Contro il revisionismo costituzionale
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Contro il revisionismo costituzionale

Tornare ai fondamentali

Gaetano Azzariti

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Contro il revisionismo costituzionale

Tornare ai fondamentali

Gaetano Azzariti

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Le nostre sofferenti democrazie costituzionali devono essere ricostruite, non invece nichilisticamente abbandonate, ovvero allegramente disattese.

Per interpretare il mondo c'è bisogno di ethos, logos e pathos. Per cambiarlo dobbiamo riscoprire un quadro di principi per cui valga la pena impegnarsi a costruire un altro mondo possibile.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858124741
Argomento
Law
Categoria
Legal History

IX.
Rappresentanza.
Libero mandato e rappresentanza

Noi dobbiamo analizzare l’Ordine del Terzo stato
più nei suoi rapporti con la Costituzione che nel suo stato civile.
Vediamo ciò che esso è negli Stati generali.
Quali sono stati finora i suoi pretesi rappresentanti?
Nobili di recente estrazione o privilegiati a termine.
Questi falsi deputati non sono poi sempre il libero risultato dell’elezione del popolo.
Talvolta negli Stati generali e quasi ovunque negli Stati provinciali la rappresentanza
del popolo è considerata come un diritto di certi uffici o cariche.
A questa lampante verità aggiungete il fatto che, in una maniera o in un’altra,
tutte le funzioni del potere esecutivo sono cadute nelle mani della casta che forma il Clero,
la Toga e la Spada. Una specie di diritto di confraternita fa sì che i nobili,
per ogni cosa, si preferiscano l’un l’altro al resto della nazione.
L’usurpazione è completa; essi regnano veramente.
Emmanuel Joseph Sieyès, Che cosa è il Terzo stato?, 1789

1. Cronaca politica e interpretazioni storiche

Strana vicenda quella del divieto di mandato imperativo. Nel corso della storia ha occupato un ruolo centrale nelle circostanze drammatiche che hanno mutato il volto della forma di Stato nei paesi continentali, fondando e legittimando il modo d’essere concreto della rappresentanza politica democratica in epoca moderna. Avversato in nome di diverse concezioni di democrazia, è stato inscritto nei testi costituzionali, conquistando una sua stabile collocazione entro gli ordinamenti contemporanei. Nel corso del tempo ha però progressivamente smarrito il suo più profondo fondamento di senso. È questa perdita di senso che ha reso possibile ritenere che le complesse questioni delle relazioni tra rappresentanti e rappresentati e, parallelamente, delle modalità di svolgimento del mandato entro gli organi politico-rappresentativi potessero essere separate da quelle che sono invece con esse indissolubilmente collegate: sono le forme complessive che in concreto assume la democrazia che vengono in considerazione quando si riflette sulle modalità di svolgimento dei mandati politici e rappresentativi.
La perdita di consapevolezza della complessa trama entro cui trova la sua specifica collocazione il principio del libero mandato ha permesso – da ultimo – un progressivo scivolamento della riflessione sul tema, sempre più a valle, sino a far svanire – almeno nei casi più estremi, ma ormai assai diffusi – la sua dimensione propriamente costituzionale. Una discussione sbilanciata, animata dai fatti della politica e della cronaca (l’instabilità del sistema politico, il transfughismo dei parlamentari193), elementi quest’ultimi che non possono evidentemente rimanere estranei alla riflessione del costituzionalista, ma che non devono neppure esaurire il suo orizzonte d’analisi. Schiacciati dalla contingenza si rischia di legare le sorti di un istituto che ha segnato il carattere della democrazia moderna alle vicende di un momento o alle pulsioni di un caso e non invece alle più profonde ragioni della storia e ai progetti di edificazione di un ordinamento istituzionale e della rappresentanza rispettoso dei principi e dei valori che la nostra Costituzione impone.
Può non essere inutile allora rialzare lo sguardo, ripercorrendo, con passo veloce, la vicenda del divieto di mandato imperativo alla ricerca del suo significato costituzionale attuale e del ruolo che esso può ancora fornire alla qualificazione di una democrazia pluralista e conflittuale.

