Giusnaturalismo e positivismo giuridico
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Giusnaturalismo e positivismo giuridico

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Giusnaturalismo e positivismo giuridico

Informazioni su questo libro

La straordinaria attualità di queste pagine è nell'essere fonti tuttora preziose di chiarificazioni concettuali e di indicazioni metodologiche. Bobbio traccia una mappa del sapere filosofico-giuridico che ha avuto il merito non soltanto di disegnare i confini dei diversi approcci disciplinari alla riflessione metagiuridica sul diritto, ma anche di contribuire al superamento della loro falsa contrapposizione e insieme del loro reciproco isolamento. Bobbio ci invita a riconoscere che il diritto può essere guardato da più punti di vista differenti – quello della giustizia, quello della validità e quello dell'effettività – corrispondenti a discipline diverse e ad altrettanti metodi d'indagine. Propone inoltre un'analisi rimasta tuttora insuperata della secolare controversia tra positivismo giuridico e giusnaturalismo, illustrando con esemplare chiarezza i diversi significati dei due orientamenti e i diversi piani sui quali la loro opposizione viene di solito concepita.
Dalla Prefazione di Luigi Ferrajoli

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Informazioni

Argomento
Diritto

Appendice B. La natura delle cose nella dottrina italiana

1. La discussione sulla «natura delle cose» fu introdotta in Italia, alla fine del secolo scorso, dagli studiosi del diritto commerciale. Per la sua natura e la sua origine, il diritto commerciale era sempre stato un campo in cui le fonti del diritto diverse dalla legge, come la consuetudine e l’elaborazione scientifica, avevano opposto maggior resistenza al fatale processo di monopolizzazione del diritto da parte dello stato. Nei maggiori trattati tedeschi di diritto commerciale, della seconda metà del secolo scorso, da cui trassero ispirazione gli studiosi italiani, la natura delle cose appariva quasi costantemente come fonte del diritto accanto alla legge e alla consuetudine; ed era la fonte del diritto da cui ricavava il proprio materiale e giustificava la propria autonomia, accanto al diritto legislativo e al diritto consuetudinario, il diritto scientifico. Goldschmidt, dopo aver affermato che ogni rapporto sociale porta con sé «seine angemessene, natürliche Rechtssätze», sosteneva che il più alto compito della scienza giuridica consiste nella scoperta e nella formulazione del diritto immanente alle cose stesse188. Thöl e Behrend ponevano natura delle cose e diritto scientifico nella stessa rubrica; e il primo, dopo avere specificato che la scienza giuridica può ricavare regole giuridiche «aus factischen Grundlagen, aus der Natur der Sache, der Verhältnissen, der Institute, des Thatbestandes, also aus dem Factischen», concludeva, con un’affermazione che mostrava l’enorme importanza della natura delle cose come fonte di diritto nello sviluppo del diritto commerciale: «Ein grosser Theil des Handelsrechts besteht aus solchen aus der Natur der Sache folgenden Rechtssätzen»189.
Uno dei fondatori della scienza del diritto commerciale in Italia, Cesare Vivante (n. 1855), nel fortunato Trattato di diritto commerciale, il cui primo volume apparve nel 1893, accolse esplicitamente tra le fonti del diritto la natura delle cose con una formulazione che riecheggiava le tesi dei giuristi tedeschi. Poiché l’opinione del Vivante fu il punto di partenza della discussione che si svolgerà in Italia per più di due decenni, conviene riportarla testualmente: «Talora la regola emerge immediatamente dalla natura dei fatti e deve dirigere la sentenza dei giudici, benché non sia configurata né in una legge né in una consuetudine. Queste lacune sono frequenti negli affari commerciali, che pigliano continuamente nuove forme non previste dal diritto positivo ed è compito della pratica forense di fissare la regola