Quadrare il cerchio ieri e oggi
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Quadrare il cerchio ieri e oggi

Benessere economico, coesione sociale e libertà politica

  1. 140 pagine
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Quadrare il cerchio ieri e oggi

Benessere economico, coesione sociale e libertà politica

Informazioni su questo libro

IERI «Ralf Dahrendorf ha scritto un piccolo libro di grande attualità, un libro terribile perché le prospettive indicate sono terribili e le terapie da lui stesso suggerite non sembrano in grado di fermare il trend e invertirne la marcia.» Eugenio Scalfari, 1995OGGISe per classico s'intende un testo capace di resistere all'erosione del tempo, questo rientra senz'altro nella categoria. Lucio CaraccioloQuella tracciata da Dahrendorf è una prognosi altrettanto lucida che fondata. Valerio CastronovoDahrendorf ci ha avvertito per tempo dei probabili (inevitabili?) cambiamenti da cui sarebbero stati scanditi questi anni. Lorenzo OrnaghiL'espressione 'quadrare il cerchio' descrive la difficoltà a tenere insieme la crescita economica, la coesione sociale, e la libertà. Federico RampiniQuando Dahrendorf scrisse Quadrare il cerchio, il mondo appariva dominato dall'ideologia della globalizzazione. Oggi la globalizzazione si chiama 'mercatismo'. Sergio RomanoDifficile contestare la lucidità di questa analisi di Dahrendorf e la sua capacità di anticipare molti dei problemi che segnano il nostro presente. Franco CassanoIl messaggio di quadrare il cerchio resta attuale e può trovare una risposta proprio dalla crisi finanziaria internazionale. Innocenzo CipollettaCon gli occhi di oggi il saggio di Dahrendorf probabilmente parlerebbe anche di due capisaldi del liberalismo e della 'tenuta' della società: regole e crescita sostenibile. Corrado PasseraL'analisi di Dahrendorf è decisa e disincantata. Gian Enrico RusconiFinora siamo riusciti a 'quadrare il cerchio', persino in Italia. Fino a quando? Michele Salvati«I paesi dell'OCSE, per dirla in modo molto diretto e sbrigativo, hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a restrizioni delle libertà civili e della partecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo. O almeno questo sembra essere il dilemma. il compito che incombe sul primo mondo nel decennio prossimo venturo è quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. La quadratura del cerchio è impossibile; ma ci si può forse avvicinare, e un progetto realistico di promozione del benessere sociale probabilmente non può avere obiettivi più ambiziosi.» Ralf Dahrendorf, 1995.

