Dall'anima alla mente
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Dall'anima alla mente

Breve storia della psicologia

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Dall'anima alla mente

Breve storia della psicologia

Informazioni su questo libro

Come si è costituita la psicologia parlando di anima; come si è cercato di misurarla; come si è smesso, quando il concetto di anima, con l'istituzionalizzarsi della psicologia, è diventato imbarazzante; come si è cercato di eliminarla, salvo poi trasformarla in mente pensando anche di trovare una via d'uscita nell'analogia uomo-calcolatore. Come se n'è cercata un'altra in quelle belle immagini colorate che sembrano dire tutto sul funzionamento del cervello, e invece probabilmente seguitano solo a raccontare la vecchia favola della frenologia, delle facoltà localizzate nei vari luoghi del sistema nervoso.Una breve storia della psicologia, scienza dell'anima, che di anima ormai non parla più da oltre un secolo.

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Informazioni

1. L’invenzione della psicologia

1.1. Il problema dell’anima

Nel 1732 il filosofo razionalista Christian Wolff (1679-1754) pubblicò la sua Psychologia empirica, che iniziava con la seguente definizione di questa branca del sapere: «La psicologia empirica è la scienza che stabilisce con l’aiuto dell’esperienza i principi attraverso cui si può spiegare tutto ciò che avviene nell’Anima». E subito dopo, per definire cosa sia l’anima e come se ne possa avere conoscenza, affermava: «Non bisogna cercare altrove che in noi stessi la prova della nostra esistenza; noi sentiamo di pensare, di avere delle idee delle cose che sono fuori di noi, che esistano o che non esistano [...] Questo principio che in noi sente di pensare, che ha delle idee delle cose che sono fuori di lui, si chiama Anima o Spirito» (pp. 1-2).
È questa una definizione che la maggior parte delle persone tutt’oggi accetterebbe, indipendentemente (e ciò è curioso) dalle proprie idee religiose, dalla propria visione del mondo, dal credere o meno in un aldilà. In generale, quando si parla con un qualsiasi interlocutore dell’anima, questi dimostra di sapere perfettamente a cosa ci si riferisce, ed è in grado di darne una definizione, largamente condivisa, che ricalca ampiamente quella di Wolff sopra citata (cfr. Inglehart et al., 2004).
La parola «psicologia» deriva dal greco (pur essendo stata creata solo nel XVI secolo), e significa scienza dell’anima. Peraltro, l’uso del termine «anima» è stato bandito dai dizionari psicologici almeno dal 1911, quando il padre del funzionalismo, James R. Angell, lanciava il suo famoso interdetto, proponendo di sostituirlo con «mente» o «coscienza». Ma erano gli stessi anni in cui il padre del behaviorismo, John B. Watson (1913), decretava una fatwah anche contro il termine «coscienza».
Nessuno di noi sa comunque cosa avesse in mente l’umanista spalatino Marko Marulić (Marcus Marulus: 1450-1524) quando, nel 1520 circa, coniò il termine «psichiologia» (sic!), perché dell’opera che ne trattava a noi è rimasto solo il titolo, Psichiologia de ratione animae humanae. Quasi certamente doveva trattarsi di uno studio sulla natura (ratio) dell’anima. Come nota Solomon Diamond (1984), il significato proprio di ratio è «natura», come, ad esempio, in Alcuino. Possiamo aggiungere che, proprio per riferimento all’anima, è sempre stato utilizzato il termine ratio per «natura», per esempio in Tommaso d’Aquino (1984, II, 7) o in Giovanni Buridano (in Zupko, 1997). Di contro, Marina Massimi (1983) ha ipotizzato che con ratio Marulus intendesse una sorta d’igiene mentale su basi etico-religiose. Del testo di Marulić, peraltro, non sono rimasti neppure vaghi echi del suo contenuto, mai è stato successivamente citato, e quindi per noi è come se non fosse mai esistito (cfr. Luccio, 2013a).
Nel 1575 il termine compare per la prima volta a stampa in un’opera di un filosofo «ramista», cioè seguace di Petrus Ramus (Pierre de la Ramée), Johann Thomas Freigius, che pone la psicologia come una delle suddivisioni della fisica. Quel che va però sottolineato è che questo nuovo dominio del sapere, la psicologia come branca della fisica, segue una strada assolutamente parallela a quella delle principali indagini che gli studiosi, soprattutto quelli del secolo successivo, avrebbero perseguito sui processi mentali, e che solo per comodità chiameremo dell’indagine filosofica dell’anima. I vari Cartesio, Leibniz, Locke, studiando l’intelletto umano, ma anche le passioni dell’anima, avrebbero seguito vie razionalistiche o empiristiche, ma certamente lontane dal legare l’anima alla fisica. Non useranno pressoché mai il nome di psicologia per questi studi. A Leibniz, per esempio, il termine ripugnava tanto che gli riusciva quasi impossibile scriverlo. Così, nei suoi manoscritti filosofici, pubblicati postumi nel 1903, per scrivere «Psychologia» inizia scrivendo «Physi», che corregge in «Phychologia» (sic!), e infine in «Psychologia» (p. 526). Come nota il curatore dei manoscritti, Louis Couturat, «la plume de Leibniz se refuse à écrire ce mot nouveau» – che tanto nuovo poi non era, avendo già un secolo e mezzo di vita.
Ma se gli studi sull’intelletto umano e sulle passioni seguono una via che non tiene conto della psicologia in quanto tale, quelli sulla psicologia come fisica dell’anima seguitano a prosperare, specie in due campi: la tradizione riformata della filosofia e, soprattutto, la medicina. Sarà solo a metà del XVIII secolo, dopo la pubblicazione del saggio di Wolff con cui abbiamo aperto il capitolo, che le due tradizioni si ricongiungeranno. O sarebbe meglio dire che Wolff farà accettare il termine «psicologia» universalmente, sia pure ancora per vari decenni con qualche difficoltà. Ma sarà soprattutto la tradizione filosofica che verrà sussunta sotto tale termine, e non quella fisica, che cadrà pressoché nell’oblio, tanto da portare quasi a dimenticare del tutto anche il nome di chi aveva inventato e usato tra i primi il termine.
Vediamo dunque come si sono sviluppate queste due tradizioni di studio e ricerca: prima quella della fisica dell’anima, poi quella che abbiamo convenuto di chiamare della filosofia dell’anima.