giuridica, che è conforme alla loro natura»190. Precisava quindi in una nota che «a questa intima natura delle cose» si era ispirato «quel diritto naturale (naturalis ratio) che rinnovò col suo continuo alimento il diritto civile di Roma»191. Riconosceva in una altra nota che solo in seguito alla ricerca scientifica degli avvocati e dei giudici, le corti avevano fissato la disciplina giuridica di parecchi istituti, accolti poi dal codice192, e nel paragrafo successivo dichiarava che «mercé lo studio delle cose e del diritto che le governa naturalmente la scienza prepara anche la legge dell’avvenire perché la prima regola di ogni costruzione giuridica è l’osservazione genuina dei fatti»193. Dal riconoscimento della natura delle cose come vera e propria fonte del diritto traeva infine la conseguenza più radicale, in quanto attribuiva alla Corte suprema il potere di cassare una sentenza che avesse qualificato un rapporto giuridico «in modo contrario alle esigenze della sua natura»194.
2. Nonostante l’indiscussa autorità di cui godeva il Vivante, questo suo tentativo di introdurre la natura delle cose tra le fonti del diritto non fu accolto con favore. La communis opinio dei giuristi italiani è stata ed è tuttora contraria all’allargamento delle fonti del diritto oltre quelle previste dallo stesso legislatore. Nei trattati la natura delle cose non è generalmente neppure menzionata; e quando viene menzionata, viene di solito collocata, insieme con la dottrina, la giurisprudenza, l’equità, ecc., tra le «pretese» fonti del diritto.
Già nello stesso anno in cui uscì il primo volume del Trattato del Vivante, il suo quasi coetaneo Leone Bolaffio (n. 1848), giurista non meno autorevole, prese netta posizione in una recensione, del resto piena di elogi, del Trattato, contro l’illegittimo innalzamento della natura dei fatti a fonte del diritto, compiuto dal Vivante «sulle tracce dei tedeschi», se pure «con argomentazioni proprie». La natura dei fatti, egli commentò, iniziando la serie delle confutazioni che si sarebbero susseguite più o meno sulla stessa falsariga, poteva costituire un elemento prezioso per l’interpretazione: «ma norma legale, no, né per forza di legge, né per forza d’autorità». Bastavano, allo scopo di riempire i vuoti, l’analogia e i princìpi generali del diritto; non c’era affatto bisogno di evocare evanescenti fantasmi195.
Risposero poi direttamente al Vivante, per negare alla natura delle cose lo status di fonte del diritto, due ben noti studiosi del diritto commerciale della più giovane generazione, Alfredo Rocco (n. 1875) e Antonio Scialoja (n. 1879). Entrambi esclusero che si potessero ammettere altre fonti di produzione giuridica oltre la legge e la consuetudine e attribuirono alla natura delle cose un’efficacia limitata all’ambito dell’interpretazione del diritto: il primo, parlando di una fonte d’interpretazione o di conoscenza del diritto accanto alle fonti di produzione196, il secondo, parlando di mezzo o sussidio per l’applicazione e per l’interpretazione del diritto e condannando quindi la confusione tra il processo di formazione e il processo di applicazione del diritto197. Ammettere la natura delle cose come mezzo d’interpretazione e non come fonte di produzione voleva dire riconoscere l’utilità di analizzare la natura del fatto o del rapporto o dell’istituto allo scopo di interpretare e di applicare al caso concreto una regola già data, ma nello stesso tempo escludere che questa analisi fosse da sola in grado di fornire una regola nuova.
Al di fuori della polemica immediata col Vivante, la considerazione della natura delle cose come fonte di conoscenza e non di produzione, o, come anche si disse, come fonte materiale e non formale198, ha finito per diventare l’opinione di gran lunga prevalente tra i giuristi italiani, tra i quali mi è accaduto di riscontrare Giuseppe Messina199, Francesco Ferrara200, Tullio Ascarelli201, Umberto Navarrini202, Paolo Greco203, Mario Rotondi204, Francesco Messineo205.
