L'uomo medievale
  1. 434 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Il monaco, il cavaliere, il contadino, l'intellettuale, l'artista, il mercante, la donna, il santo, l'emarginato: l'affascinante mondo medievale attraverso le sue figure più significative.

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Informazioni

Introduzione. L’uomo medievale

Questo libro presenta l’uomo medievale e ne offre dieci profili scritti da dieci medievalisti fra i più quotati d’oggi. Ma quest’uomo è poi esistito? Non è forse un’astrazione lontana dalla realtà storica?
La definizione di una storia «umana» – la sola degna di questo nome – è stata data, mezzo secolo fa, da Marc Bloch e Lucien Febvre, ed è una conquista irrinunciabile. Ma questa storia umana è la storia dell’uomo o la storia degli uomini? A questa domanda Lucien Febvre ha risposto: «L’uomo, misura della storia, sua unica misura. Più ancora, la sua ragione di essere». Ma anche: «Gli uomini, soli oggetti della storia – di una storia che non s’interessa a non so quale uomo astratto, eterno, in fondo immutabile e in perpetuo identico a se stesso – gli uomini, colti sempre nel quadro delle società di cui sono membri. Gli uomini membri di queste società in un’epoca ben determinata del loro sviluppo – gli uomini dotati di funzioni molteplici, di attività diverse, di preoccupazioni e attitudini varie, che tutte si mescolano fra loro, si urtano, si contraddicono, finendo per concludere una pace di compromesso, un modus vivendi che si chiama la Vita»1.
L’uomo e gli uomini, gli uomini nella società dell’Occidente cristiano, nelle loro principali funzioni (ossia nei tratti essenziali, ma anche nella concretezza del loro status sociale, del loro mestiere, della loro professione), al tempo di un dittico medievale che nella prima faccia mostra il prodigioso sviluppo della Cristianità fra l’anno Mille e il secolo XIII, mentre la seconda rappresenta quel tempo sconvolto, chiamato Basso Medioevo, dove girano vorticosamente insieme un mondo del passato in crisi e il mondo di un nuovo Medioevo, il Rinascimento; infine degli uomini viventi (nelle loro condizioni di vita, con le loro credenze, le loro pratiche): ecco l’oggetto di questo libro.

L’uomo o gli uomini?

