Al largo di Okinawa
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Al largo di Okinawa

Petrolio, armi, spie e affari nella sfida tra Cina e Usa

  1. 216 pagine
  2. Italian
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Al largo di Okinawa

Petrolio, armi, spie e affari nella sfida tra Cina e Usa

Informazioni su questo libro

Da un lato ci sono 1.300 milioni di persone che aspirano a vivere nel benessere a ogni costo; dall'altro 300 milioni circa che quel benessere non hanno intenzione di perderlo. Non è più questione di ideologie, la posta sul piatto è molto più basilare: materie prime, petrolio, mercati, tecnologia. In una parola, la sopravvivenza e un nuovo equilibrio di potere. La battaglia tra Stati Uniti e Cina per il controllo globale è appena cominciata. Nessuna mossa è esclusa.«In Zambia i cinesi stanno costruendo una ferrovia di 1.800 chilometri. In Sudan la diga di Merowe sul Nilo, un progetto da 1, 8 miliardi di dollari. In Etiopia la maggiore diga del continente, in Nigeria lanceranno il primo satellite per le telecomunicazioni, in Uganda stanno introducendo nuovi farmaci antimalaria e in Tanzania farmaci antiretrovirali contro l'AIDS, in Kenya la radio di Stato cinese ha aperto una stazione che trasmette programmi per 19 ore al giorno.»Dall'Africa al Pacifico, Alessandro Spaventa e Salvatore Monni collezionano storie di vita e di affari, spionaggio e impresa, satelliti e petrolio, per spiegare perché le relazioni Usa-Cina sono oggi a un delicato punto di svolta, fra la crisi globale e il nuovo corso della politica americana. «La Cina sarà anche solo un 'competitor' e non un nemico, come ha sostenuto Obama, ma sta tirando fuori i denti per prepararsi ad affrontare a viso aperto la maggiore potenza del mondo. L'aquila è in difficoltà, si dibatte. Il drago, uscito dalla tana, è pronto a mordere.»

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Informazioni

Argomento
Economia
Categoria
Finanza

1. Supermarket Africa

Aeroporto internazionale Oliver Tambo, Johannesburg, Sudafrica. 6 febbraio 2007. Dalla scaletta di un Boeing 747 scende un signore di media statura, vestito elegantemente, abito nero, cravatta rossa, camicia bianca, capelli neri, occhiali con una montatura un po’ retrò, 64 anni. Ad attenderlo, sulla pista, uno stuolo di rappresentanti del governo sudafricano, guidati dal ministro degli Affari Esteri Nkosazana Dlamini Zuma, una donna corpulenta fasciata in un abito damascato, cappello bianco sul capo. I due si stringono calorosamente la mano e, dopo aver esaurito i saluti di rito, procedono insieme verso una lunga fila di macchine che li aspetta poco distante. Dopo pochi passi salgono in macchina, Dlamini Zuma su una limousine nera con le bandierine sudafricane, il suo ospite su una berlina, sempre nera, con due bandierine vicino agli specchietti. Le bandierine sono quelle della Repubblica Popolare Cinese, il passeggero è il presidente cinese, Hu Jintao.