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Informazioni

Argomento
Economics

1. In difesa del Primo Mondo

Nel suo momento migliore il Primo Mondo non era un posto poi tanto brutto in cui vivere e prosperare. C’era mai stato qualcuno che l’avesse chiamato «Primo Mondo»? Oppure quell’ordinale doveva servire solo a distinguerlo dall’innominabile «Secondo Mondo» dell’oppressione comunista, ormai quasi scomparso, nonché dal «Terzo Mondo» (e magari tra un po’ anche dal quarto) della miseria, della malattia e della prostrazione? Qualunque ragione ci sia dietro il suo nome, guardiamoci bene dal liquidarlo troppo disinvoltamente. Nel suo momento migliore esso combinava insieme tre aspetti positivi dal punto di vista sociale:
– era fatto di economie che non si limitavano a offrire una vita decente a molti, ma sembravano fatte apposta per crescere e dischiudere opportunità anche a coloro che non erano ancora arrivati alla prosperità;
– constava di società che avevano compiuto il passo dallo status al contratto, da un’inerte dipendenza a un individualismo combattivo, senza distruggere le comunità in cui le persone vivevano;
– praticava programmi politici che combinavano il rispetto dello stato di diritto con quelle opportunità della partecipazione politica, con quella possibilità di liquidare e scegliere i governi, che abbiamo imparato a chiamare ‘democrazia’.
Viene voglia di chiedersi quando e dove siano esistiti paesi così ricchi, civili e illuminati. È forte la tentazione di nascondersi dietro gli acronimi e di tirare in ballo quello che spesso viene chiamato il mondo dell’OCSE, cioè l’insieme dei paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Ma vincerò la tentazione e chiamerò le cose con il loro nome. Un esempio di quel mondo è costituito dagli Stati Uniti d’America nell’arco di tempo che va da Roosevelt a Kennedy, ma anche, sia pure non nella stessa misura, prima e dopo. Molti milioni di persone di tutti i paesi del mondo hanno sognato di vivere in America e, pur di riuscirvi, moltissimi uomini hanno dato fondo alle proprie risorse. La capacità di esercitare una forza magnetica così potente sui flussi migratori è un indice tutt’altro che inaffidabile di benessere sociale. Lo stesso si può dire anche di altri paesi. Rispetto agli Stati Uniti il Regno Unito ha fatto registrare a lungo un saldo migratorio meno sbilanciato, se si eccettuano irlandesi, ebrei perseguitati e, più tardi, gli abitanti delle colonie più povere; ma per lunghi periodi di questo secolo [Il lettore tenga presente che i riferimenti cronologici sono relativi alla data in cui scriveva Dahrendorf (N.d.R.).] certamente esso ha fatto parte di quello che qui ho chiamato «Primo Mondo». Lo stesso si può dire di molte parti dell’ex Impero britannico, il «Commonwealth temperato» come lo chiama qualcuno con espressione corretta nell’ambito geografico ma non altrettanto riguardo alla politica: esso comprende infatti Australia, Nuova Zelanda, Canada e poche altre regioni sparse in tutto il mondo. Ma sarà bene menzionare anche alcuni paesi europei di più modeste proporzioni: la Svizzera, la Svezia e gli altri Stati scandinavi. Negli anni Cinquanta, quando l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) – che significava soprattutto ricostruzione – si trasformò in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale erano entrati a far parte del novero dei «pochi paesi felici».
Le loro caratteristiche erano, lo ripeto, opportunità economiche, società civile e libertà politica. Ma limitarsi ad affermazioni così compiaciute vorrebbe dire mettere a dura prova la benevolenza di qualunque cittadino di uno dei tanti paesi aderenti all’ONU. In effetti, per avviare un discorso serio, occorre aggiungere subito tre precisazioni, ognuna delle quali meriterebbe un saggio a parte.
Innanzitutto la perfezione del Primo Mondo nella stagione del suo apice aveva una pecca: tutti i suoi membri escludevano altri dai benefici delle loro conquiste e perfino delle loro opportunità. La storia degli Stati Uniti è una lunga sequenza di battaglie per l’inclusione: dalla guerra civile, alle campagne per i diritti civili, fino alle vicende del sottoproletariato di oggi. Per lo più, e la cosa merita di essere rilevata, la battaglia è stata combattuta all’interno delle istituzioni del paese. Inoltre, ed è un’altra circostanza degna di nota, lungi dall’essere stata combattuta solo dagli esclusi, la battaglia ha trovato dei protagonisti anche altrove, per esempio nella Corte Suprema. Ma la società americana non si è mai nemmeno avvicinata alla perfezione in termini di opportunità economiche, integrazione sociale e partecipazione politica. Ancora oggi (per menzionare solo un fatto sorprendente tra i molti che si potrebbero ricordare) il Presidente americano probabilmente viene eletto da non più del quindici per cento degli aventi diritto al voto.
Le imperfezioni americane sono gravi e ben visibili, ma quelle della Gran Bretagna e dell’Australia, della Svizzera e della Svezia, non sono meno importanti. Le disuguaglianze economiche restano per molti il segno di una promessa chimerica di cittadinanza. I conflitti sociali che presumibilmente un secolo fa avrebbero tenuto banco in un ipotetico convegno mondiale sullo sviluppo sociale erano laceranti; e i rappresentanti dei governi a tale convegno immaginario del 1895 per lo più avrebbero raccomandato di sopprimere i disordini con la forza. Ci sono voluti decenni di lotte intestine – ‘lotte di classe’, come furono giustamente chiamate allora – per affermare l’uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani nella società. E ci sono volute anche due guerre moderne: per quanto sia terribile a dirsi, non esiste un fattore di livellamento sociale più efficace di una guerra moderna che coinvolga l’intera popolazione. Non è un caso che la seconda guerra mondiale sia stata chiamata «guerra totale».
Queste guerre, naturalmente, non videro contrapposte l’una all’altra le grandi democrazie del mondo. A schierarsi sui due fronti furono rispettivamente i paesi civili e quelli non abbastanza (non ancora?) civili, quelli che almeno avevano cercato di allargare la base di disponibilità per ciò che offriva quell’epoca e quelli che non avevano ancora imboccato questa strada. Sottolineo deliberatamente questa circostanza e la integro con una tesi generale: le minacce più serie alla pace provengono da paesi impegnati nella transizione dal vecchio ciclo di povertà, dipendenza e illibertà alle possibilità di vita qui descritte come caratteristiche del Primo Mondo. Quando si profilano opportunità nuove ma la gente non riesce ancora a coglierle, quando lo sviluppo economico conosce una forte accelerazione ma la crescita sociale e politica stenta a decollare, matura una miscela di frustrazione e di irresponsabilità che alimenta la violenza. Tale violenza a volte è individuale e indiretta, ma può anche diventare collettiva e dirigersi contro vicini apparentemente più felici, contro membri particolarmente fortunati del proprio ambiente, o anche contro entrambi. È vero che la combinazione di sviluppo economico, democrazia politica e società civile solitamente produce un clima di tolleranza all’interno e relazioni internazionali pacifiche, ma la strada che porta a questo risultato è piena di tranelli e di tentazioni. Per dimostrarlo, basterà ricordare un’opera del 1915 di Thorstein Veblen, La Germania imperiale e la rivoluzione industriale. Ogniqualvolta un paese ancora tradizionale imbocca questa strada, gli altri hanno ragione di seguire la sua avventura con timori e speranze.