La maggior parte degli autori di questi profili ha insistito sulla diversità dei tipi d’uomo del Medioevo che presentava. Giovanni Miccoli, addirittura, ha desiderato parlare dei monaci piuttosto che del monaco. Che differenza tra i monaci provenzali (Lérins, san Vittore di Marsiglia) del IV e V secolo, che si ispirano al modello orientale dei Padri del deserto, e i Cluniacensi dal X secolo in poi, fra gli Irlandesi dei secoli VII e VIII e i Cistercensi del secolo XII, fra san Benedetto e Gioacchino da Fiore! Solitudine o apostolato, lavoro manuale o lavoro intellettuale, servizio di Dio nella preghiera e nelle funzioni liturgiche o servizio della Cristianità negli ordini militari dei monaci soldati, nati dalla Crociata, vita eremitica o vita conventuale: quante scelte diverse! Tuttavia gli uomini del Medioevo hanno avuto senz’altro coscienza dell’esistenza di un tipo particolare, di un personaggio collettivo: il monaco. L’uomo che, individualmente o collettivamente, si separa dalla massa sociale per vivere un rapporto privilegiato con Dio. Oppure, secondo una delle numerose definizioni medievali del monaco: Is qui luget: «colui che piange», che piange sui propri peccati e sui peccati degli uomini e che, con una vita di preghiera, di meditazione e di penitenza, cerca di ottenere la propria salvezza e quella degli uomini.
Jacques Rossiaud, affrontando il problema del «cittadino», si chiede: «Che c’è di comune tra il mendicante e il borghese, tra il canonico e la prostituta, tutti cittadini? Tra l’abitante di Firenze e quello di Montbrison? Tra il neocittadino della prima crescita e il suo discendente del secolo XV?». E tosto abbozza una risposta: «Gli uni e gli altri non possono ignorarsi e s’integrano in un medesimo piccolo universo dalla popolazione densa che impone delle forme di socievolezza sconosciute al villaggio, un modo di vivere specifico, l’uso quotidiano del danaro e, per taluni, un’apertura obbligatoria sul mondo». Evidentemente, il cittadino medievale esiste perché si contrappone al contadino, sua controfigura, in una contrapposizione che oggi è molto attenuata e diversa.
Christiane Klapisch-Zuber, di fronte alla diversità delle condizioni femminili nel Medioevo, ha scelto una via, un punto di vista: la donna concretamente definita dal suo posto, dalle sue funzioni in seno alla famiglia. E, dietro la molteplicità dei livelli sociali delle famiglie, il miglioramento lento e contrastato dello statuto della donna nel corso dei cinque secoli di cui questo libro si occupa, è sempre venuto a urtare nell’ideologia medievale sottostante che fa della donna un essere ingannevole e tentatore, il miglior aiuto del diavolo, un’eterna Eva mal riscattata da Maria, un essere scabroso per chi lo sorveglia, un male necessario per l’esistenza e il funzionamento della famiglia, la procreazione e il controllo di quel pericolo principale per l’uomo cristiano che è costituito dalla sessualità.
E, per citare un ultimo esempio, Enrico Castelnuovo si è chiesto come, dall’orafo romano all’architetto, allo scultore, al pittore di vetrate gotiche, dal miniatore a Giotto, si possa scoprire l’espressione, l’emergere di una presa di coscienza da parte di chi crea e della società per cui e in cui crea, di un personaggio che più tardi, in francese, sarà chiamato un artista.