1.2. La fisica dell’anima

Se anche il termine «psicologia» è stato effettivamente inventato (o reinventato) da Freigius, è certo però che non fu questi il primo a indicare la necessità di studiare l’anima con i metodi della fisica. Ogni storia del pensiero non inizia dal nulla, e anche questa non fa eccezione. Noi ora dobbiamo spostare la nostra attenzione indietro di un paio di secoli, e vedere quale riflessione, rilevantissima – e ciononostante largamente trascurata dalle analisi degli storici della psicologia – si svolse fra XIII e XIV secolo, grazie in particolare prima a san Tommaso, poi a Buridano.
Il XIII secolo aveva visto la grande disputa nell’ambito dell’aristotelismo tra gli scolastici, come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, e gli averroisti, in Italia rappresentati soprattutto da Sigieri di Brabante e Boezio di Tracia. Qui non ci interessa tanto il contenuto dottrinario di quella controversia, che in larga misura si incentrava sulla possibilità dell’esistenza di anime individuali totalmente separate, contro l’idea averroista di un unico intelletto agente in cui confluissero le anime singole dopo la morte dell’individuo. Ne sarebbe emerso da trionfatore l’Aquinate, che avrebbe segnato per diversi secoli la via ortodossa sposata dalla Chiesa per ogni considerazione relativa all’anima umana da ritenersi lecita.
La dottrina dell’Aquinate aveva al suo centro il problema del cosiddetto ilemorfismo, cioè la dottrina di derivazione aristotelica secondo cui l’individuo è costituito dall’unione indissolubile tra materia (hyle) e forma (anima, entelechia), una dottrina che secondo alcuni filosofi rendeva difficile immaginare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte (Toner, 2009). Non era questa l’idea di Tommaso, secondo cui le anime potevano sopravvivere anche dopo la morte dei corpi (cfr. Conn, 2011).
Quel che a noi però più interessa in Tommaso è la sua analisi della natura (ratio) dell’anima, e dei metodi per studiarla. Secondo l’Aquinate – che segue in ciò Aristotele –, contrariamente a quanto riteneva Platone, per quel che riguarda l’anima vi sono due nature: una comune a tutte le anime, l’altra diversa per ogni tipo, dai singoli uomini ai singoli animali, ai pianeti. Ma il problema dell’essenza e della sostanza che compone l’anima è legato al fatto che questa non è percepibile ai sensi. Tuttavia, non per questo le affezioni e i processi che si svolgono nell’anima devono necessariamente coinvolgere anche il corpo, ma alcuni sono specifici della sola anima. O meglio, come già diceva Aristotele, vi sono due sensi in cui considerare gli atti dell’anima rispetto al corpo. Nel primo, e tipicamente nel pensiero (intelligere), il corpo è solo un oggetto, ma non è strumento dell’anima, perché questa non ha bisogno di organi per pensare; nel secondo (nelle attività sensoriali, nelle emozioni, nelle attività vitali) sono le modificazioni corporee che agiscono sull’anima.
Per Tommaso, allora, occorre distinguere tra le operazioni proprie dell’anima (la cui esistenza, per inciso, spiega la possibilità della persistenza dell’anima anche senza corpo, come dopo la morte) e quelle del coniunctum di corpo ed anima: le prime ci parlano dell’essenza dell’anima per sé, e non possono essere analizzate con i metodi delle scienze naturali (ma solo con gli strumenti della metafisica); le seconde invece sono oggetto proprio della fisica. Nelle prime si astrae dalla materia, nelle seconde ci si concentra sulla materia (1984, I.2: 9, ll. 46-47).
