invece, a parte la logistica e certe funzioni di sostegno tecnico, i privati devono rimanere fuori dal teatro di operazione, perché il monopolio sulla legittimità della violenza e sul suo esercizio deve appartenere solo allo stato.
Nei libri contabili fuori da ogni controllo, ispezionati dal Congresso americano, le tangenti per i subappalti agli afgani oscillano tra il cinque e il nove per cento. Il secondo livello della corruzione sembra costellato solo di peccati veniali. Quasi inevitabili. Un consulente per il Centro di studi strategici e internazionali a Washington ha sostenuto questa visione generale del mondo: «Se trovate gente che non sia corrotta questo dipende in gran parte dal fatto che non hanno avuto l’occasione giusta». È una teoria molto diffusa tra i grandi paesi, convinti che tutto abbia un prezzo e possa essere comprato nei paesi piccoli e deboli.
Un progetto per elaborare una legge sulle assicurazioni locali – priorità di cui l’Afghanistan non ha sentito certamente bisogno in questi anni di conflitto perenne con i talebani – è stato compensato con oltre cinque milioni di dollari. Lo studio legale americano impegnato nel lavoro ha prodotto poco più di cento pagine, adatte ad una qualunque realtà ben strutturata, praticamente intercambiabili tra paesi occidentali, ma di fatto premature, inutilizzabili nel contesto afgano.
Il cerchio della guerra generalmente si chiude con la nobile appendice della ricostruzione, alimentata dai paesi donatori, in previsione di futura riconoscenza politica ed economica sul mercato locale. I loro rappresentanti hanno bisogno di incontrarsi con una certa regolarità, in sedi confortevoli, in località di rinomanza internazionale. Questi signori non sono tipi rudi ed essenziali, che si possono sedere in circolo su un grande prato, come i membri della Loja Jirga. Per preparare la Conferenza di Parigi, uno dei tanti appuntamenti costruiti attorno alla crisi afgana, i rapporti stesi dai consulenti di Karzai, stranieri e locali, sono costati tutti insieme quindici milioni di dollari.
E tra i costi della grande diplomazia, che dibatte di guerra e ricostruzione, bisogna inserire anche il Serena Hotel, il più costoso dell’Afghanistan, allestito rapidamente dopo la caduta dei talebani, riabilitando gli spessi muri del vecchio albergo Kabul ed eliminando il suo grande giardino, ma aggiungendo palestra, centro massaggi, bar e discoteca. Contro questa roccaforte di lusso, i cui clienti non pagano mai il conto di tasca propria, i talebani hanno compiuto un attacco spettacolare, non a caso, ma scegliendo la visita del ministro degli Esteri norvegese.
Non è un mistero che ci sono esperti stranieri pagati millecinquecento dollari al giorno. Per questi personaggi la guerra è un affare da prolungare il più possibile, non da risolvere in fretta. Ma non solo per loro è conveniente che il conflitto continui. Tutte le dichiarazioni ufficiali sulla guerra al terrorismo, sulla costruzione della democrazia, potrebbero passare in secondo piano. Prima di tutto vengono i risultati sul campo di battaglia, ben visibili a tutti. Questo è anche il conflitto dei grandi appalti, la battaglia dei soldi, per mantenere in piedi un vasto intreccio di favori e guadagni.
Sicuramente è un grosso affare la ricostruzione della rete elettrica afgana. Usaid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, solo nel 2011 prevedeva di spendere oltre due miliardi di dollari. Lavora in questo paese da mezzo secolo, ma sembra capitata lì senza alcuna esperienza. Per costruire la centrale elettrica alla periferia di Kab...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Burqa giallo
  3. Trent’anni dopo
  4. Sei afgani, due pecore
  5. La giostra dei corrotti
  6. Il libraio analfabeta
  7. Il vinaio di Kabul
  8. Picnic a Kargha
  9. Tre stelle
  10. I robot di Solimano
  11. Lo stato fantasma
  12. Il mestiere delle armi