IV
«Le jour de gloire est arrivé!»
Ogni evento che, per la sua carica traumatica, colpisce un corpo sociale suscita spesso una serie di reazioni a catena che ne amplificano la risonanza e la portata. Non appena un evento di questo tipo riesce a mobilitare l’attenzione collettiva, gli individui o i singoli gruppi sociali non si limitano a diventarne testimoni e spettatori, ma hanno tendenza a intervenire direttamente e ritagliarsi finanche un ruolo da protagonisti.
Il caso della Rivoluzione francese offre da questo punto di vista uno straordinario campo di osservazione. Questo evento, che sconvolge profondamente i quadri di vita tradizionali, libera contemporaneamente potenzialità nuove, associando per la prima volta, come si è visto, ampi settori della popolazione alla vita pubblica e alla politica. Fin dalla convocazione degli Stati generali si inaugura un’epoca di trasformazioni. Settori sempre più vasti della popolazione ne ricavano la sensazione inedita di essere parte attiva e determinante di questo nuovo meccanismo, di poter cioè prendere in mano il proprio destino per mezzo dell’intervento personale e diretto nella vita pubblica.
Un protagonismo rivoluzionario
Per quanto ingenua possa sembrare l’aspettativa palingenetica di un cambiamento radicale, la pratica della partecipazione a questa corrente di rinnovamento non cesserà d’ora in avanti di intensificarsi e di allargarsi, dall’89 fino all’inizio dell’anno II. La conseguenza di tale atteggiamento – che mi sembra attraversare tutta la rivoluzione – è l’esperienza collettiva di un rapporto originale con il processo storico; da ciò deriva sia lo sforzo dei contemporanei di sottolineare questa nuova aderenza all’evento con gesta significative e con una presenza attiva alle scadenze rivoluzionarie, sia l’aspirazione a vedere pubblicamente riconosciuto il loro ruolo. Gli individui, come pure alcuni gruppi di cittadini o certe categorie sociali, manifestano dunque la loro volontà di iscrivere indelebilmente nel divenire storico il loro intervento specifico, intessendo un legame ancora più stretto con l’evento.
Il fenomeno rivoluzionario genera infatti, fin dai suoi inizi, la coscienza di vivere un tempo storicamente significativo, «un grande tornante». «La coscienza di far saltare il continuum della storia – annotava a questo proposito Walter Benjamin – è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. La Grande Rivoluzione ha introdotto un nuovo calendario. Il giorno in cui ha inizio il nuovo calendario funge da acceleratore storico». A titolo di esempio Benjamin citava un episodio della rivoluzione di luglio:
Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: «Qui le croirait! On dit, qu’irrités contre l’heure / de nouveaux Josués, au pied de chaque tour, / tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour».
D’altronde, la via verso una maggiore consapevolezza di aderire alla storia in qualità di soggetti storici autonomi era stata tracciata proprio dal Terzo Stato agli albori della rivoluzione, quando – nel quadro degli Stati generali – si poteva proclamare: «La nobiltà sta al Terzo Stato come la favola sta alla Storia». D’altro canto, il ritmo stesso della congiuntura non era minimamente paragonabile a quello che la gente aveva l’abitudine di vivere; una fitta cronologia di avvenimenti traumatici, di bruschi rivolgimenti, contribuisce a diffondere la sensazione che un nuovo rapporto – più stretto e immediato – si è venuto a instaurare, specie nel campo della politica, tra un’azione e i suoi effetti. Le circostanze appaiono realmente suscettibili di essere influenzate dall’intervento individuale o collettivo.
Ritroviamo così uno degli ingredienti di quell’«ipertrofia di coscienza storica» di cui parla François Furet. Solo che non basta limitarsi a rilevare in questo atteggiamento una tensione mitopoietica, dovuta alla sovrapposizione delle volontà soggettive all’universo oggettivo, come tende a fare lo stesso Furet. La partecipazione allargata alla vita politica nel quadro di una dinamica di trasformazione delinea – ripetiamolo ancora – un tipo di comportamento politico del tutto nuovo, in progressiva espansione.