L’uomo medievale

Ma torniamo all’uomo. Gli stessi uomini del Medioevo riconoscevano una realtà che bisognava chiamare l’uomo? Coglievano, nella eterogenea società in cui vivevano, un modello, che si adattasse al re come al mendicante, al monaco come al giullare, al mercante come al contadino, al ricco come al povero e, per parlare in termini di sesso, alla donna come all’uomo, un modello che sarebbe l’uomo?
La risposta è senza dubbio affermativa e si deve anche sottolineare che poche epoche hanno avuto quanto il Medioevo cristiano occidentale dei secoli XI-XV la convinzione dell’esistenza universale ed eterna di un modello umano. In questa società, dominata, impregnata fino alle sue più intime fibre della religione, un tale modello, evidentemente, era definito dalla religione e, in primo luogo, dalla più alta espressione della scienza religiosa: la teologia. Se c’era un tipo umano da escludere dal panorama dell’uomo medievale era proprio quello di chi in modo assoluto non crede; il tipo che più tardi si chiamerà libertino, libero pensatore, ateo. Almeno fino al secolo XIII e addirittura fino alla fine del periodo che esaminiamo, non si trova nei testi che un numero insignificante di negatori dell’esistenza di Dio. E nella maggior parte di questi rari casi ci si può anche chiedere se non si tratti di una cattiva lettura dei testi o di estrapolazioni dovute a chi ha riferito le parole di questi originali isolati, estrapolazioni nate da eccessi verbali, frutto di un momento di rabbia o – per qualche intellettuale – di ebbrezza concettuale. Se gli uomini del Medioevo hanno spesso ripetuto il verso del salterio – il libro dove gli alfabeti imparavano a leggere – «lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste» (Ps. 13, 1), la citazione abituale non doveva esser intesa che come una di quelle espressioni misteriose e incomprensibili proprie di un testo sacro. Per i chierici era un comodo punto di partenza – in quanto tratta dall’autorità delle Scritture – per enunciare le prove dell’esistenza di Dio. Ma il non credente, che si trova presso gli «altri» (l’ebreo, l’infedele, il pagano) è così raro e cosa dubbio nel Medioevo che non fa neppure parte della galleria di emarginati presentata da Bronislaw Geremek.
Cos’è dunque l’uomo per l’antropologia cristiana medievale? La creatura di Dio. La natura, la storia, il destino dell’uomo si conoscono in primo luogo nel libro della Genesi, all’inizio del Vecchio Testamento. Il sesto giorno della creazione Dio ha fatto l’uomo e gli ha esplicitamente conferito il dominio sulla natura: flora e fauna che gli avrebbero fornito il nutrimento. L’uomo medievale ha dunque vocazione ad essere signore di una natura dissacrata, della terra e degli animali. Ma Adamo, istigato da Eva, a sua volta corrotta dal serpente, cioè dal male, ha commesso il peccato. Due esseri ormai abitano in lui, quello che è stato fatto «a immagine e somiglianza» di Dio e quello che, avendo commesso il peccato originale, è stato cacciato dal paradiso terrestre e condannato alla sofferenza – che si concreta nel lavoro manuale per l’uomo e nei dolori del parto per la donna –; alla vergogna, simboleggiata dal tabù della nudità degli organi sessuali; alla morte.
A seconda delle epoche, la Cristianità medievale insisterà piuttosto sull’immagine positiva dell’uomo, essere divino, creato da Dio a sua somiglianza, e associato alla sua creazione poiché Adamo ha dato il loro nome a tutti gli animali, chiamato a ritrovare il paradiso che ha perduto con la propria colpa, o piuttosto sulla sua immagine negativa, quella del peccatore, sempre pronto a soccombere alla tentazione, a rinnegare Dio e dunque a perdere il paradiso per sempre, a cadere nella morte eterna.
Questa visione pessimistica dell’uomo, debole, vizioso, umiliato davanti a Dio, è presente per tutta la durata del Medioevo, ma è più accentuata durante l’Alto Medioevo dal IV al X secolo – e ancora nei secoli XI e XII – mentre l’immagine ottimistica dell’uomo, riflesso dell’immagine divina capace di continuare sulla terra la creazione e di salvarsi, tende a prendere il sopravvento a partire dai secoli XII e XIII.
L’interpretazione della condanna al lavoro della Genesi domina l’antropologia del Medioevo. È la lotta tra due concezioni del lavoro/fatica e dell’uomo al lavoro. Da un lato si insiste sul carattere di maledizione e di penitenza del lavoro, dall’altro sulle sue potenzialità come strumento di riscatto e di salvezza. Chiara Frugoni ha ben dimostrato, attraverso l’analisi delle sculture di Wiligelmo sulla facciata del Duomo di Modena (verso il 1100) il momento in cui l’umanismo pessimistico dell’Alto Medioevo sembra vicino a pendere verso un umanismo ottimistico: si vede prevalere l’immagine di un Adamo capace di un lavoro creativo su quella di un Adamo schiacciato da un lavoro che è castigo e maledizione2.
