IV. Diritto senza dogmi
Situare Bobbio all’interno della tradizione giuridica diventa progressivamente più difficile man mano che ci si allontana dal dominio delle collocazioni generiche: certo appartiene al positivismo giuridico, con Kelsen e Hart, e al neoilluminismo giuridico contemporaneo, con Habermas e Ferrajoli. È in Italia il caposcuola di quella che Scarpelli ha chiamato la «scuola analitica nord-occidentale». Ma è anche legato a una generazione di studiosi che riflettono sullo splendore e le miserie del positivismo giuridico restando all’interno del suo orizzonte, avendo preso definitivamente congedo dalla stagione del giusnaturalismo, ma non essendo ancora approdati a quel più o meno dissimulato neogiusnaturalismo che si cela tra le sottili teorizzazioni del neocostituzionalismo contemporaneo1.
Bobbio non ha del resto preteso di elaborare un’originale teoria del diritto. I materiali con cui sono edificate le sue sintesi più sistematiche (nate come corsi universitari, dunque al servizio della didattica) sono in larghissima parte di provenienza kelseniana, come kelseniano è l’approccio critico nei confronti della «tradizione giuridica» (nel senso dell’ideologia statualistica e decisionistica degli apologeti della sovranità)2. Oltre Kelsen, però, un ruolo rilevante nella sua maturazione occupa la riflessione sull’opera del più originale fra gli studiosi italiani di diritto del primo Novecento, Santi Romano. Passando per la teoria dell’istituzione, cui è riconosciuto il merito «di mettere in rilievo il fatto che si può parlare di diritto soltanto dove vi sia un complesso di norme formanti un ordinamento, e che pertanto il diritto non è norma, ma insieme coordinato di norme»3, approda a una teoria normativistica dell’ordinamento giuridico che va oltre il primo Kelsen e anticipa la posizione di Hart in quel libro del 1961, Il concetto del diritto, che ha segnato una svolta nel dibattito novecentesco sul tema4. Analista sistematico, non si sarebbe mai votato allo «spirito di sistema». E in una tarda testimonianza, non avrebbe esitato a definire il suo «impianto sistematico» un «cantiere abbandonato»5.
Il metodo analitico di Bobbio è eminentemente metodo giuridico: ma un metodo giuridico che si è incontrato – muovendo dalla lezione insuperata di rigore concettuale di Hobbes – con la filosofia del linguaggio neoempiristica (senza dimenticare la lezione crociana della dialettica dei distinti). Nei suoi scritti, è stato osservato, «l’analisi del linguaggio consiste in una serie di operazioni tipiche e ricorrenti, quali ad esempio: a) l’interrogarsi sistematicamente sul significato delle parole, dei sintagmi, degli enunciati [...]; b) il distinguere accuratamente tra ‘enunciati empirici’ ed ‘enunciati analitici’ (tra questioni di fatto e questioni di parole); c) il distinguere con eguale cura tra il discorso descrittivo e il discorso prescrittivo (o normativo) e valutativo»6. Bobbio è il teorico delle «grandi dicotomie»: tutta l’opera può essere ricostruita come «un sistema intricatissimo di biforcazioni»7. Nell’ordinare il proprio campo d’indagine «ogni disciplina tende a dividere il proprio universo di enti in due sottoclassi che sono reciprocamente esclusive e congiuntamente esaustive»8. Poiché non appartiene però «alle caratteristiche di una grande dicotomia di essere l’unica possibile in un determinato universo», consegue che vi sono grandi dicotomie originarie e dicotomie derivate, così come coppie simmetriche di concetti e coppie asimmetriche9. Nell’ambito del diritto, la sua attenzione si è concentrata su tre coppie: diritto privato/pubblico, diritto consuetudinario/convenzionale, diritto naturale/positivo.
A quest’ultima in particolare ha dedicato alcuni dei suoi studi più rilevanti, riformulando l’antica contrapposizione tra concezione razionalistica e volontaristica del diritto, tra ratio e voluntas. L’opposizione di giusnaturalismo e positivismo giuridico sta al centro del suo pensiero. Dei due termini ha fornito definizioni di classico nitore: «per giusnaturalismo intendo la teoria della superiorità del diritto naturale su quello positivo; per positivismo giuridico, la teoria dell’esclusività del diritto positivo. Il giusnaturalismo è dualistico, il positivismo giuridico, monistico»10. Contro la versione tradizionale del giusnaturalismo, il positivismo si avvale della «critica storicistica, che non ammette princìpi etici autoevidenti con valore assoluto e universale». Contro il giusnaturalismo di tipo kantiano, il positivismo si atteggia a «dottrina che, negando il carattere di diritto al diritto sino a che è provvisorio, fa della perentorietà il carattere essenziale del diritto». Contro la versione hobbesiana del giusnaturalismo (in cui in realtà il diritto naturale esaurisce praticamente la sua funzione nel fornire un fondamento di legittimità al diritto positivo) «sta il principio positivistico per eccellenza della fondazione del diritto non su altro diritto (il che comporterebbe un processo all’infinito), ma sul fatto, cioè il principio di effettività»11.
