Prima lezione di scienza politica
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Prima lezione di scienza politica

  1. 160 pagine
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Prima lezione di scienza politica

Informazioni su questo libro

Scienza politica: cosa è, che cosa studia e come lo studia, a quali risultati è pervenuta, come evolve. Una lezione brillante e densa, di metodo e teoria, scritta con l'obiettivo di suscitare quesiti e offrire risposte adeguate.'Politica', nella versione che ne diede Aristotele, non è un termine singolare, ma plurale. Si riferisce a quanto avviene nella polis, ovvero in quello specifico sistema che definiamo 'politico'. Politica sono tutte (o quasi) le attività che riguardano la polis e che si svolgono nel suo ambito. La politica è, dunque, un insieme di attività complesse di vario tipo, che sono svolte dai cittadini e che ruotano attorno all'esercizio del potere nella città. In quanto esercitate nella e per la città, le attività politiche richiedono capacità più o meno grandi e conseguono risultati più o meno meritori, oppure riprovevoli, sanzionabili e perfettibili, per tutti coloro che vivono in quella città ovvero, oggi diremmo, in quel determinato sistema politico. Qualsiasi sistema politico è composto da tre elementi essenziali: la comunità politica, il regime, le autorità. Definendo con accuratezza e precisione e analizzando in profondità questi tre elementi è possibile ottenere una visione complessiva di che cos'è la politica, di come deve essere studiata e di quali sono gli esiti conoscitivi finora conseguiti.Gianfranco Pasquino guida il lettore a muovere i primi passi all'interno della scienza che studia questo articolato organismo e la sua Prima lezione ripercorre e approfondisce i temi essenziali della politica, dalla acquisizione, distribuzione e esercizio del potere alla sua concentrazione nelle élite, dai sistemi elettorali alle modalità di partecipazione politica e antipolitica, dal sistema dei partiti a quello della democrazia, dai modelli di governo parlamentare ai modelli presidenziali.

