Controtempo
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L'Italia nella crisi mondiale

  1. 204 pagine
  2. Italian
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Controtempo

L'Italia nella crisi mondiale

Informazioni su questo libro

La crisi globale ci ha colti nuovamente in controtempo. Quale sorte tocca all'Italia? Dipende. Dalla volontà di ritrovare il tempo.Nel concerto dei paesi avanzati, l'Italia e la sua economia suonano in controtempo da molti anni. All'avanzare della globalizzazione siamo rimasti attardati in una specializzazione del lavoro obsoleta. Mentre gli altri sfruttavano la rivoluzione tecnologica, noi abbiamo stentato a mantenere l'efficienza e il tenore di vita medi. Quando nel mondo spirava il vento delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, noi abbiamo indugiato. La crisi ha rimesso in discussione nel mondo principi e politiche verso cui l'Italia stava invece faticosamente muovendo per recuperare i suoi ritardi. È l'ennesimo caso di controtempo, ma stavolta dobbiamo servircene a nostro vantaggio. Alcune caratteristiche antiche del sistema italiano – il ruolo del sindacato, la cultura giuridica – sono di freno. Solo se proseguiremo nel recupero dei veri valori del liberalismo, mantenendo il controtempo ancora per una battuta, alla fine ritroveremo il tempo del progresso.

