1. Il sorpasso
«Se penso che nell’ultimo anno sono spariti un bel po’ di dittatori in giro per il mondo: Gheddafi, Ben Alì, Mubarak, persone che io ho incontrato come capi di Stato, da ministro. È successo di tutto nell’economia, nei mercati, nella finanza e questo ci fa sembrare vecchi».
Luca Zaia è seduto al tavolo degli ospiti nel grande studio di palazzo Balbi affacciato sul Canal Grande, che è stato per 15 anni di Giancarlo Galan e prima di lui di Carlo Bernini e di Angelo Tomelleri, i grandi presidenti del Veneto. È una mattina luminosa ma fredda, Luca tiene la finestra aperta perché è un salutista. Sul tavolo ha appoggiato l’iPad da cui non si separa mai. Bernini non teneva niente, solo il telefono e un fogliettino e Lia Sartori, allora neanche quarantenne, socialista e assessore ai trasporti, si meravigliava molto. «Non capisco come faccia – diceva – io ho il tavolo pieno di carte, il suo invece è completamente vuoto». Ma non era difficile indovinare: lei comandava alle carte, lui comandava alle teste.
Galan riceveva gli ospiti stravaccato sul divano e si vedeva subito che non era uno stakanovista. Claudia Minutillo era sempre nel raggio di due metri, la sua ombra. La chiamavano la dark lady e non solo perché vestiva di nero: fisico asciuttissimo, elegante, di rado sorridente, teneva le chiavi di tutti gli accessi al presidente. Fino a diventare troppo ingombrante. L’aveva sostituita Franco Miracco, il ghostwriter creativo, il politico socialista con pretesa di sostituto, e l’ombra era diventata un alter ego, un personaggio terzo con una vita propria, ribattezzato Galacco.
Luca ha perso da tempo la voglia di ridere. Ha il morale sotto i calcagni. È arrivato per cambiare tutto e ha trovato solo i muri: Galan non gli ha lasciato niente, solo capitoli di bilancio esauriti, buchi da chiudere e un futuro ipotecato dai project. In tre legislature ha rigirato anche i materassi. La capacità di indebitarsi è esaurita. La finanza privata si è innestata in presa diretta sulle casse regionali per realizzare grandi opere pubbliche: ci sono cambiali da pagare per decenni. Zaia è così disperato che pensa di vendere agli arabi l’altopiano del Cansiglio, in mezzo ad una foresta che la Repubblica Serenissima considerava intoccabile. O gli ultimi tratti di spiaggia libera rimasti sul litorale, come Vallevecchia a Caorle. Gli ambientalisti sono in rivolta e lui, che la penserebbe come loro, è costretto a sognare che arrivi uno sceicco con i petrodollari per salvarlo dal fallimento. Solo dalla vendita del patrimonio regionale può spremere denaro.
A Roma il governo Bossi-Berlusconi gli ha tolto tutto lo spazio di manovra. Si era preparato iniziative di federalismo a geometria variabile che non costano nulla, spostano semplicemente flussi di denaro dal centro alla periferia. Ma proprio qui c’è stata la resistenza: il governo troppo amico gli ha sbarrato la strada.
La caduta di Berlusconi e l’insediamento del governo Monti hanno ridato movimentismo alla Lega ma per lui il problema si è ribaltato: con Bossi all’opposizione, viene messa a rischio l’alleanza con il Pdl, cioè la poltrona dove sta seduto. Il Veneto ha anticipato la crisi di rapporti tra Lega e Pdl: Gianpaolo Bottacin, presidente leghista della Provincia di Belluno, è caduto prima di Berlusconi. Poi la frana è scesa lungo la vallata dell’Adige e ha centrato Verona, seconda capitale del Veneto. Domenica 29 gennaio arriva Roberto Maroni per dare il benservito ufficiale al Pdl davanti ad un migliaio di leghisti nei padiglioni della Fiera: il sindaco Flavio Tosi si ripresenta da solo alle elezioni comunali sostenuto dalla Lega, da una lista Tosi e da una serie di liste civiche di centrodestra in cui Tosi offre ospitalità a dissidenti del Pdl. È la dichiarazione di guerra all’alleato, senza preoccupazione alcuna di quello che potrebbe capitare nella coalizione che governa Venezia.