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Informazioni

Cosa è politica

1. La tematica

Si racconta che, a cavallo fra il secolo XIX e il XX, i grandi professori tedeschi iniziassero i loro corsi a partire dal titolo, e sviluppassero il corso approfondendo tutti gli aspetti che avevano specifica attinenza con il titolo e, in qualche modo, ne discendevano logicamente e concretamente. Nel caso della «scienza politica», non possono esserci dubbi sul fatto che la chiarificazione storico-concettuale di entrambi i termini appare assolutamente indispensabile a chi intenda capire e studiare una materia di notevole e mutevole complessità e di altrettanta rilevanza intellettuale e pratica. L’intera lezione ha come obiettivo esattamente quello di dare una visione d’insieme e, al tempo stesso, di spiegare che cosa è la scienza politica, che cosa studia, come lo studia, a quali risultati è pervenuta, come evolve. In primissima approssimazione, mi limiterò, per adesso, a sostenere che, da un lato, con il termine «scienza» ci si intende riferire ai procedimenti cognitivi con i quali apprendiamo qualcosa sull’oggetto di studio e con i quali comunichiamo convincentemente alla comunità degli studiosi e a tutti gli interessati l’esito delle nostre ricerche e quindi quanto di nuovo, originale, importante, applicabile abbiamo appreso. Dall’altro, con il termine «politica» ci riferiamo ad una serie di avvenimenti, di comportamenti e di fenomeni che attengono alla vita organizzata e alla convivenza fra uomini e donne in un determinato ambito/sistema, alle regole e alle istituzioni che sovrintendono ai loro rapporti in quel sistema, alle modalità con le quali si scelgono i decisori ovvero coloro che avranno il potere di decidere le politiche.
Naturalmente, ciascuna delle affermazioni appena fatte merita approfondimenti specifici che, nel corso della lezione, accompagnerò con opportuni esempi scelti in maniera tale che gettino maggiore luce sia su che cosa è «scienza» sia su che cosa è «politica» e, in special modo, su quali sono gli avvenimenti, i comportamenti, i fenomeni definibili come specificamente politici. Dunque, intendo affrontare nell’ordine i seguenti compiti: definire cosa è politica; argomentare perché bisogna studiare la scienza politica; spiegare come bisogna farlo; mettere in evidenza quanto abbiamo imparato; ed esplorare se e in che modo è possibile utilizzare le conoscenze politologiche in chiave operativa e applicativa.
L’origine etimologica greca del termine «politica» è assolutamente chiara. Poiché, però, è stata spesso fraintesa, merita qualche approfondimento e qualche precisazione. Infatti, «politica», in greco, nella versione classica che ne diede Aristotele nel suo fondamentale libro, è un termine, non singolare, ma plurale. Si riferisce a quanto avviene nella polis, nella città, ovvero in quello specifico sistema che definiamo «politico». Politica sono tutte (o quasi) le attività che riguardano la polis e che si svolgono nel suo ambito. Secondo la tanto, giustamente, citata espressione di Aristotele, l’uomo è un «animale politico» proprio ed esclusivamente in quanto vive la sua vita, che comprende anche il modo con il quale si governa e viene governato, dentro i confini della città. La vita degli uomini (e, a quei tempi, non del tutto passati, in via subordinata, delle donne) nella città è organizzata secondo regole condivise che si riferiscono soprattutto alle modalità con le quali i cittadini attribuiscono il potere politico ad altri cittadini e con le quali i cittadini che hanno ottenuto il potere politico lo esercitano e possono perderlo. Incidentalmente, queste modalità non sono esclusivamente caratterizzate da votazioni, ma comprendono nomine, cooptazioni, sorteggio. La politica è, dunque, un insieme di attività complesse di vario tipo che sono svolte dai cittadini e che ruotano attorno all’esercizio del potere nella città. In quanto esercitate nella e per la città, le attività politiche richiedono capacità più o meno grandi e conseguono esiti più o meno meritori oppure riprovevoli, sanzionabili e perfettibili, per tutti coloro che vivono in quella città ovvero, oggi diremmo, in quel determinato sistema politico.
Prima di analizzare il sistema politico, nelle sue componenti, nel suo funzionamento e nella sua trasformazione, mi pare opportuno intervenire brevemente su un dibattito ricorrente che riguarda la presenza della politica nelle esperienze di vita degli uomini e delle donne. Infatti, è doveroso prendere le distanze da tre slogan che l’estrema sinistra, in diverse sue variegate incarnazioni, ha fatto ampiamente circolare. Anzitutto, non è vero che «tutto è politica», come gridavano numerosi movimenti studenteschi nel Sessantotto, e non è neppure vero che «il privato/il personale è politico» come sostennero alcuni movimenti femministi all’incirca nello stesso periodo. Vero è, invece, che quando la politica diventa tutto, si fa totalizzante e pretende di intervenire anche nella sfera privata, allora i cittadini sono imprigionati in un mondo totalitario, quello potentemente descritto con modalità drammatiche dal grande scrittore politico inglese George Orwell nei classici 1984 e La fattoria degli animali. È, invece, nel mondo liberale che la privacy, il riconoscimento di uno spazio non esposto alla politica, ovvero la separazione fra la sfera personale e la sfera pubblica, viene protetta e promossa cosicché la politica rimane attività discrezionale e non invasiva.
Quanto ad un altro slogan – attribuito al Presidente cinese Mao Tse-tung, ma ampiamente diffusosi fra i «maoisti» occidentali –, «la politica al posto di comando», è evidente che assume connotazioni molto diverse a seconda dei regimi politici. È uno slogan minaccioso qualora venga riferito – come vedremo – ai regimi autoritari nelle loro numerose varianti, dal militarismo al sultanismo e al fondamentalismo, e ai regimi totalitari. Riflette, ancorché in modo parziale, in ogni caso, controvertibile, la situazione nei regimi democratici purché siano chiariti i termini del problema. In questi regimi, infatti, «al posto di comando» stanno coloro che hanno vinto elezioni libere e competitive, ma neppure loro possono decidere tutto. Da un lato, nei confronti del potere politico democratico fanno argine una pluralità di poteri economici, sociali, culturali, religiosi; dall’altro, stanno le regole e le procedure costituzionali. Cosicché, il «comando» che può essere conseguito e attuato dalla politica democratica oscilla da un minimo, ma nient’affatto poco, nelle democrazie liberali, eventualmente anche liberiste, ad un massimo, ma mai opprimente e soffocante, che si esprime nelle situazioni nelle quali al posto di comando sono giunti partiti socialdemocratici. La quantità di comando disponibile per la politica potrà poi essere opportunamente valutata e comparata, nelle condizioni odierne del mondo, anche tenendo conto delle costrizioni e dei limiti che la globalizzazione sembra potere imporre alla politica. È un argomento che costituirà l’oggetto di alcune delle considerazioni conclusive di questa mia lezione.
Tornando al modo migliore di organizzare qualsiasi discorso sulla politica, che ne introduca e ne sviluppi organicamente la tematica, appare utile prendere le mosse dalla concettualizzazione di sistema politico come è stata effettuata più di quarant’anni fa da David Easton. Dalle piccole città agli imperi e, persino, alle società senza Stato, è corretto e fecondo definire sistema politico l’ambito nel quale si svolgono tutte le attività politiche rilevanti (Urbani 1971). Qualsiasi sistema politico è composto da tre elementi essenziali: la comunità politica, il regime, le autorità. Definendo con accuratezza e precisione e analizzando in profondità questi tre elementi è possibile ottenere una visione complessiva di che cosa è la politica, di come deve essere studiata e di quali sono gli esiti conoscitivi finora conseguiti.

