Il cittadino e la vita di città
Alla fine del secolo XII, Richard Devize, monaco di Winchester, parla così dei londinesi e della loro città: «Questa città proprio non mi piace. Riunisce persone di ogni specie, che vengono da tutti i paesi possibili; ogni razza vi porta i propri vizi e i propri usi. Nessuno può vivervi senza macchiarsi di qualche delitto. Ogni quartiere sovrabbonda di rivoltanti oscenità [...]. Quanto più un uomo è scellerato, tanta più considerazione gode. Non mescolatevi alla folla degli alberghi [...]. Infiniti vi sono i parassiti. Attori, buffoni, giovanotti effeminati, mori, adulatori, efebi, pederasti, ragazze che cantano e ballano, ciarlatani, ballerine specializzate nella danza del ventre, stregoni, gente dedita all’estorsione, nottambuli, maghi, mimi, mendicanti: ecco il genere di persone che riempiono le case. Così, se non volete frequentare i malfattori, non andate a vivere a Londra. Non dico nulla contro la gente istruita, contro i religiosi o gli ebrei. Tuttavia ritengo che vivendo in mezzo ai furfanti, anche loro siano meno perfetti che in qualunque altro luogo...».
Guillaume Fitz Stephen, contemporaneo del monaco Richard, ha un’opinione ben diversa: «di tutte le nobili città del mondo, Londra, trono del regno d’Inghilterra, ha diffuso in tutto l’universo la sua gloria, la sua ricchezza, le sue mercanzie, e leva la testa al sommo. È benedetta dal cielo; il suo clima salubre, la sua religione, l’ampiezza delle sue fortificazioni, la posizione favorevole, la fama che godono i suoi cittadini, il decoro delle signore, tutto torna a suo vantaggio [...]. Gli abitanti di Londra sono universalmente stimati per la finezza delle maniere e dei costumi e per le delizie della tavola. Le altre città hanno dei cittadini; Londra ha dei baroni. Fra loro un giuramento basta a sedare una lite. Le donne di Londra valgono le Sabine...».
Ecco dunque il cittadino che abita per l’uno Babilonia, per l’altro Gerusalemme. Vecchie immagini, ma cristallizzate da due secoli di inurbamento selvaggio, e che mostrano con chiarezza come la città si riveli sede di un’umanità molto particolare, condannata dagli uni, lodata dagli altri. Non stiamo a soffermarci su un fatto evidente: verso il 1250 la rete cittadina dell’Europa pre-industriale è, salvo qualche dettaglio, già tracciata. A nostro avviso, i risultati restano modesti: un mostro – Parigi –, con più di centomila abitanti; una buona mezza dozzina di metropoli – italiane a eccezione di Gand – con più di cinquantamila anime; sessanta o settanta città con oltre diecimila abitanti e qualche centinaio con più di mille, l’insieme variamente distribuito in nebulose più o meno dense. Nelle aree in via di sviluppo un uomo su tre o quattro è cittadino, nelle altre solo uno su dieci.
Ma l’essenziale non sta in questo, almeno per due ragioni: le città, vaste necropoli del mondo rurale, logorano fuor di misura un materiale umano molto presto sostituito. In secondo luogo, la loro influenza oltrepassa singolarmente la loro consistenza demografica: le scuole vi si stabiliscono, i mendicanti vi si installano, i principi ne fanno le loro capitali, l’artigianato vi si diversifica e il loro mercato stende sempre più in lontananza i propri orizzonti. La città è il centro di sviluppo di una società complessa che si adatta al sistema signorile e alla sua ideologia, ma elabora le proprie gerarchie.
Si pongono dunque tre domande inevitabili: che c’è di comune tra il mendicante e il borghese, tra il canonico e la prostituta, tutti cittadini? Fra l’abitante di Firenze e quello di Montbrison? Fra il neocittadino della prima crescita e il suo discendente del secolo XV?
Se diverse sono le loro condizioni come le loro mentalità, il canonico, per forza di cose, va a incontrarsi con la prostituta, col mendicante e col borghese. Gli uni e gli altri non possono ignorarsi e si integrano in un medesimo piccolo universo di popolazione densa che impone delle forme di socievolezza sconosciute al villaggio; un modo di vivere specifico: l’uso quotidiano del danaro e, per certuni, un’apertura obbligatoria sul mondo. Il vescovo di Parigi Guglielmo d’Alvernia già lo notava verso il 1230. Badiamo tuttavia di non lasciarci soggiogare da una mitologia vecchia quanto la storia cittadina che esalta sproporzionatamente i valori cittadini nei confronti dell’inerzia rustica. Fra il campagnolo e il cittadino sussiste solo una differenza di cultura.
Ma la cultura cittadina è la medesima a Firenze e Montbrison, Siena e Saint-Flour? Questione di gradazione, non di natura; diversi i lessici (e anche questi non sempre: guardate le stirpi di Metz che hanno le loro «brigate» festive proprio come i Senesi e i Fiorentini) ma il linguaggio è lo stesso; non esiste una fortezza urbana, «la città non va giudicata qualcosa di isolato» (F. Braudel): essa è inserita in una rete di relazioni (religiosi, mercanti, artigiani, ecc.) per cui si diffondono dei modelli venuti dalle metropoli. Insomma, se non esiste un «sistema urbano», si sviluppa un Occidente urbano i cui membri sono tutti un po’ parenti, fanno parte di una specie di clan che ha i suoi ricchi e i suoi poveri, ma in cui, all’origine, c’è la comunanza di sangue.