3. Gli argomenti addotti per negare alla natura delle cose lo status di fonte formale del diritto positivo italiano sono vari. Se ne possono indicare soprattutto quattro. Il primo è di natura emotiva e quindi assai fragile: consiste nel mettere innanzi lo spauracchio del diritto naturale, affermando che il riconoscimento della natura delle cose come fonte del diritto implica la credenza in un diritto superiore al diritto positivo e quindi in ultima istanza il ritorno all’aborrito diritto naturale206. Il secondo argomento è di natura etico-politica e sottolinea le conseguenze pratiche che deriverebbero dall’accoglimento di regole derivate dalla natura delle cose: la formulazione di queste regole, affidata alla valutazione personale e all’elaborazione soggettiva dell’interprete, finirebbe per mettere a repentaglio la certezza del diritto207. Il terzo argomento, di natura logica, è razionalmente il più stringente: consiste nel mostrare che la pretesa di ricavare una regola dall’esame della natura delle cose si risolve nell’errore logico, noto dal Moore in poi col nome di «naturalistic fallacy», ossia nell’errore di credere che sia possibile trarre un giudizio di valore da un giudizio di fatto. Beninteso, i giuristi che si valgono di questo argomento non lo espongono in modo rigoroso: esso prende di solito forma nell’affermazione che è impossibile ricavare una regola dal fatto perché la regola precede il fatto ed è la regola che qualifica il fatto e non viceversa208. Il quarto argomento è di natura giuridica: fa appello alla lettera e allo spirito del sistema positivo italiano, il quale – per quel che riguarda la lettera – non ammette o sembra non ammettere altre fonti di produzione giuridica oltre quelle espressamente previste dall’art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale, e – per quel che riguarda lo spirito – è informato al principio di legalità e alla separazione dei poteri, onde si ritiene inammissibile l’introduzione di nuove fonti del diritto che aprirebbero il varco alla creazione del diritto da parte del giudice209.
A proposito di quest’ultimo argomento è sempre stata frequente tra i nostri giuristi l’osservazione che il ricorso alla natura delle cose poteva essere più facilmente ammesso in altri ordinamenti, come quello francese e quello tedesco, in cui non sono espressamente previsti i procedimenti da seguire in caso di lacuna, che non nel nostro ordinamento, ove l’allora art. 3 delle Disposizioni preliminari (corrispondente all’art. 12 attuale) prevedeva, in caso di lacuna, il ricorso all’analogia e ai princìpi generali di diritto, cioè a metodi di autointegrazione dell’ordinamento. Eppure la discussione intorno alla natura delle cose in Italia ebbe il suo momento più felice proprio in occasione di una famosa disputa che si accese tra il 1921 e il 1925 intorno all’interpretazione dell’art. 3 predetto e in particolare al modo con cui dovesse essere intesa l’espressione «princìpi generali di diritto».
4. La discussione fu aperta nel 1921 da un articolo del più autorevole filosofo del diritto del tempo, Giorgio De...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione (di Luigi Ferrajoli)
  2. Introduzione
  3. Parte prima. Diritto e filosofia
  4. Premessa
  5. I. Situazione e orientamenti
  6. II. Natura e funzione della filosofia del diritto
  7. III. La filosofia del diritto e i suoi problemi
  8. Parte seconda. Del positivismo giuridico
  9. Premessa
  10. IV. Formalismo giuridico
  11. V. Aspetti del positivismo giuridico
  12. VI. Giusnaturalismo e positivismo giuridico
  13. Appendice. Ancora sul positivismo giuridico
  14. Parte terza. Del giusnaturalismo
  15. Premessa
  16. VII. Argomenti contro il diritto naturale
  17. VIII. Il giusnaturalismo come teoria della morale
  18. IX. La natura delle cose
  19. Appendice A. Ancora sul diritto naturale
  20. Appendice B. La natura delle cose nella dottrina italiana