2. La strutturale ambiguità del divieto di mandato imperativo

Non c’è una storia lineare – un’unica storia – del mandato imperativo da raccontare. Ci sono invece esperienze diverse da interpretare. Da tempo la storiografia più attenta ha sottolineato come in epoca medioevale, nell’esperienza dei primi parlamenti (o «Assemblee costituzionali»), la regola fosse quella del mandato scritto conferito a chi era chiamato a parteciparvi in rappresentanza di ceti, comunità o parti di territorio, ma ha altresì rilevato che il carattere imperativo delle istruzioni assumeva, di fatto, un valore non sempre determinato194. Il vincolo cui si sentiva legato il mandatario era spesso di natura etica, fondato sul carattere «morale» del rapporto che affiancava e legittimava lo stesso carattere giuridico195. Se si hanno presenti le condizioni materiali e culturali, nonché l’organica struttura sociale della società feudale, si comprende come più dei vincoli scritti, contenuti nei cahiers, nelle procure o lettere di mandato, i limiti entro cui operavano i rappresentanti in Parlamento erano definiti dal prestigio e dal ruolo ricoperto dai singoli all’interno delle rispettive comunità196. I documenti scritti, contenenti le istruzioni di mandato, assumevano funzioni diverse: anzitutto costituivano titolo di presentazione e prova della legittimazione dei rappresentanti da esibire in sede «parlamentare»; inoltre, fin tanto che la rappresentanza politica non venne ad affrancarsi da quella privatistica197, la forma della «procura» civilistica appariva la naturale modalità «giuridica» con cui la comunità designava il proprio esponente in risposta alla richiesta di convocazione formulata da parte del sovrano. Rimaneva più controversa, invece, proprio la parte relativa al valore giuridico da assegnare ai vincoli di mandato. L’eterogeneità delle concrete esperienze mostra in sostanza tutta la gamma delle possibilità: in alcuni casi i rappresentanti dei territori ricoprivano la figura del nuncius, limitandosi a riportare la volontà espressa nel mandato redatto con minuziosa precisione198, in altri casi invece la forma del mandato appariva sostanzialmente libera ovvero le indicazioni e i vincoli contenuti nei mandati apparivano di così generica formulazione da assegnare al rappresentante un’ampia libertà di manovra e un esteso potere di contrattazione in sede assembleare e dinnanzi al sovrano199.
In ogni caso, volendo comprendere la sostanza del rapporto e dei vincoli che venivano ad instaurarsi in concreto tra rappresentante e rappresentati – oltre alla collocazione sociale e al vincolo di natura etica che contribuiva a definire il rapporto di rappresentanza politica all’interno della società feudale –, determinante appare anche considerare il tipo di assemblee «parlamentari» ove il mandato veniva ad essere esercitato. Anche in questo caso non può che rilevarsi l’eterogeneità delle istituzioni per nome, funzioni e ruolo entro i diversi paesi e nel corso del tempo200. Appare infatti immediatamente evidente che ove le assemblee parlamentari (quale che ne fosse la denominazione)201 erano convocate dal sovrano con l’unico scopo di esigere, sanzionare o concordare l’istituzione di nuovi tributi o la partecipazione alle guerre, il mandato dei rappresentanti era di fatto vincolato: nell’oggetto determinato che esigeva la previa assunzione di impegni del rappresentante con la propria comunità di riferimento. Il rappresentante, a quel punto, nel limite del suo mandato, ma anche nei limiti del suo effettivo potere individuale o di ceto, non poteva che cercare di far prevalere entro l’assemblea parlamentare la decisione assunta al di fuori; un mandato «imperativo», dunque, conforme al carattere «vincolato» e predeterminato della decisione politica da assumere.