Domande frequenti

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Informazioni

Argomento
Economía
Categoria
Finanzas

V. Il ruolo del sindacato

Ritorno a casa

La vita di Giuseppe non era stata facile, ma alla fine a qualcosa era approdato. Nato subito dopo la guerra in un’arida città del sud, da padre bidello e madre casalinga, poteva ben dirsi sollevato dalla contemplazione del suo stato presente. E al tempo stesso dolersi delle sofferenze, delle mortificazioni, delle lotte che aveva dovuto affrontare; a iniziare da quelle col dizionario per infilarsi nella testa una lingua diversa dal dialetto dei genitori. Delle lotte politiche invece non si doleva affatto. Su quelle Giuseppe nutriva anzi sentimenti benevoli, contaminati dalla nostalgia per la giovinezza. Ci stava proprio riandando con la memoria quella mattina.
Quella mattina Giuseppe si era svegliato presto, tornava a casa. Due giorni fuori, a fare il suo lavoro, in quella città prodiga di pioggia. Ma stamattina si torna. Si fa la valigia, si va alla stazione, si va a casa. Treno, sì, a Giuseppe l’aereo non andava tanto a genio, se appena poteva lo evitava. Chissà che tempo fa fuori. E che tempo vuoi che faccia? Come ieri. Come l’altro ieri. Mica vuol farci morire di sorpresa, il tempo in questa città qua, borbotta Giuseppe guardandosi allo specchio. E gli casca il dentifricio per terra. Si china a raccoglierlo. Ricordando.
Quarantatre anni prima. Metà anni Sessanta. Giuseppe aveva circa vent’anni, era riuscito poco prima a diplomarsi in ragioneria, per la commozione dei suoi vecchi, che vivevano quel pezzo di carta conquistato dall’ultimo figlio come un luminoso riscatto sociale. Aveva trovato lavoro come impiegato «di concetto» presso un ente pubblico della sua città.
A quel tempo ignorava come mai fosse stato chiamato a quel posto, lo avrebbe scoperto molti anni più tardi, vergognandosene. Suo padre era andato a trovare un piccolo assessore comunale in ascesa; era entrato con imbarazzo nell’ufficio che l’assessore teneva aperto apposta per ricevere i clientes, un ufficio anonimo, senza targhe, a pian terreno di una strada secondaria, con la porta sempre aperta, notissimo in città. Una volta al suo cospetto gli aveva rammentato che lui era il bidello della scuola media Tale, che Sua Eccellenza (titolo a quel tempo spettante, almeno al sud, a qualunque tenutario di cariche pubbliche) aveva frequentato da ragazzino. Lo aveva supplicato di sistemare il suo, di ragazzo, promettendogli il voto perenne di un vasto parentado. Non si sa se per i voti promessi – le elezioni si avvicinavano – o per aver fatto risuonare una corda nostalgica nel cuore già indurito del giovane politico, il miracolo clientelare era avvenuto. L’ente aveva assunto il ragazzo, per chiamata diretta come accadeva allora.
Lavorava lì da poco meno di un anno. A fare che? Non gli era del tutto chiaro. Era agli ordini di un anziano capoufficio, vicino alla pensione, che gli affidava compiti minuscoli e scoordinati, in sequenze apparentemente casuali, come se volesse impedirgli di avere una minima visione d’insieme del lavoro dell’ufficio. Alcuni giorni prima gli aveva dato dei quadernoni a quadretti, ordinandogli di tracciare su ogni pagina, con penna e squadra, certe righe così e così, in modo da predisporre il terreno su cui sarebbero stati poi annotati, di pugno medesimo del capoufficio, misteriosi conteggi. Aveva riempito di righe almeno duecento pagine.
Quella mattina aveva fatto tardi di alcuni minuti rispetto all’orario d’ingresso. Lavandosi gli era scivolato il dentifricio per terra (ecco il perché del ricordo improvvisamente affiorato), si era fatto male rialzandosi dopo averlo raccolto e aveva perso tempo a medicarsi. Giunto davanti alla sede dell’ente, aveva trovato il portone sbarrato, uno striscione appeso al balcone del primo piano, un crocchio di gente vociante fuori. Si fece spiegare. È sciopero generale, gli dissero. Ah. Aveva visto dei volantini ciclostilati nei giorni precedenti che dicevano qualcosa del genere, non ci aveva fatto troppo caso, aveva la testa piena di righe, poi lui i giornali non li leggeva, a casa non se ne compravano per non sprecare soldi in carta, e con i colleghi non parlava quasi mai, si faceva i fatti suoi, suo padre gli si era raccomandato moltissimo, dar retta al capoufficio e basta, i pettegolezzi coi colleghi sono il modo sicuro per ficcarsi nei guai. L’altra sera era andato coi suoi a vedere la televisione a casa dei vicini di pianerottolo, che se l’erano comprata da poco. L’avevano piazzata su un mobile alto in camera da pranzo, che fungeva anche da salotto, in modo da poter invitare gente come se fosse il cinema. Al telegiornale si era parlato, ora rammentava, di questo sciopero generale annunciato, ma lui si era subito distratto, sbirciando le gambe della figlia di quelli del piano di sopra seduta di sbieco.