2. La comunità politica

La comunità politica è costituita da tutti coloro che oggettivamente fanno parte del sistema politico e soggettivamente se ne sentono parte, ovvero vi si identificano. Il tema delle identità politiche è enorme e complesso. Qui, sono costretto a tralasciarlo, avvertendo, però, che, altrove, in special modo, in sociologia e in alcuni filoni della filosofia politica contemporanea, viene troppo spesso trattato in maniera davvero confusa e fuorviante. La comunità politica è composta, al tempo stesso, sia dai cittadini sia da coloro che, per un insieme di ragioni, anche non essendo cittadini, debbono comunque uniformarsi alle norme del sistema perché si trovano a vivere, almeno temporaneamente, nel suo ambito. A prescindere, per non introdurre eccessiva complessità nel discorso, dalle numerose possibili distinzioni relative alle qualità e alle specificità dei sistemi politici e dei regimi – le quali, comunque, verranno individuate e chiarite in maniera più efficace e più precisa in seguito – tutti coloro che vivono in un sistema politico hanno, naturalmente, con modalità molto differenziate, la possibilità di influenzarne il funzionamento. Parleremo a questo proposito di partecipazione politica. Naturalmente, nei regimi democratici, partecipare è un’attività libera, aperta a tutti, spontanea e facoltativa. Nei regimi non democratici, in special modo nei regimi autoritari dei più vari tipi e nei regimi totalitari, è più corretto parlare, per la maggioranza dei cittadini, non di partecipazione, ma di mobilitazione, ovvero, comunque, di coinvolgimento subalterno, spesso obbligatorio, eterodiretto, provocato dagli effettivi detentori del potere politico.
In estrema sintesi, potremmo dire che la partecipazione è un fenomeno spontaneo che nasce e si attiva dal basso, mentre la mobilitazione è un fenomeno coercitivo imposto dall’alto. Quanto agli obiettivi, la partecipazione mira a influenzare tanto la scelta di coloro, i decisori, le autorità, che prenderanno decisioni politicamente rilevanti, ovvero che riguardano il sistema politico ai vari livelli, quanto le decisioni stesse. Pertanto, anche nei regimi autoritari possiamo riscontrare forme di partecipazione in alcuni ambiti ristretti e circoscritti, spesso costituiti esclusivamente dalle organizzazioni che fanno parte della configurazione autoritaria (si è anche parlato di cricche e di clan), nei quali vengono scelti coloro che si vedranno attribuire il potere di prendere le decisioni e di formulare e attuare le politiche.
La teoria democratica postula che i cittadini siano i migliori giudici delle loro preferenze e che, pertanto, la loro partecipazione, a cominciare dalla partecipazione elettorale, serve a fare in modo che le decisioni prese dai rappresentanti eletti e dai governanti siano le più conformi possibili alle opinioni e alle preferenze dei cittadini, partecipanti e non. Qui si aprono molti problemi analitici e politici di grande rilevanza alcuni dei quali, se lasciati irrisolti, possono mettere in questione la stessa democrazia come regime nel quale il popolo, il demos deve essere parte attiva nell’esercizio del potere, del kratos. Chi, infatti, si sentirebbe di affidare il potere ad una cittadinanza che abbia poca informazione e scarsa conoscenza delle «cose politiche»? Inoltre, se fa la sua comparsa una situazione nella quale pochi cittadini partecipano, per di più in maniera soltanto saltuaria, quali e quante informazioni sulle preferenze della cittadinanza potranno ottenere coloro che sono stati eletti alle cariche politiche e di governo e che tipo complessivo di «rappresentanza» di quella società saranno in grado di offrire? A quali preferenze e a quali interessi risponderanno? A quale tipo di controllo «popolare» saranno sottoposti? Senza penetrare a fondo in una tematica comprensibilmente di grande complessità, è facile capire come il livello di partecipazione effettiva eserciti notevole influenza sui rappresentanti e sui governanti e abbia conseguenze sulla qualità delle decisioni, in special modo di quelle prese nei regimi democratici.
Sappiamo, in maniera accertata e costantemente accertabile e verificabile attraverso una abbondante quantità di ricerche in praticamente tutti i paesi del mondo e per lunghi periodi (i cosiddetti «barometri», ovvero sondaggi periodici su grandi numeri di intervistati)1, che i cittadini differiscono fra loro con riferimento ad almeno tre aspetti fondamentali: il grado di interesse per la politica, il livello di informazione sulla politica, il corrispondente senso di efficacia, ovvero la fiducia e la convinzione nelle proprie capacità di riuscire effettivamente ad influenzare gli avvenimenti politici e le scelte politiche. Riflettendo su questi tre elementi, si possono trarre alcune conclusioni sul «cittadino democratico», che non sono soltanto preliminari, ma sono, comunque, sempre revisionabili con riferimento a nuove ricerche.