Ultima domanda, infine: la cultura cittadina, questa buona coscienza spesso pretenziosa delle attività e delle maniere di vivere, ci ha messo dei secoli a svilupparsi. Ogni periodo della storia ha dunque il suo tipo di cittadino. D’altra parte, per lo più, non si cresce in città; ci si viene all’inizio della giovinezza. Tenterò dunque di seguire congiuntamente queste due durate – breve l’una e lunga l’altra – di acculturazione, di difficile apprendistato: insistendo sulle forme essenziali di socievolezza produttrici di ideologie e di miti, perché, per riprendere l’espressione di un eccellente specialista della vita cittadina, il francescano Fra Paolino (1314): «fagli mestiere a vivere con molti».
Un rapido sguardo sui mondi che cambiano
Quando, verso il 1150, un contadino varcava le porte di una città per tentare di lavorarvi e forse di stabilircisi, aveva senza dubbio coscienza di penetrare in un «universo al riparo dei suoi privilegi» (F. Braudel), come uno dei suoi pari due secoli dopo. Non che «l’aria della città renda liberi», secondo il vecchio adagio tedesco eretto da poco a verità universale. Verso il 1200 Lilla non accettava né i bastardi né i transfughi. Bologna e Assisi imponevano tasse più gravose ai non liberi; dappertutto il signore disponeva di un anno per recuperare il suo uomo, e in una quantità di borghi rurali, le condizioni personali non differivano granché da quelle della città. Resta il fatto che lo Stadtgerichte prestigioso era intessuto di illusioni e di vantaggi indubbiamente concreti: la libertà era in primo luogo questo complesso progressivamente accumulato di diritti e di usi estorti, acquisiti, negoziati, ottenuti col consenso o strappati, molto più che non il privilegio di una carta o di una legge. Una legge valeva solo per la forza di una comunità che poteva farla rispettare. Le città avevano al loro attivo il danaro, il numero degli uomini, le loro temibili solidarietà. Il vecchio grido di «comune» conservava in Piccardia o in Fiandra verso il 1300 una grandissima forza emotiva. Perciò le franchigie cittadine avevano ben altro potere rispetto a quelle dei villaggi.
I cittadini, e i mercanti in primo luogo, avevano ottenuto dappertutto le libertà necessarie alle loro attività. Dalla fine del secolo XII i costumi oppressivi o umilianti si trovavano qua e là ridotti allo stato di vestigia; un diritto cittadino si sovrapponeva alle giurisdizioni che gli facevano concorrenza (ai banni che si dividevano la città) e, anche nei casi in cui l’esercizio della giustizia restava interamente nelle mani del signore, la giurisprudenza dei tribunali investiti dai principali abitanti tendeva ad unificare la condizione delle persone e dei beni. Gli uomini d’affari disponevano di un diritto libero dalla paralisi dei formalismi; potevano senza impacci reclutare la manodopera necessaria ai loro laboratori, controllare pesi e misure, mercati e fiere, regolamentare l’assunzione del personale e i mestieri, intervenire efficacemente in favore dei loro concittadini vittime di un furto o di un arbitrario sequestro.
Beneficiare di questa solidarietà collettiva presupponeva, a dire il vero, una cittadinanza difficile da conquistarsi; implicava un’ammissione, la presenza di un padrino, un tempo di residenza spesso superiore a un anno, l’inclusione in un Mestiere oppure l’acquisto di un immobile. Far parte del popolo non era facile e una maggioranza di abitanti privi di risorse si rivelava incapace di oltrepassare le muraglie erette all’interno da una minoranza gelosa. Tuttavia il semplice fatto di risiedere a lungo in città autorizzava – anche al di fuori dei sogni di un lavoro sicuro e di ascensione sociale – qualche speranza fondamentale: prima di tutto vivere in una relativa sicurezza, al riparo di mura che arrestavano la gente a cavallo e i predoni; in secondo luogo non morire di fame, perché la città possedeva delle riserve, dei capitali, una forza sufficiente per condurre in buon porto i suoi convogli di grano; la speranza, infine, di sopravvivere nel tempo della disoccupazione e della miseria grazie alla distribuzione di razioni, alle briciole della rapina, della potenza e della carità, le tre sorelle rese più forti dalle mura cittadine.
Se la città comincia «al limite della sua periferia come una casa rispetto all’ingresso del suo giardino» (A. Lombard Jourdan) le mura costituiscono senz’altro la frontiera decisiva che separa due spazi. In Occidente – a parte l’Inghilterra – ogni città ha la sua cinta di mura; simbolo dell’unità realizzata oppure opera del principe, la cinta protettrice identifica la città. E i cittadini? «Dei contadini rinchiusi tra mura», affermano sprezzanti i nobili tedeschi preoccupati dell’espansione cittadina. Ogni città è chiusa, per necessità politica e militare e, man mano che cresce, ricostruisce un po’ più lontano le sue difese – cinque volte più lontano Gand tra il 1150 e il 1300, tre volte Firenze –; quando tarda a farlo, la guerra la richiama all’ordine. Così nel regno di Francia verso il 1350.
Capitale considerevole (da 100 a 150.000 lire per Reims nel secolo XIV), l’anello di pietra, oggetto d’orgoglio ma divoratore di danari, segna della sua impronta il complesso della vita urbana: struttura la popolazione stabile che si divide per settori la custodia delle cortine e delle porte, scandisce il tempo quotidiano...