Poi lui questo concetto di sciopero non ce l’aveva affatto chiaro. La sua città natale era popolata da impiegati pubblici e commercianti, una vecchia fabbrica di birra era stata spostata a Roma, un paio di fabbriche nuove erano arrivate dal nord con i soldi della cassa del mezzogiorno, ma lui gli operai che ci lavoravano non li aveva mai visti. E lo sciopero è una faccenda da operai, pensava, che sono dei tipi strani, che c’entriamo noi? Che c’entro io? Mio nonno era bracciante nelle campagne là intorno, pensava, mio padre bidello, io sono impiegato di concetto. Mio nonno considerava come un padre il proprietario delle terre dove si faceva il mazzo. Io e mio padre siamo statali, abbiamo avuto questa grazia da Dio. Scioperare? E perché? E contro chi?
Intanto era lì, ed era tutto visibilmente chiuso, nessuna possibilità di entrare, niente di niente. Gli si avvicinò un collega, che conosceva di vista. C’è il corteo, vieni con noi, gli fece. Giuseppe ebbe un moto di paura, e la tentazione di scappare, proprio di darsela a gambe levate. Quello lo guardava fisso, serio. Scappare non poteva, aveva vent’anni mica dieci. Provò a farfugliare delle scuse. Che aveva mamma a casa che stava poco bene e ne avrebbe approfittato per assisterla. Poi che aveva dimenticato il portafoglio, sarebbe andato a prenderlo e li avrebbe raggiunti, senz’altro... dove si sarebbe diretto il corteo? L’altro parlò come se non le avesse neanche intese, quelle patetiche scuse. Gli disse che lui capiva la sua preoccupazione, ma non c’era nulla da temere, tutta la città si fermava, nessuno avrebbe lavorato quel giorno, lo sciopero era nazionale, ufficiale, il corteo era certamente autorizzato, tutto in regola, lui poteva magari seguirlo un po’ e poi andarsene, certo sarebbe stato un peccato, avrebbe perso il comizio del compagno X, uno straordinario personaggio, avrebbe sentito delle cose interessanti, ma insomma se proprio doveva andare poteva andarsene dopo qualche isolato, intanto loro due potevano chiacchierare camminando, si conoscevano di vista ormai da tanto.
Quell’uomo gli piaceva. Sulla quarantina, un po’ più alto della media dei brevilinei della zona. Occhi chiari, un sorriso buono. Vestito dimessamente, come si conveniva a un impiegato, ma con degli sprazzi di ricercatezza, tipo una camicia col colletto un po’ alto e un fermaglio a stringere le ali del colletto intorno al nodo del cravattino stretto, di maglina rossa. Glielo aveva notato da tempo, quel vezzo del ferma collo. Con un filo di inquietudine gli fece un cenno di assenso.
S’incamminarono, insieme con il resto del crocchio, un po’ alla spicciolata. Girato l’angolo, confluirono nel corteo, che stava sfilando lungo il corso principale. Era passato già quasi tutto, si ritrovarono nella coda. Si scandivano slogan, seguendo una voce stridula di megafono. Si marciava a passo cadenzato. Come Giuseppe immaginava si marciasse nelle caserme, lui che il militare non l’aveva fatto, perché suo padre aveva convinto certa gente dell’ospedale militare a trovargli un malanno al cuore che lui era convinto di non avere. Nel frattempo Franco, il collega, gli parlava fitto. Aveva cominciato con un po’ di chiacchiere sul loro lavoro, su altri colleghi, su dove abitavano. Lui aveva una moglie casalinga e un figlio piccolo. Uno solo, arrivato dopo tanto tempo. Ma tu sei d’accordo con questa cosa qua che vuol fare il governo? Non pensi che ce lo metteranno in quel posto dritto dritto? Gliela buttò là così, senza un nesso apparente coi discorsi che stavano facendo. Giuseppe davvero non sapeva neanche di che si trattasse, figuriamoci se poteva azzardare un parere. Un parere politico, poi, figuriamoci. Ma la politica è una roba da vecchi, innanzitutto, prima ancora che pericolosa. È quella roba che si sente biascicare dai vecchi seduti sulle sedie per strada, fuori delle sedi dei partiti, a giocare a tressette.