Nell’Alto Medioevo Giobbe è senza dubbio il modello biblico in cui l’immagine dell’uomo si è meglio incarnata. Il fascino del personaggio del Vecchio Testamento è stato tanto più grande in quanto il commento al Libro di Giobbe, i Moralia in Job del papa Gregorio Magno (590-604), sono stati uno dei libri più letti, più utilizzati, più valorizzati dai chierici. Giobbe è l’uomo che deve accettare la volontà di Dio senza cercarvi altra giustificazione oltre all’arbitrio divino. Infatti è meno peccatore di ogni altro uomo: «era un uomo semplice e retto, timorato di Dio, che rifuggiva dal male» (Giobbe, 1, 1). Schiacciato dalle prove di Dio, a lungo non capisce, constata che l’uomo «consuma i suoi giorni senza speranza», che la sua vita è solo «vento». Finalmente rinuncia a qualunque fierezza, a qualunque rivendicazione: può l’uomo chiamato da Dio comparire davanti a lui per giustificarsi, può apparire puro colui che è nato da donna? Sotto il suo sguardo mancano di purezza anche la luna e le stelle. Quanto più non è putredine ai suoi occhi l’uomo e verme il figlio dell’uomo! (Giobbe, 25, 4-6).
L’iconografia medievale, tanto rivelatrice e formatrice nel campo dell’immaginario, non conosce, in genere, della storia di Giobbe, che gli episodi della sua umiliazione davanti a Dio, e l’immagine privilegiata è quella di Giobbe roso dalle ulcere sul suo letamaio: la pittura medievale fa di Giobbe quel relitto d’uomo che è un lebbroso.
Al contrario, dalla fine del Duecento in poi, l’arte ci propone il ritratto dell’uomo sotto i tratti «realistici» dei potenti della terra: papa, imperatore, re, prelato, gran signore, ricco borghese, sicuri di sé, fieri di sé, nella pompa del loro successo, belli, possibilmente e, quando non è possibile, personaggi che impongono agli sguardi ammirazione per i loro tratti individuali; dunque anche più imponenti quando sono brutti.
In compenso l’uomo della sofferenza non è più l’uomo, ma Dio stesso, Gesù. Il cristianesimo latino ha fatto in epoca carolingia una grande scelta. Ha scelto le immagini, rifiutando l’arte non figurativa degli ebrei e dei musulmani, l’iconoclastia del cristianesimo greco bizantino. Scelta essenziale che instaura l’antropomorfismo cristiano medievale3. I rapporti tra l’uomo e un Dio che gli appare, che egli può rappresentare con aspetto umano ne ricevono una profonda impronta. Un Dio che, per di più, benché uno, è trino. Se lo Spirito Santo, rappresentato dal simbolismo animale della colomba, sfugge all’antropomorfismo, le due prime persone si muovono sul contrasto fondamentale della vecchiaia e della giovinezza, della regalità e della Passione, della divinità e dell’umanità. Ora, come mostrano efficacemente qui Giovanni Miccoli e André Vauchez, dai secoli XII-XIII in poi Gesù è sempre di più il Cristo della Passione, della Flagellazione, dell’oltraggio, della crocifissione, della pietà. Per uno sconvolgente arrovesciamento delle immagini l’uomo che soffre per eccellenza è ormai il Dio dell’Incarnazione, il Cristo. E l’immagine che emerge nel secolo XV è quella di Gesù col mantello di porpora e la corona di spine della derisione, come Pilato lo mostra alla folla, dicendo, secondo il Vangelo di Giovanni: Ecce homo, «ecco l’uomo». Quest’uomo di un momento eccezionale della storia umana è ormai la figura simbolica dell’uomo sofferente, umiliato, ma divino. E il grande mistero della storia che per tutto il Medioevo i teologi si sono sforzati di spiegare è perché Dio abbia accettato, abbia deciso di farsi uomo, di umiliarsi nel Cristo. Cur Deus homo (Perché Dio si è fatto uomo), è il titolo di uno dei più bei trattati di sant’Anselmo di Canterbury.
Ma l’uomo della teologia (o, in una certa prospettiva, della mitologia cristiana4) medievale non è confinato in un rapporto che lo pone viso a viso con Dio. È coinvolto in una lotta che spesso va al di là del suo potere, quella...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. L’uomo medievale
  2. Giovanni Miccoli. I monaci
  3. Franco Cardini. Il guerriero e il cavaliere
  4. Giovanni Cherubini. Il contadino e il lavoro dei campi
  5. Jacques Rossiaud. Il cittadino e la vita di città
  6. Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri. L’intellettuale
  7. Enrico Castelnuovo. L’artista
  8. Aron Ja. Gurevič. Il mercante
  9. Christiane Klapisch-Zuber. La donna e la famiglia
  10. André Vauchez. Il santo
  11. Bronislaw Geremek. L’emarginato