Non intendo dire che questi ultimi siano condannati alla povertà. Al contrario. La seconda precisazione della mia tesi iniziale sul Primo Mondo è che la società civile, la cittadinanza, è incompatibile con il privilegio. Questo vale non solo in politica interna, in un paese dato, dove il privilegio è per definizione una negazione della cittadinanza degli altri, ma anche sul piano internazionale. Fino a quando alcuni paesi sono poveri e, ciò che conta ancora di più, condannati a restare tali, perché vivono del tutto al di fuori del mercato mondiale, la prosperità resta un vantaggio ingiusto. Fino a quando ci sono individui che non hanno diritti di partecipazione sociale e politica, i diritti dei pochi che ne fruiscono non possono considerarsi legittimi. La disuguaglianza sistematica – diversamente dalla disuguaglianza comparativamente accidentale all’interno del medesimo universo di opportunità – è incompatibile con gli assunti civili del Primo Mondo.
Questo è un giudizio morale, ma non solo: a tale riguardo è eloquente il caso dell’immigrazione. In via di principio è inaccettabile che dei paesi civili ostacolino il libero movimento delle persone. Tuttavia è innegabile che per la Svizzera, tanto per fare un esempio, consentire a chiunque lo desideri di sistemarsi sul suo territorio in condizioni di parità con i suoi cittadini vorrebbe dire mettere in pericolo la qualità di vita di questi ultimi. Allora che fa? Accoglie coloro che possono offrire un contributo utile, per esempio quello di evitare i lavori più sgraditi ai propri abitanti, ma rende i primi cittadini di seconda classe: essi non solo non hanno diritto di voto, ma possono essere rimandati «a casa loro» con breve preavviso. La maggior parte, comunque, non vengono accolti affatto; e, per attuare questa politica, si deve creare tutta una complessa macchina capace di presidiare non solo i confini, ma anche l’interno del paese. Le umilianti esperienze delle persone in cerca di asilo in molti Stati del Primo Mondo sono altrettanti atti d’accusa in contrasto con le loro pretese di civiltà; tuttavia il problema non è di quelli che si prestino a soluzioni semplici.
O meglio: c’è una sola risposta, e non è semplice. È l’universalizzazione dei benefici del Primo Mondo: ciò che ha finito per essere chiamato ‘sviluppo’. Ci sono persone più qualificate di me per esprimere un’opinione su questa galassia di questioni. Oggi noi sappiamo per certo, ammesso pure che non lo sapessimo già prima, che lo sviluppo economico e sociale di un paese dipende dall’assistenza esterna non meno che da uno sforzo interno. Sappiamo anche che alcuni grandi paesi, specialmente in Asia ma anche nell’America Latina, si sono incamminati con tanto successo sulla strada dello sviluppo almeno economico che il vecchio Primo Mondo incomincia a vedere in essi una pericolosa concorrenza. Quando si parla di Terzo Mondo, oggi si pensa per lo più all’Africa, con cui però non si intendono la Tunisia o il Sudafrica liberato. Lo sviluppo, quindi, è possibile – anzi è una realtà.
Senonché è un processo non solo precario, ma anche lungo, il quale sta preparando all’umanità il periodo più denso di minacce della sua storia. La cosiddetta esplosione demografica; i pericoli dell’aggressione militare, aggravati dalla vasta diffusione di armi letali o addirittura nucleari; l’intégrisme militante, ossia il «fondamentalismo» (che io preferisco chiamare con il termine francese, che sottolinea la non-differenziazione tra religione e preoccupazioni secolari come lo stato di diritto); il protezionismo nei confronti dei beni non meno che delle persone: questi e altri mali sono tutti sottoprodotti possibili e, anche troppo spesso, reali delle prime fasi dello sviluppo, destinati ad accompagnarci nel corso delle prossime generazioni. Quante generazioni? Due? Tre? Certamente si tratterà di un periodo ben lungo. Eppure il processo che vi troverà svolgimento è necessario, non perché a guidarlo sia la mano invisibile della storia (questo residuo hegeliano è del tutto estraneo alla mia prospettiva popperiana), ma perché i valori di una società «illuminata» e civile esigono che al privilegio subentrino dei diritti generalizzati – in ultima analisi, se non una cittadinanza cosmopolita, almeno dei diritti civili estesi a tutti gli esseri umani nel mondo.
Aggiungiamo una terza precisazione alle due appena svolte e il quadro apparentemente sereno da cui abbiamo preso le mosse ci sembrerà ancora più cupo. La terza precisazione è molto legata al punto di vista di Karl Popper e, molto prima di lui, al panta rhei di Eraclito: tutto scorre, non esiste stabilità, nemmeno per le promesse della prosperità, della società civile e della democrazia. Nel parlare delle conquiste degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e perfino della Svizzera e della Svezia, all’inizio di questo saggio ho usato il passato un po’ di volte, e la cosa non era casuale: a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo. Dopo aver delineato in queste prime pagine un panorama della situazione attuale, nella parte centrale del saggio intendo concentrare l’attenzione su questi pericoli che incombono sul Primo Mondo, per concludere poi con alcune modeste raccomandazioni su come neutralizzarne gli effetti e, forse, le cause.
I paesi dell’OCSE, per dirla in modo molto diretto e sbrigativo, hanno raggiunto un livello di sviluppo in cui le opportunità economiche dei loro cittadini mettono capo a scelte drammatiche. Per restare competitivi in un mercato mondiale in crescita devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili. Se sono impreparati a prendere queste misure, devono ricorrere a restrizioni delle libertà civili e della partecipazione politica che configurano addirittura un nuovo autoritarismo. O almeno questo sembra essere il dilemma. Il compito che incombe sul Primo Mondo nel decennio prossimo venturo è quello di far quadrare il cerchio fra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica. La quadratura del cerchio è impossibile; ma ci si può forse avvicinare, e un progetto realistico di promozione del benessere sociale probabilmente non può avere obiettivi più ambiziosi.
Forse i paesi esclusi dal cerchio incantato troveranno per primi una via d’uscita da questo guazzabuglio, ma è difficile che ciò possa accadere a molti. Sarà così del Messico e di altri Stati particolarmente fortunati dell’America Latina? La cosa di gran lunga più probabile è che essi condivideranno il disagio euro-americano. Oppure ci riusciranno i paesi dell’ex «Secondo Mondo» comunista, ora diventati post-comunisti? Chiaramente essi sono impegnati sui tre obiettivi dell’opportunità economica, della società civile e della libertà politica. O si dovrà pensare alle tigri e ai draghi dell’Asia? Oppure alla Cina? Per ora quasi tutti questi paesi rimuovono il problema nella forma in cui è stato formulato qui, in quanto sono alla ricerca di una rapida crescita economica che si sposi con una robusta coesione sociale, senza preoccuparsi troppo di promuovere insieme stato di diritto e democrazia politica. Così, se accettiamo il progetto, siamo di nuovo al mondo dell’OCSE, compresi alcuni membri importanti e lontani come il Giappone.