Non molto diversa, per quel che ci riguarda, è la posizione che assumerà nel secolo successivo Giovanni Buridano. Anche per lui, la componente intellettiva dell’anima non può essere studiata con i mezzi della fisica, ma solo con quelli della metafisica (cfr. King, 1987; Zupko, 1993, 1997, 2003). Per quel che riguarda la scienza dell’anima, anche Buridano si rifà ad Aristotele, ma la sua distinzione tra anima umana e anima non umana (degli animali e delle piante) è molto più netta. Le anime non umane sono la vegetativa, la sensitiva e l’appetitiva. Si osservi che ciò non significa anime distinte in quanto tali, bensì distinte facoltà (potentiae, dynamis). Buridano invoca quattro principi metafisici, in base ai quali determina i modi in cui le anime non umane ineriscono ai rispettivi corpi. Si tratta del principio dell’estensionalità, in conformità al quale queste anime si estendono per tutto il corpo, animale o vegetale; del principio dell’identità, che appunto afferma che non di differenti anime si tratta, ma di differenti poteri o facoltà di un’unica anima; del principio della distinzione definitoria, in base al quale i termini che individuano le diverse operazioni dell’anima sono puramente connotativi, riferendosi quindi agli stessi referenti in modi diversi; e infine del principio dell’omogeneità, che afferma che le parti di queste anime materiali hanno in tutto il corpo la stessa natura, e differiscono solo per loro disposizioni materiali. Nell’insieme, definiamo con Zupko questi principi come la teoria materialistica dell’inerenza psicologica. Su questa base, le facoltà materiali dell’anima sono specifico oggetto della fisica.
Diveramente da Tommaso, però, Buridano esclude che la fisica possa studiare anche gli aspetti materiali dell’anima umana. Infatti, l’anima umana esiste «indivisibilmente nell’intero corpo e in ogni parte di esso» (in Zupko, 2003, QNE), a differenza dell’anima non umana, che non esiste nella sua interezza nell’intero corpo animale o vegetale, ma come parti nelle parti di questo. A differenza dell’anima non umana, quella umana, per tutte le sue facoltà, ha con il corpo lo stesso rapporto che ha Dio con il mondo (ivi, QDA). La fisica, quindi, che nell’animale o nella pianta dalle modificazioni corporee inferisce le modificazioni dell’anima, non può compiere lo stesso processo per l’anima umana, che può essere oggetto solo dello studio metafisico.
Questa interdizione allo studio naturalistico quanto meno della parte razionale dell’anima umana doveva imporsi nella cultura europea e durare a lungo. Ancora nel 1605 Francesco Bacone proponeva l’istituzione all’interno della filosofia di una scienza generale dell’uomo, comprese le sue «miserie e prerogative», corpo, anima e loro unione. Ma per Bacone sarebbe stato necessario distinguere l’anima razionale, propria dell’uomo, con le sue facoltà come intelletto, ragione, immaginazione, memoria e volontà, oggetto di studio di religione, logica ed etica, e l’anima irrazionale, condivisa con gli animali, oggetto di studio della medicina e della fisiologia.
Peraltro, a partire già dai tempi di Tommaso, al di là di Aristotele sempre più testi greci classici si andavano acquisendo, ora anche attraverso traduzioni fatte in Europa, e non più solo tramite i traduttori arabi. Per quel che ci interessa, due sono soprattutto gli autori che orientano decisamente in nuove direzioni il pensiero occidentale sull’uomo: Platone e Galeno. Per quel che riguarda Platone, in particolare, è il suo chiaro dualismo che si pone all’estremo opposto della concezione ilemorfica propria della scolastica, e che sarà abbracciata con entusiasmo da tanti filosofi rinascimentali (Kristeller, 1963, 1979).