Stava per aprire bocca e sparare una cavolata qualunque, quando si udì un vociare più alto, degli scoppi di voci alterate, un trapestìo confuso. Si voltarono, videro gente che correva loro incontro, le facce tirate. E dietro videro le chiazze verdi delle divise dei celerini. I poliziotti caricavano la coda del corteo. Franco lo afferrò per un braccio e fece per trascinarlo via, ma lui ebbe un attimo di esitazione che gli fu fatale, puntò i piedi, voleva vedere bene che cosa stesse succedendo. Sfuggì alla presa di Franco, che gli si allontanò travolto dalla corrente dei fuggitivi. Una camionetta verde sfrecciò di fianco a lui e ne scesero al volo due celerini. Il più anziano dei due, incredulo di avere trovato una preda così succulenta, un giovane comunista paralizzato dalla paura, pensò, gli diede una spinta, lo fece accoccolare per terra, gli sferrò un calcio nella pancia e lo colpì forte sulle spalle col manganello, poi si chinò su di lui e gli sibilò nell’orecchio: tutti vigliacchi voi comunisti. E lo lasciò lì.
Giuseppe rimase per terra per un bel pezzo. Il tumulto si era allontanato, intorno a lui non c’era nessuno. Gli veniva da vomitare per il calcio. Alla spalla sentiva un dolore fortissimo. Gli ronzavano le orecchie e gli ronzava per la testa quel «voi comunisti». Era un tipo permaloso, Giuseppe. Non appena gli parve che il dolore si fosse attutito, provò a rialzarsi e mentre ci provava pensò: comunista io? Sì.
E così fu. Ritrovò Franco, si fece spiegare. Lo seguì in sezione. Ascoltò il famoso compagno X, più volte. Si iscrisse. Man mano che passava il suo tempo libero da loro (suo padre ne era disperato, sua madre ne piangeva tutti i giorni, gli avevano mandato il parroco per farlo rinsavire, per esorcizzare questo demonio che lo possedeva, ma senza altro risultato che rinsaldarlo nella sua caparbia risolutezza), man mano che ascoltava i racconti di quel che succedeva lì al nord, la fiat, l’alfa romeo, sentiva crescere dentro di sé una insopportabile indignazione per le ingiustizie, i soprusi, lo sfruttamento, una indignazione sorda, come una montata lavica, lenta e incandescente. I racconti del nord si tingevano di ingenua leggenda: i capannoni immensi, le albe fredde e piovose, il calore della fratellanza operaia, il sol dell’avvenire... Tutto questo faceva a pugni con la sua condizione presente. Piazze spazzolate da un sole polveroso, uomini indolenti, tutto un intrecciarsi di piccoli e miserabili traffici intorno alla mangiatoia degli uffici pubblici. Nessun padrone alto, dritto ed elegante, dallo sguardo d’acciaio, da odiare a fronte alta, solo dei maneggioni panciuti e sudati.
La sezione organizzava un viaggio nella grande metropoli del nord, a portare il saluto e l’incoraggiamento di una delegazione di proletari del sud agli operai in lotta dello stabilimento YY. Giuseppe si prese tre giorni di ferie e andò.
Non tornò più. Una volta immerso nella vera scenografia dei racconti fantastici di cui si era nutrito, non volle più venirne via. Si presentò al collocamento, disse che cercava un posto da operaio. Nascose il suo diploma di ragioniere, intuì che sarebbe parso strano, denunciò solo la licenza media, che già lo collocava in una fascia istruita. Gli trovarono un posto subito, in quegli anni accadeva. Manovale addetto al magazzino materiali di una fabbrica di piccoli elettrodomestici, in periferia nordovest. La paga era più bassa di quella che prendeva da impiegato e il lavoro enormemente più faticoso. Ma, per la prima volta da che era nato, si sentiva collocato dentro di sé, non fuori di sé come gli sembrava prima. Sentiva di avere un centro, un perno di ancoraggio alla propria identità e alla società.
S’iscrisse anche al sindacato. Era veramente una vita dura, quella dell’operaio. Poi lui era un terùn emigrato e questo gli rendeva la vita ancora più dura. Vaglielo a spiegare che se lui era lì non era perché spinto dal bisogno materiale, che a casa sua giù in terronia mangiava tre volte al giorno e si era persino comprato le scarpe lucide di Rossetti un paio di anni prima; che era lì spinto da un bisogno di altro tipo, che non sapeva nemmeno spiegare, che gli faceva spezzare la schiena in magazzino per otto ore di filato, che gli svuotava lo stomaco ma lo riempiva di sé. Comunque, non erano cose che si potessero dire, quindi non diceva nulla.
Osservava, viveva sulla sua pelle le condizioni di lavoro in fabbrica, gli orari lunghi e serrati, la faccia spesso sadica e delatoria dei capetti, il ricatto psicologico continuo del «ti faccio cacciar via a pedate, brutt terùn», i quattro soldi della paga, all’ora di pranzo mezz’ora per ingollarsi un panino (o una minestra nella pietanziera, gli sposati) appoggiati a uno scatolone. E poi le lunghe trasferte in tram, alla mattina e al pomeriggio, dalla fabbrica alla stanza che divideva con un compagno emigrato come lui, in una casa di ringhiera color topo.