Da un lato, risulta con sufficiente chiarezza che la maggioranza degli elettori nei regimi democratici non ha un alto interesse per la politica e non possiede sufficienti informazioni sulla politica. Dall’altro lato, una maggioranza di elettori pensa che, in generale, come viene sistematicamente domandato nelle ricerche empiriche, «i politici non si interessano a quello che pensano/desiderano le persone come me». Eppure, paradossalmente (ma tenterò di spiegare il paradosso più avanti), molte centinaia di milioni di cittadine e cittadini, poco interessati e poco informati e anche abbastanza convinti di non essere presi in sufficiente considerazione dai politici, continuano a votare e a tentare di influenzare i politici e le scelte politiche (per una ampia panoramica, Norris 2002).
A fronte delle rilevazioni, che variano di poco da sistema politico a sistema politico, sulla carenza di interesse e di informazione della maggioranza dei cittadini democratici, qualcuno potrebbe sentirsi legittimato a proporre di abbandonare la democrazia fatta da cittadini poco interessati e scarsamente informati, i quali, di conseguenza, finiscono per scegliere partiti e candidati senza adeguata cognizione di causa, e a suggerire di passare ad una tecnocrazia, regime nel quale il governo della cosa pubblica viene affidato a uomini (e, talvolta, anche a donne) competenti e preparati, in grado di produrre decisioni almeno tecnicamente impeccabili, se non anche nell’interesse complessivo del sistema politico. Fin dai tempi di Platone e dei suoi filosofi-re, la tecnocrazia è stata la proposta ricorrente, in particolare, a causa della sfiducia nella competenza dei cittadini, ma anche in seguito all’esistenza di una democrazia malfunzionante.
Almeno per il momento, ripromettendomi di ritornare sull’argomento in seguito (ma mi si consenta di rinviare a Pasquino 1999), a proposito di classe politica, mi limiterò, in primo luogo, a sottolineare che, ovviamente, i tecnocrati di qualsiasi genere hanno spesso preferenze, personali e politiche, che non possiamo sapere quanto rappresentative siano di quelle dell’elettorato; e, in secondo luogo, che il postulato fondante della democrazia è proprio che dobbiamo ritenere che i cittadini sono davvero in grado di scegliere fra le alternative che vengono loro proposte. Nulla osta poi a rivolgere critiche ai cittadini per avere commesso errori nelle loro scelte, rispetto agli stessi obiettivi da loro desiderati, errori che quei cittadini avranno comunque la possibilità di correggere, se vivono in democrazia, nelle successive consultazioni elettorali. Comunque, non può esistere nessuna democrazia laddove non viene offerta e non viene garantita la possibilità di scegliere liberamente fra una pluralità di alternative, nella consapevolezza che soltanto la democrazia è suscettibile di autocorreggersi. Qui ritorna il discorso sulla partecipazione, sulle sue modalità e sulle sue conseguenze.

2.1. Votare e partecipare

La maggior parte dei cittadini in tutti i sistemi politici compie essenzialmente un solo atto di partecipazione politica: vota, e nulla più. Naturalmente, in molti sistemi politici non democratici neanche si vota, per quanto, di recente, un po’ tutti i governanti dei sistemi politici non democratici siano giunti alla convinzione che qualche consultazione elettorale, se strettamente controllata e abilmente manipolata, consente loro al tempo stesso di mantenere il potere e di acquisire una verniciatura di legittimità internazionale. Il fenomeno ha già opportunamente trovato i suoi attenti studiosi, che lo hanno definito «autoritarismo elettorale» (Schedler 2006) e lo hanno affrontato nelle sue varie manifestazioni che, al limite, contro gli stessi obiettivi dei leader autoritari, finiscono per aprire comunque qualche modalità di espressione del dissenso, qualche spazio di partecipazione, qualche accenno di democrazia. Questi spazi si aprono anche perché quello che abitualmente viene definito il «semplice atto di votare» è, invece, t...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Cosa è politica
  3. Come si studia la politica
  4. Come si applicano le conoscenze politologiche
  5. Riferimenti bibliografici