Sete di petrolio

Quella sudafricana è la sesta tappa di un tour di dodici giorni che all’inizio del 2007 ha portato il presidente Hu e la delegazione che lo accompagna in otto Stati africani, attraverso l’intero continente: Camerun, Liberia, Sudan, Zambia, Namibia, Sudafrica, Mozambico e le Seychelles.
Il tour segna un’altra importante tappa nella politica di espansione in Africa perseguita con estrema determinazione ed efficacia dalla Cina. Il segno dell’importanza strategica che il continente nero ha assunto per Pechino era già stato reso dai precedenti viaggi del 2004 e del 2006 e, soprattutto, dall’inedito e imponente Forum sulla Cooperazione tra Cina e Africa svoltosi a Pechino all’inizio del novembre 2006 con la partecipazione di delegazioni di 48 paesi africani su un totale di 53. Forse il primo caso al mondo di un paese che ospita un intero continente.
Le ragioni dell’interesse della Cina per l’Africa sono ovvie e sono le stesse che hanno determinato da sempre l’interesse dei paesi occidentali, sia di quelli europei che degli Stati Uniti: le risorse naturali. Con un’economia che ha tassi di crescita annui del 9-10% la Cina è diventata un vorace consumatore di materie prime, petrolio in primis, ma anche carbone, ferro, bauxite, oro, rame, cobalto, legname. Dal 2003 il paese ha contribuito per il 40% alla crescita della domanda mondiale di greggio ed è divenuto il secondo consumatore di petrolio al mondo, superando il Giappone e attestandosi dietro gli Stati Uniti. Un fabbisogno che è destinato a crescere ulteriormente se, come recitano le previsioni, entro il 2030 la Cina diverrà la prima economia del mondo. Metà di esso è oggi soddisfatto dalle importazioni dall’estero, il 60% delle quali proviene dall’Africa. Una scelta dovuta alla necessità di limitare la dipendenza dai paesi arabi, sia per questioni di prezzo e sicurezza degli approvvigionamenti, sia a causa del controllo esercitato sull’area mediorientale dagli Stati Uniti.
I primi passi di tale strategia risalgono ad oltre una decina di anni fa quando i cinesi misero piede nei campi petroliferi di Muglad, in Sudan. Da allora il rapporto non ha fatto che intensificarsi, dapprima lentamente, poi in modo esponenziale. Nel 2000 l’interscambio commerciale tra Cina e paesi africani era di 10 miliardi di dollari, nel 2005 era quadruplicato e nel 2006 ha superato i 55 miliardi di dollari, gran parte dei quali dovuti al petrolio. La Cina è ormai il terzo partner commerciale dell’Africa dopo Stati Uniti e Francia e dovrebbe diventare il primo entro il 2010, quando gli interscambi raggiungeranno i 100 miliardi di dollari. Oggi due terzi delle importazioni di petrolio del colosso asiatico provengono dall’Africa, e in particolare da: Sudan, Angola, Nigeria, Algeria, Gabon, Ciad, Guinea Equatoriale e Repubblica del Congo. Ma c’è di più. In tutti questi paesi le società cinesi stanno entrando nel capitale delle società petrolifere locali o stanno formando joint ventures, così, da un lato, da controllare direttamente la produzione ed evitare spiacevoli sorprese e, dall’altro, da accrescere la produttività fornendo assistenza tecnica. Il caso più recente è quello della Chinese National Offshore Oil Corporation (cnooc) che in Nigeria ha acquisito per 2,27 miliardi di dollari il 45% della proprietà di giacimenti petroliferi off-shore in grado di produrre 175.000 barili al giorno; ma esemplari sono anche il caso dell’Angola, dove la Cina ha scalzato gli Stati Uniti come primo acquirente di petrolio, e del Sudan che da modesto produttore è divenuto, in buona parte grazie ai cinesi, un paese che produce 400.000 barili al giorno, che presto diverranno 600.000, il 64% dei quali è diretto verso Pechino.

Eldorado

In un contesto come quello attuale, nel quale la domanda di materie prime è in rapidissima crescita, il continente africano è un vero e proprio Eldorado per chi sappia metterci sopra le mani e sfruttarlo. Negli anni Novanta l’Africa produceva circa il 10% del petrolio mondiale: oggi la sua quota è salita al 12%. Tra il 2000 e il 2005 la produzione dell’Africa è cresciuta del 25% rispetto al decennio precedente. Un aumento che ha coinvolto non solo Nigeria, Algeria e Libia, ma anche Angola, Sudan, Guinea Equatoriale e Ciad. Solo l’Angola, un paese che prima non figurava tra i grandi produttori di petrolio, ormai estrae 1.250.000 barili al giorno, il 13% dell’intera produzione africana. Tra il 2006 e il 2007, la stima delle riserve presenti in Sudan è decuplicata, raggiungendo i 5,6 milioni di barili. E non è solo il petrolio. Ci sono anche il metano e il gas naturale, le cui riserve paiono essere assai consistenti e ancora relativamente inesplorate anche in paesi con una produzione consolidata come Algeria, Libia e Nigeria. Negli ultimi anni la produzione di gas naturale liquido è cresciuta del 42% portando l’Africa a produrre una quota mondiale del 27%. Una crescita che, come per il petrolio, riguarda sia paesi che sono già forti produttori sia paesi finora in seconda fila come l’Angola. Nel continente, inoltre, viene estratto o si produce: il 90% del cobalto mondiale, il 64% del manganese, il 50% dell’oro, il 40% del platino, il 30% dell’uranio, il 20% del petrolio, il 70% del cacao, il 60% del caffè, oltre l’80% del coltano (un minerale usato per i cellulari e per i chip dei computer) e il 50% dell’olio di palma.
C’è molto da estrarre e raccogliere in Africa, quindi. Per farlo tuttavia servono investimenti notevoli: oleodotti, gasdotti, autostrade, impianti di estrazione, porti attrezzati. Investimenti che i paesi africani in larga misura non sono in grado di realizzare, per questioni sia economiche che di capacità tecnica e tecnologica. Fino alla fine degli anni Novanta, laddove era reputato conveniente, ci hanno pensato quasi esclusivamente gli occidentali. Ora non più. In Africa a giocare la partita c’è anche la Cina. Nel 2000 Pechino aveva realizzato investimenti solo in Sudan. Oggi le imprese del gigante asiatico hanno avviato progetti di esplorazione e produzione in circa 20 paesi e di raffinazione in sei. Praticamente ovunque vi siano tracce di oro nero.