I primi mesi rivoluzionari sembrano confermare che il regime rappresentativo e censitario appena insediato non può permettersi un allargamento illimitato di questa partecipazione; esso necessita al contrario di un certo tasso di passività nell’opinione pubblica e di una certa atonia nella vita politica, per il fatto stesso che l’esercizio della sovranità è delegato a mandatari. Ciò spiega l’alveo entro cui si pretese di contenere la corrente rivoluzionaria all’epoca della festa della Federazione del 1790. Si trattava infatti di canalizzare l’emotività scatenatasi in un anno di rivoluzione, e così pure la spontaneità popolare, con una cerimonia fortemente simbolica e rassicurante. L’obiettivo era quello di circoscrivere lo spazio lasciato all’iniziativa personale, limitando al massimo il rischio di atteggiamenti inconsulti: una volta ritrovata la sua identità, la Nazione poteva lasciare le armi e accordare ai suoi rappresentanti il massimo delle funzioni. Il rifiuto di questa normalizzazione porterà, attraverso l’intervento popolare e l’allargamento della partecipazione collettiva, alla rivendicazione della democrazia diretta, fondata su di una mobilitazione costante dell’opinione pubblica.
Le ripercussioni di questo fenomeno sui comportamenti individuali sono di primissima importanza, perché i cittadini sono incoraggiati a uscire dall’anonimato della folla per esporsi in prima persona e cercare un ruolo specifico da svolgere, sia a livello dell’azione spontanea, sia nel quadro di cariche politiche e amministrative la cui rete si sviluppa sulla base di un reclutamento allargato.
Il fatto che l’idea stessa di «trasformazione» sia messa all’ordine del giorno spinge i contemporanei a considerarsi e a presentarsi – più o meno a giusto titolo – come elementi determinanti di questo processo. Ne deriva una tendenza a far coincidere – attraverso una proiezione abusiva – l’inizio della fase di trasformazione con l’accesso specifico di un individuo o di un gruppo particolare alla vita politica.
Mito e presenza effettiva convivono dunque in quell’insieme di atteggiamenti che si traducono in protagonismo, un aspetto importante del comportamento politico rivoluzionario. Non si intende però con questo isolare tale tensione per darne una lettura di tipo psicologistico; si tratta piuttosto di coglierne il ruolo essenziale nell’ambito di un’antropologia politica della rivoluzione. Il protagonismo va visto infatti non in quanto tale, ma come prodotto di un nuovo e potente meccanismo di attrazione verso la vita pubblica e di un rapporto diverso tra teoria e pratica della partecipazione, in un quadro inedito di circolazione e trasmissione delle emozioni individuali e collettive.
A un primo livello troviamo la forma di protagonismo storicamente più giustificata; si tratta ovviamente degli autentici protagonisti delle fasi più spettacolari e significative della rivoluzione. Non stupisce quindi che i deputati riuniti per il giuramento della Pallacorda abbiano avuto coscienza di vivere un evento straordinario, destinato a segnare profondamente il corso della storia. Il dipinto di David consacrato a questa storica seduta descrive e sottolinea magistralmente tale stato d’animo; esso contribuisce a sua volta ad amplificare con le immagini la forte carica simbolica legata all’episodio e ad enfatizzare il ruolo svolto dai futuri costituenti, artefici dell’evento: «No, la storia di nessun altro popolo mi offre qualcosa di così grande e sublime come il giuramento della Pallacorda che devo dipingere», osserverà lo stesso David, in grado ormai di prendere a modello per i suoi quadri il presente e la storia in fieri al posto della storia antica.
Non è inutile in proposito ricordare le vicende di questo quadro, che commemora l’atto iniziale della sovranità popolare e ne immortala i protagonisti. Esso si colloca all’inizio di una catena celebrativa in cui l’evento, grazie alla rievocazione di David, viene ulteriormente enfatizzato. Il disegno preparatorio è esposto infatti al Salon del 1791 e solleva nel pubblico un’ondata di entusiasmo retrospettivo. La cosa però non finisce qui, perché proprio questa esposizione ispira ad André Chénier un’ode sul giuramento della Pallacorda dedicata a David, incarnazione del binomio arte-libertà, ove è lo stesso atto celebrativo del pittore ad essere a sua volta celebrato insieme agli eroi da rievocare.