Il platonismo evidentemente allontanava lo studio dell’anima dalle prospettive della fisica. Di contro, però, la riscoperta di Galeno portava a considerare in modo sempre più stretto i rapporti tra fisiologia e moti dell’anima. Per Galeno (cfr. Galeno, 1984) il principio fondamentale della vita era lo pneuma (l’aria, quindi il respiro), che entrava nel corpo attraverso il cibo e la respirazione, e assumeva tre forme: lo spirito naturale (pneuma physicon), residente nel fegato, che presiede alla nutrizione e al metabolismo dell’organismo; lo spirito vitale (pneuma zoticon), nel cuore, che regola circolazione del sangue e temperatura corporea; e lo spirito animale (pneuma psykhikon), nel cervello, che presiede a percezione, cognizione e movimento. La qualità di questi spiriti dipende dall’equilibrio degli umori corporei (sangue, bile gialla, bile nera e flegma), composti dei quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra), con le loro fondamentali qualità (caldo, freddo, umido e secco), che Galeno deriva dalla tradizione ippocratica, e la cui proporzione determina il temperamento dell’individuo.
L’influenza di Galeno fu profondissima, anche se il progresso delle ricerche anatomo-fisiologiche portò progressivamente ad abbandonarne la lettera del testo. Ma ancora nel Seicento troviamo echi della sua lezione anche in autori che potremmo pensare al riparo da certe suggestioni. Si pensi solo a questo brano delle Passioni dell’anima di Cartesio (1649, Art. 10):
Queste parti sottilissime del sangue costituiscono gli spiriti animali; e per questo non hanno bisogno di subire nessun altro cambiamento nel cervello, se non d’esservi separate da altre parti meno sottili [...] non hanno altra proprietà tranne quella di essere molto piccoli, e agitati da un movimento rapidissimo [...] via via che ne entrano dei nuovi nelle cavità del cervello, altri anche ne escono attraverso i pori che si trovano nella sostanza cerebrale; e tali pori li immettono nei nervi e poi nei muscoli, muovendo così il corpo in tutti i vari modi in cui può esser mosso.
Comunque sia, il galenismo apriva nuove prospettive, rendendo evidenti le profonde interconnessioni esistenti tra le attività corporee (ivi comprese quelle cerebrali) e le funzioni dell’anima. Se ne sarebbero fatti portavoce nel XVI secolo due grandi pensatori, Juan Luis Vives nella cattolica Spagna e Filippo Melantone, luterano, nella riformata Germania. Con la loro opera la strada era aperta per la fondazione di una psicologia scientifica. Come vedremo, però, questa opportunità fu colta solo in modo molto parziale all’interno di un’altra corrente del protestantesimo, il ramismo.
Ma veniamo a Vives, la cui opera è stata da qualche studioso esaltata (con una certa esagerazione), sino a farlo chiamare «padre della psicologia» (F. Watson, 1915). Il testo qui per noi fondamentale è De anima et vita, pubblicato nel 1538, due anni prima della sua morte. Il motivo per cui Vives è considerato un così chiaro precursore della psicologia scientifica è legato al fatto che, nelle sue parole, «noi non siamo interessati a saper cosa l’anima sia, ma come sia e quali siano le sue operazioni». E quindi non ci riferiremo «all’essenza dell’anima, ma alle operazioni che ne modellano il carattere» (de actionibus at compositionem morum: p. 188).
In realtà, questa professione di intenti rimane più sulla carta che nella realtà. L’entusiasmo che suscitò ad esempio in Friedrich Lange (1866; vedi infra, cap. 3) era relativo al fatto che sembrava che Vives avesse superato (come farà due secoli e mezzo dopo Locke) il principale ostacolo a istituire una scienza fisica dell’anima, evitando di occuparsi della sua essenza (oggetto della metafisica) e dedicandosi invece alle sue funzioni. Di fatto, larga parte dell’opera di Vives si occupa proprio delle questioni metafisiche (cfr. Casini, 2010), e in par...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. L’invenzione della psicologia
  3. 2. Misurare l’anima
  4. 3. Sbarazzarsi dell’anima
  5. 4. Il trionfo della mente
  6. 5. Un papavero o un uccellino
  7. Bibliografia