2. Globalizzazione: vincoli e scelte

Economia, società e politica possono essere considerate separatamente; la cosa, anzi, è stata fatta spesso. La crescita economica è in cima alle preoccupazioni dei governi dei paesi dell’OCSE, e i loro consiglieri, funzionari o accademici che siano, contribuiscono a porre il problema al centro della politica, anche a costo di escluderne altri. Può servire la deregulation? È proprio vero che l’inflazione rappresenta un utile lubrificante? Che tipo di imposizione fiscale si deve adottare per non impedire la crescita, ma anzi stimolarla? I teorici dell’economicismo – ossia coloro che erigono l’economia a ideologia politica – non solo ignorano i fattori sociali, ma li denigrano. Non è forse vero che un primo ministro, per incoraggiare gli individui a cavarsela con i propri mezzi, è arrivato a dire che «la società non esiste»? Ma anche in un periodo in cui i sociologi sono guardati con sospetto, e le loro fortune risentono del ricordo del Sessantotto, la società ha un numero sufficiente di difensori. Ad ogni buon conto il potere dissolvente e dissacrante delle società moderne ha alimentato il dibattito per un secolo. «Anomia», suicidio, delitto; collasso della famiglia; tramonto della religione: tutti questi temi sono stati oggetto di discussione molto prima che ‘comunità’ tornasse ad essere una parola pronunciabile. E per ciò che concerne il piano squisitamente politico, la democrazia è in crisi fin da quando esiste la scienza della politica. Certo la governabilità negli anni Settanta fu un problema; ma molto prima di allora studiosi e politici avevano incominciato a chiedersi perché l...

Indice dei contenuti

  1. 1. In difesa del Primo Mondo
  2. 2. Globalizzazione: vincoli e scelte
  3. 3. Una società civile sotto pressione
  4. 4. Tentazioni autoritarie
  5. Appendice
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