In modo analogo, tutte le grandi date della storia parlamentare della rivoluzione ci offrono un primo piano degli attori che, di fronte alle scelte più drammatiche, si sentono a buon diritto sotto gli occhi della nazione e investiti delle responsabilità che essa ha loro affidato. Ma ciò che qui interessa è il modo in cui il protagonismo si riflette a un livello più ampiamente condiviso, quello delle attitudini collettive.
Da questo punto di vista, già la giornata del 14 luglio tratteggia un tipo di comportamento destinato a diffondersi e a riprodursi. Non si assiste infatti solo a un effetto di risonanza delle sue conseguenze politiche, ma anche al formarsi a caldo di una macchina celebrativa spontanea, costituita dalla somma delle reazioni individuali all’episodio traumatico. Il ruolo svolto da ognuno di coloro che assediarono l’antica fortezza, per quanto esiguo possa essere, in un clima di intensa emozione collettiva, è illuminato e nobilitato dall’effetto d’insieme e dalla risonanza assunta dall’evento nel suo complesso. A sua volta, questo effetto viene amplificato dall’eco degli innumerevoli singoli interventi. La partecipazione personale esige quindi di essere riconosciuta da un attestato ufficiale; ecco già all’indomani del 14 luglio costituirsi un corpo di «veterani», dall’anzianità piuttosto recente, i Vainqueurs de la Bastille. Tuttavia l’accesso a questo corpo non sarà né libero, né automatico, per non sottrarre all’appartenenza ogni carattere di distinzione. Il brevetto di Vainqueur verrà rilasciato da una commissione nominata dal Comune il 22 marzo 1790, incaricata di esaminare i titoli prodotti dai candidati e di verificarne l’autenticità.
Fra questi primi protagonisti improvvisati, il caso del cittadino Palloy è forse il più caratteristico. Grazie a un buon matrimonio, egli era divenuto imprenditore edile, ed era riuscito a farsi una posizione approfittando con abilità del boom dell’edilizia parigina negli anni precedenti la rivoluzione. Entrato da subito nel primo embrione di milizia borghese, aveva partecipato alla presa della Bastiglia al comando del suo battaglione, e a questo titolo aveva ottenuto il brevetto di Vainqueur, grazie al quale comincia ad autoproclamarsi protagonista del 14 luglio. È da qui che Palloy decide di intraprendere la demolizione della Bastiglia; il 15 luglio installa senza alcuna autorizzazione un cantiere di 200 operai e inizia i lavori, che concluderà, in tempi piuttosto brevi, entro la fine dell’anno.
Fin qui niente di strano, se non il fiuto per un buon affare, dato che difficilmente le autorità competenti avrebbero bloccato, una volta cominciata, la distruzione di quell’impopolare simbolo del dispotismo: era un doveroso seguito da dare all’evento fondatore del nuovo regime. Ma la fantasia e lo spirito di iniziativa di Palloy vanno ben oltre: con le pietre ricavate dalla demolizione fa intagliare dei modelli della Bastiglia che comincia a inviare in omaggio all’Assemblea Nazionale e ai dipartimenti come souvenir storico. Organizzatore infaticabile di feste e scenografie, produttore di medaglie, stampe e altri oggetti commemorativi con cui sommerge gli organismi amministrativi ad ogni scadenza di una certa importanza, non si lascerà sfuggire nessuna occasione durante la rivoluzione per mettersi in mostra, procurarsi popolarità e vantare con numerosi scritti le sue gesta patriottiche. Prodotto effimero dell’evento, Palloy deve proprio a questo la sua vocazione commemorativa; ma mostra al contempo di aver capito qualcosa di essenziale, il bisogno cioè che emerge in nuovi soggetti storici di consolidare una tradizione, per quanto recente possa esse...