Quando però, per ragioni sociali e storiche collegate allo sviluppo dei ceti e soprattutto all’ampliarsi delle esigenze finanziarie e belliche202, i sovrani estesero le funzioni e le richieste delle prime assemblee parlamentari, il carattere «vincolato» e predeterminato delle decisioni venne meno; con immediate ripercussioni sulla natura del mandato e sull’ambito dei poteri in concreto esercitati dai rappresentanti.
Anche in questo caso non vale confondere le diverse esperienze storiche203. Limitiamoci allora ad osservare quanto avvenne in Francia: più volte alle esigenze del sovrano di vedere approvate le sue richieste non definite nelle lettere di convocazione fu opposto dai rappresentanti la propria incapacità di assumere impegni poiché vincolati nel mandato. Furono allora i sovrani che costantemente sollecitavano il conferimento dei più ampi poteri ai rappresentanti dei ceti e dei territori. Così già nel 1302 è Filippo il Bello, nell’atto di convocazione dei primi Stati generali, a richiedere che i rappresentanti fossero «muniti di pieno espresso e sufficiente mandato, per ascoltare, ricevere e fare ciò che il re avrebbe ordinato e per consentire a ciò, senza addurre il pretesto di doversi recare a riferire»204; ma ciò non fu sufficiente. In molte circostanze, infatti, i delegati riuscirono ad opporsi alle richieste del re, interrompendo i lavori degli Stati generali per far ritorno ai loro baliaggi al fine di conoscere l’opinione dei rispettivi mandatari205. Gli sforzi per modificare i caratteri della rappresentanza, «liberando» il mandato e «separando» i delegati dai propri corpi d’appartenenza, indusse i sovrani a scrivere lettere di convocazione sempre più generiche e richiedere che i mandati fossero redatti in termini sempre meno vincolanti, sino ad auspicare l’attribuzione dei «pieni poteri» per «conseiller, besogner et consentir tout ce qui sera advisé, délibéré et conclu à la dite Assemblée»206. Un’avversione della corona al carattere imperativo del mandato che si protrasse sino alla rivoluzione francese, e anzi fu proprio in quel frangente storico che Luigi XVI, tre giorni dopo il giuramento della Pallacorda, nell’estremo tentativo di frenare gli avvenimenti che l’avrebbero travolto, emanò l’ordinanza del 23 giugno 1789, nella quale «dichiarava» il divieto di mandato imperativo, aprendo in tal modo la strada alla fine del sistema feudale e dell’ancien régime di rappresentanza politica: nemesi della storia207.
L’ostilità regia ai vincoli di mandato aveva evidenti ragioni strumentali e rispondeva a chiare esigenze di rafforzamento dell’istituzione monarchica: si volevano superare le resistenze dei rappresentanti dinnanzi alle richieste sovrane. D’altro canto, si deve simmetricamente constatare come il sistema del mandato «imperativo» realizzava una difesa per i ceti e i territori dinnanzi alla volontà sovrana del re, con una funzione di garanzia e di limitazione delle pretese regie. In ogni caso, al di là delle convenienze e dei vantaggi che l’istituto del mandato imperativo ha pure storicamente prodotto208, occorre comunque rilevare come sin dal suo sorgere il divieto di mandato imperativo mostrava la sua strutturale ambiguità: una doppiezza che non permetteva – e non permette tuttora – di formulare giudizi assoluti sul valore e le virtù di uno strumento di regolazione dei rapporti tra rappresentanti e rappresentati che esercita anche ed immediatamente un’influenza diretta e decisiva sulla natura e i poteri dell’organo della rappresentanza. Fu chiaro sin dall’inizio della sua storia che il modo di esercizio del mandato entro un’assemblea politica dipende tanto dai vincoli, dalle istruzioni, dagli impegni assunti all’esterno con i propri mandatari, quanto dal ruolo costituzionale dell’organo e dalla funzione che ad esso si vuole assegnare. Sia i monarchi sia i sudditi furono pienamente consapevoli che tanto più vincolato era il mandato tanto meno autonomo era l’organo, impedito di assumere decisioni propriamente sovrane. Poi ciascuno interpretava gli ist...

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