Ma la sua vita sbocciava ogni sera, come una belladinotte, in sezione. Non c’erano mica vecchi postini pensionati là. Erano quasi tutti operai, dai venti ai cinquanta, molti emigrati, molti che, come lui, avevano un diploma ma non era loro servito a niente, perché i loro padri erano stati meno furbi, o meno supplichevoli, del suo. E c’erano giovani funzionari del partito, che andavano e venivano dagli uffici della federazione, a istruirli, a spiegar loro la lotta di classe, la loro responsabilità di avanguardia del proletariato, l’asprezza dello scontro politico in atto nel paese, gli ideali traditi della Resistenza, l’eroica marcia dei compagni sovietici verso la vera società comunista. Andavano e venivano perché la loro era una sezione di punta in città, una sezione storica del grande partito.
E ora gli si schiudeva l’attività sindacale. I suoi interventi in sezione erano piaciuti, aveva mostrato maturità, capacità di comprendere anche i fondamenti teorici del marxismo-leninismo, e al tempo stesso una lucida, pratica consapevolezza dell’organizzazione della fabbrica. Un funzionario, che era anche delegato sindacale nella sua fabbrica, gli si avvicinò e gli propose di collaborare con lui. Accettò, lusingato.
Ora gli era tutto davvero chiaro. Partito e Sindacato erano due facce della stessa medaglia, e questa medaglia era la lotta di classe. C’erano gli sfruttatori e gli sfruttati, ovunque nel mondo e anche lì da loro. Lo sfruttamento era profondamente ingiusto, perché fondato sulla proprietà della terra e dei mezzi di produzione industriale, acquisita non per merito ma con violenza predatoria. Gli sfruttati dovevano prendere coscienza della loro condizione, unirsi e lottare per rovesciare l’ordine sociale.
L’ideale sarebbe stato farlo con le armi in pugno, come avevano fatto i compagni russi e cinesi, ma il compagno segretario aveva loro spiegato che le condizioni storiche sono varie e complesse, che si può lottare anche restando all’interno delle regole della democrazia borghese. Lui questa sottigliezza stentava a capirla bene, ma si accontentava di intuirla, sulla fiducia. La fabbrica industriale è il luogo in cui il meccanismo dello sfruttamento è più avanzato ed evidente, dove il capitalismo è più vicino al suo punto di rottura. Per questo loro operai erano l’avanguardia del movimento dei lavoratori. Dovevano portare la propria lotta in fabbrica, organizzati dal sindacato, e fuori della fabbrica, organizzati dal partito. Come due braccia che menano pugni da un lato e dall’altro. Naturalmente la testa è una sola, ed è politica, quindi sta nel partito. In questo senso, pensava, va interpretata la metafora del sindacato come «cinghia di trasmissione» del partito.
Venne l’autunno caldo del 1969, le lotte operaie che si intrecciavano con quelle studentesche, alimentandosi vicendevolmente. Per Giuseppe fu una svolta. Il suo passato di studente medio e di impiegato lo metteva meglio in grado di dialogare con gli studenti universitari rispetto ai suoi compagni di autentica origine operaia; al tempo stesso, il suo presente operaio lo accreditava, agli occhi dei nuovi compagni di strada del ceto intellettuale, come uno che ha il giusto pedigree, a cui si deve portare rispetto proletario. Egli si fece interprete all’interno delle strutture locali del sindacato di questa nuova e santa alleanza fra giovani operai e studenti. Così, divenne un vero sindacalista. Frequentò ancora per qualche anno il suo posto di lavoro ma con assiduità decrescente e alla fine, grazie ai nuovi istituti di garanzia dell’attività sindacale introdotti con lo Statuto dei lavoratori, passò al tempo pieno. E fece carriera. Non tantissima, era troppo caparbio e permaloso, e poco incline alle sottigliezze della politica, per assurgere a posizioni di vertice, ma insomma, abituò tutti a stimarlo per la precisione del suo lavoro, per la tetragona durezza esibita nelle trattative, per la lealtà ai capi e alla linea ufficiale. Si sposò anche, con una compagna insegnante elementare, conosciuta al partito. Una biondina del nord, della cui conquista era segretamente orgoglioso, perché a un «napoli» come lui le donne del nord erano sembrate a lungo fuori portata (sentirsi chiamare col ...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Parte I – La mutazione del mondo
  3. I. Prima della crisi
  4. II. La crisi
  5. Parte II – L’economia italiana: prepararsi al dopo-crisi
  6. III. Le imprese
  7. IV. La finanza
  8. Parte III – Due passaggi obbligati
  9. V. Il ruolo del sindacato
  10. VI. La cultura giuridica
  11. Ritrovare il tempo giusto
  12. Bibliografia