A tutto campo

International Convention Centre, Cape Town, Sudafrica. 17 marzo 2008. Oil Africa, principale fiera del settore nel continente nero, presenti circa 200 espositori. In fiera si può comprare di tutto, dagli stivali impermeabili al petrolio, alle piattaforme off-shore. Tra le imprese provenienti dal Texas o dal Medio Oriente fanno capolino una dozzina di nuove venute: le ­imprese cinesi. «Quello africano è un buon mercato per noi» – afferma Pang Ling, rappresentante di una di quest’ultime – «siamo appena entrati e abbiamo molto da proporre». James Yan, rappresentante di un’altra ditta cinese, aggiunge: «per ora non è un mercato sufficientemente grande, ma riteniamo che in futuro possa diventarlo». Yan ha ragione, non c’è motivo per cui l’Afri­ca non possa rivelarsi un buon affare. Se non subito, ­certamente nel prossimo futuro. E non solo perché i cinesi stanno divenendo uno dei principali partner dell’industria petrolifera africana, un biglietto da visita che indubbiamente aiuta ad aprire molte porte. A giocare un ruolo importante è anche il fatto che, come ricorda Zhao Zhiming, presidente dell’Associazione cinese dell’industria petrolchimica, «la Cina offre prezzi estremamente vantaggiosi, il che rende le nostre attrezzature estremamente competitive in tutta l’Africa». Un elemento determinante in un contesto nel quale, come ricorda Eduardo Lopez dell’Agenzia internazionale per l’energia, «è divenuto sempre più difficile trovare ingegneri, piattaforme e tutto ciò che è indispensabile e fun­zionale all’estrazione del petrolio. Un trend che sta creando molte difficoltà nel settore». Un’opportunità notevole per le imprese ­cinesi che nel 2005 hanno esportato attrezzature per il settore petroli­fero per circa 800 milioni di dollari in oltre 50 paesi nel ­mondo.
Angola, Gabon, Nigeria, Congo, Zambia, Egitto, Guinea, Etiopia, Sudafrica, Ghana, Kenya, Tunisia, Marocco, Senegal: i cinesi sono dappertutto. Sono circa 900 le società del gigante asiatico attive nel continente con investimenti che dal 1999 ad oggi hanno raggiunto i 12-13 miliardi di dollari. Solo nel 2006 la Chinese Academy of Social Sciences stima che ci siano stati investimenti per 1,25 miliardi di dollari. Altri analisti suggeriscono un valore di oltre 6 miliardi di dollari. Oltre al petrolio la Cina acquista rame e cobalto da Zambia e Congo; legname da Gabon, Camerun, Mozambico, Guinea Equatoriale e Liberia; platino e cromo dallo Zimbabwe e ferro grezzo, carbone, nichel e alluminio da svariate altre località. Le imprese cinesi stanno investendo in misura crescente nel tessile-abbigliamento, nell’agro-industria, nelle telecomunicazioni, nell’edilizia e nelle infrastrutture. Stanno costruendo la rete ferroviaria in Botswana, l’autostrada tra Tunisia e Marocco, un teatro in Senegal, una diga in Ghana.
In Costa d’Avorio sono aziende cinesi quelle che stanno costruendo la nuova capitale, Yamoussoukro, la cui edificazione ovviamente è pagata grazie ai prestiti cinesi. In Ciad, paese esportatore di petrolio, i cinesi hanno in progetto di realizzare la prima raffineria petrolifera del paese, costruire strade, creare opere per l’irrigazione e impiantare una rete di telefonia mobile. Per iniziare. Poi si vedrà. Al Ciad la Cina ha concesso l’esenzione dai dazi per l’importazione. E poco importa se, a parte il petrolio, il paese non esporta praticamente nient’altro. Come ha affermato l’ambasciatore cinese in Ciad, Wang Yingwu, «se non producono oggi, lo faranno in futuro». Intanto, per ora, il greggio è più che sufficiente.
In Zambia i cinesi stanno costruendo una ferrovia che, attraverso un percorso di circa 1.800 chilometri, porterà fino al porto di Dar es Salaam in Tanzania. Il progetto costerà 500 milioni di dollari e verrà realizzato da 50.000 lavoratori cinesi. In Sudan i cinesi stanno costruendo la diga di Merowe sul Nilo, un progetto da 1,8 miliardi di dollari. In Etiopia le imprese cinesi stanno realizzando la maggiore diga del continente, in Nigeria stanno lavorando per lanciare il primo satellite per le telecomunicazioni, in Uganda stanno introducendo nuovi farmaci antimalaria e in Tanzania farmaci antiretrovirali contro l’aids, mentre in Kenya la radio di Stato cinese ha aperto una stazione che trasmette programmi per 19 ore al giorno.
Centinaia di migliaia di cittadini cinesi – le stime parlano di 750.000 lavoratori – si sono spostati, legalmente o illegalmente, in Africa. Non solo operai, ma anche imprenditori come Jacob Wood che, nato a Shanghai, ha passato metà dei suoi 60 anni in Nigeria. Dopo aver gestito per anni un ristorante cinese, all’inizio del 2000 ha iniziato a far venire manodopera specializzata dalla Cina e ha aperto una fabbrica dopo l’altra. Oggi possiede due alberghi, un ristorante, un’impresa di costruzioni e 15 altre fabbriche che producono di tutto, da grandi impianti di aria condizionata a macchinari pesanti. Le sue aziende impiegano 300 cinesi e 1.500 nigeriani.
O come You Xianwen, che nel 2007 ha venduto la sua azienda a Chengdu, nella Cina sud-occidentale, per spostarsi ad Addis Abeba, in Etiopia, per dare vita ad un’azienda con un socio cinese che fino ad allora aveva conosciuto solo via internet. Prima di scegliere l’Etiopia You aveva preso in considerazione vari altri paesi africani, tra cui lo Zambia. La sua società, abc Bio-Energy, costruisce apparecchi che generano gas combustibile dai rifiuti.
La Cina ha ormai più ambasciate in Africa di quante ne abbiano gli Stati Uniti. Sono stati aperti tre Istituti Confuciani in Sudafrica, Kenya e Ruanda e altri cinque sono in programma. Secondo il ministero cinese dell’Educazione sono 8.000 gli africani che stanno studiando la lingua cinese. Pochi in apparenza. Ma molti se si pensa che ognuno di essi potrà divenire un punto di contatto o un intermediario per le imprese cinesi.