Quanto al positivismo giuridico, all’indomani della stagione del totalitarismo il suo sforzo è stato indirizzato dall’intento di sottrarre questa concezione all’abbraccio di un decisionismo irrazionalistico e di un’ideologia statolatrica. Egli ha distinto, con una partizione che avrebbe incontrato larga fortuna entro il dibattito non solo italiano, tre modi d’intendere il positivismo giuridico. Come modo d’avvicinarsi allo studio del diritto, esso è caratterizzato dalla scelta del diritto positivo, vigente (contrapposto al diritto naturale o ideale), come oggetto esclusivo della scienza giuridica; come teoria, esso coincide con quella concezione del diritto «che collega il fenomeno giuridico alla formazione di un potere sovrano capace di esercitare la coazione: lo stato» (includendo principalmente fra le sue caratteristiche distintive la teoria della coattività, la teoria imperativistica della norma, la tesi della supremazia della legge sulle altre fonti giuridiche, la concezione dell’ordinamento giuridico come sistema); come «ideologia della giustizia», il positivismo giuridico è, infine, la credenza nel valore del diritto positivo, quindi il «passaggio dalla constatazione di un fatto alla valutazione favorevole di esso», assumendo come legittimo tutto ciò che è volontà del detentore del potere12.
Pur con qualche forzatura, tutta l’evoluzione del pensiero giuridico di Bobbio può essere rappresentata facendo riferimento a tre stadi: dall’orientamento fenomenologico con valenza antiformalistica e antikelseniana (intendendo il Kelsen neokantiano del 1911) dei primissimi scritti, si passa all’adozione di una posizione ben compendiata dalla formula «kelsenismo critico», per transitare, infine, da una teoria strutturale a una teoria funzionale del diritto che contrassegna almeno un gruppo di scritti giuridici della tarda maturità, nei quali sembra essersi proposto l’obiettivo di adattare la teoria generale del diritto, ancora plasmata entro l’orizzonte della società liberale, al nuovo contesto istituzionale del welfare state: una teoria del diritto, verrebbe da dire, confacente alle aspettative del secolo socialdemocratico. Un posto particolare, anche per la sua originalità, spetta lungo questo percorso al contributo da lui dato alla fondazione di una teoria del diritto di orientamento analitico, indirizzata cioè a studiare le qualificazioni normative dei fatti e il linguaggio prescrittivo. La giurisprudenza non è per lui né una scienza empirica né una scienza formale, poiché il suo oggetto è il «contenuto determinato di un determinato discorso» (il discorso prescrittivo del legislatore)13.
La prima stagione merita ormai considerazione solo come documento di un tentativo di emancipazione dalla filosofia del diritto idealistica. Di conseguenza viene orientandosi verso una considerazione più tecnica del fenomeno giuridico (quella dei Levi, dei Ravà, dei Romano); persino laddove si fa ricorso all’intuizione eidetica husserliana, la preferenza va ai problemi posti dai giuristi piuttosto che a quelli dei filosofi: la definizione della scienza giuridica come scienza normativa, i rapporti tra giurisprudenza formale e giurisprudenza teleologica, o tra giurisprudenza deduttiva e induttiva, a cui il suo approccio fenomenologico viene aggiungendo la contrapposizione tra «scienza di essenze» e «scienza dei fatti»14. La teoria gentiliana del diritto come «volere voluto» sarebbe rimasta sempre per lui soltanto «un esempio-limite di radicalizzazione e di ipostatizzazione filosofica di un’idea non peregrina del senso comune»15.
Per quanto concerne l’evoluzione complessiva del pensiero bobbiano, è difficile comunque disconoscere, forse al di là di quanto egli stesso abbia voluto ammettere, la sostanziale continuità dei suoi interessi di ricerca rispetto a quella ancora acerba stagione giovanile. Va detto infatti che persino all’approdo degli studi logici e analitici della stagione neoilluministica Bobbio era naturaliter preparato dalle ricerche che, in ambito fenomenologico e neokantiano, lo avevano condotto, fin dai suoi primi passi, a privilegiare tematiche gnoseologiche e a guardare alla filosofia del diritto come «metodologia della giurisprudenza»16. Certo, nelle monografie del 1934 è presente una polemica contro il formalismo e il normativismo di Kelsen, che nel dopoguerra avrebbe fatto posto a un ben diverso giudizio. E nondimeno è di Kelsen, di Radbruch, di Jhering, di Stammler, di Wundt che in questi scritti si parla, non di Gentile o di Volpicelli17.
La sua prima importante monografia giuridica si occupa dell’analogia come metodo di interpretazione del diritto positivo, ma anche della tendenza al sistema. «Fra gli atti conoscitivi l’interpretare è quell’atto di conoscenza diretto non già ad un oggetto qualunque, bensì ad un altro atto. Interpretare vuol dire conoscere un atto spirituale attraverso la sua espressione, ma conoscerlo per realizzarlo»18. Il volume è rilevante, oltre che per l’accurata disamina del problema, perché in esso il passaggio alla teoria analitica del diritto è già preparato dal confronto critico che si delinea con le posizioni di Guido Calogero, in particolare laddove si denuncia «la sempre risorgente e sempre confutata confusione tra la forma del ragionamento e il suo contenuto, tra il pensiero ideale su cui il ragionamento logico viene raffigurato e il piano reale su cui agisce»19.
La precoce scelta di campo per la filosofia del diritto dei giuristi contro la filosofia del diritto dei filosofi (che non è nient’altro che una concezione generale del mondo) lo porta alla teoria generale del diritto...