Affari senza condizioni

Com’è stato possibile che le porte dell’Africa si siano così rapidamente aperte al gigante asiatico ridimensionando, se non in alcuni casi scalzando, la tradizionale presenza dei paesi europei e degli Stati Uniti? Il motivo è semplice: i cinesi fanno affari senza fare domande, senza porre condizioni; e per stringere accordi sono disposti a donare aiuti consistenti e anche in questo caso senza porre vincoli di sorta, tranne, naturalmente, quello di riservare una fetta consistente delle risorse naturali e degli appalti alle imprese cinesi. Nessun riferimento alla necessità di riforme democratiche, trasparenza, lotta alla corruzione, lotta alla povertà, sviluppo sostenibile, e soprattutto nessun riferimen­to ai diritti umani. Pechino d’altronde ritiene che questi ultimi siano una questione soggetta al relativismo culturale, che quindi vada interpretata a seconda della situazione e del paese, e che sopra ogni cosa debba valere il diritto di non ingerenza da parte dei paesi stranieri nelle ‘faccende interne’ di un paese sovrano.
Ma contano anche i soldi. A conclusione del Forum sino-africano del novembre 2008 il presidente cinese Hu Jintao ha messo a disposizione dei paesi africani, per i successivi tre anni, 3 miliardi di dollari di prestiti e 2 miliardi di crediti alle esportazioni, ha annunciato la creazione di un fondo di sviluppo di 5 miliardi di dollari per incoraggiare gli investimenti delle imprese cinesi, si è impegnato a raddoppiare gli aiuti allo sviluppo entro il 2009 e a cancellare 10 miliardi di debito bilaterale di 33 paesi africani. Sono stati inoltre chiusi accordi per un valore di circa 1,9 miliardi di dollari, tra cui: una rete telefonica nelle aree rurali in Ghana, una fabbrica di alluminio in Egitto e una ferrovia in Nigeria. Immediatamente prima di intraprendere il suo recente tour, infine, egli ha messo sul piatto 3 miliardi di linee di credito agevolate e prestiti a interesse zero.
Tale politica ha permesso di raccogliere sem...

Indice dei contenuti

  1. 1. Supermarket Africa
  2. 2. Dall’Africa al Pacifico
  3. 3. Spie
  4. 4. Miracoli cinesi e depressioni americane
  5. 5. Nella tana del drago
  6. 6. Epilogo
  7. Bibliografia