A poco serve sperare nei contrasti interni della Lega, alimentati dai fedelissimi di Bossi (il cosiddetto cerchio magico) per arginare l’ascesa del sindaco di Verona, che punta non solo a vincere le elezioni da solo al primo turno ma a conquistare la segreteria veneta del partito. Il tormentone dura settimane, con momenti di forte tensione, ma alla fine Bossi cede: il 23 marzo in via Bellerio a Milano Flavio Tosi ottiene il via libera sulle liste civiche con il suo nome. La conseguenza immediata è la spaccatura del Pdl veronese: gli amministratori pidiellini della giunta uscente entrano in una lista con il nome di Tosi e vengono sospesi dal partito.
Luca è sotto assedio. Ha un bel dire che il Veneto non è merce di scambio: è la Lega che fa crescere la tensione. Le esperienze che Zaia ha fatto non lo aiutano. Da presidente della Provincia di Treviso ha governato per due mandati con un monocolore leghista. Da vicepresidente della giunta regionale aveva solo il problema di uscire dall’ombra di Giancarlo Galan. Da ministro alle politiche agricole girava mezzo mondo, tagliando nastri e rispondendo alle tv. È la prima volta che si trova a capo di un governo con una coalizione a rischio e un alleato che aspetta i suoi passi falsi per approfittarne. Deve imparare dagli sbagli, sperando che non siano troppo gravi, o peggio irreparabili. Ma la paura di commetterne lo frena, così tiene un profilo basso per evitare rischi.
Pensare che nel 2010 il sorpasso della Lega sul Pdl era stato accolto come un terremoto benefico, lo smottamento di un sistema di potere costruito sul controllo totale e più o meno insindacabile della spesa pubblica, in mano per 15 anni ad un ristretto gruppo di persone. Nel Veneto era sempre accaduto che la Dc, partito di maggioranza spesso assoluta, facesse entrambi i lavori, quello di governare e quello di farsi l’opposizione. Ma restava pur sempre un partito unico. Lega e Pdl sono invece due partiti diversi, rinviano a blocchi sociali opposti.
Si annunciava un’alternanza vera, anche se tutta interna al centrodestra. Densa di conseguenze per il ricambio che prospettava nell’alta burocrazia regionale, negli enti controllati e in genere nelle posizioni apicali e di governo. Quelle che Giancarlo Galan non sarebbe riuscito a mettere al riparo: non a caso il suo tramonto è stato così sofferto.
Prendiamo la sanità: per farla funzionare servono nel Veneto oltre 7 miliardi di euro l’anno. Più di due terzi del bilancio regionale. A decidere come spenderli, dove e a beneficio di chi, sono i 23 direttori generali delle Unità sanitarie locali e delle Aziende ospedaliere, nominati dal presidente della Regione. È chiaro che i soldi andrebbero comunque spesi, le tasse si pagano per questo: ma costruire un nuovo ospedale o adattare quello esistente sono due cose molto diverse. Precedenza ai muri o alla pelle? La gestione Galan ha riempito il Veneto di nuovi ospedali da costruire in project financing, cioè con denaro di privati, che si rifanno con concessioni decennali. Decisi spesso al di fuori della pianificazione regionale e inseriti solo successivamente. Cose di dominio pubblico. La costruzione del nuovo ospedale di Thiene-Schio, per esempio, costo 145 milioni di euro, venne comunicata nel dicembre 2003 dall’eurodeputata Lia Sartori in una cena a Vicenza, in casa di Nadia Qualarsa, all’epoca presidente della commissione cultura del consiglio regionale. Tra gli invitati l’assessore alla sanità Fabio Gava, il suo collega al sociale Antonio De Poli, il direttore generale della Usl di Thiene-Schio Sandro Caffi. Lia Sartori era legata a Vittorio Altieri, titolare dell’omonimo studio di progettazione che con le imprese Mantovani, Gemmo, Serenissima Ristorazione e Coopservice avrebbe poi concorso per aggiudicarsi il project del nuovo ospedale. Riuscendoci in pieno. Solo Frate Indovino poteva prevederlo, non certo i pochi sindaci della zona invitati alla cena, che sentivano parlare del nuovo ospedale per la prima volta.
Luca Zaia ha portato al governo il fastidio mai nascosto della Lega per lo spazio lasciato ai privati e la volontà dichiarata di passare tutte queste scelte al setaccio. Due anni dopo non è successo niente. Anzi, Luca è costretto ad ammettere che tutti i project sono stati blindati ed è impossibile fare marcia indietro. Il sorpasso del 2010 è diventato un terremoto che sta minando il centrodestra. Zaia è costretto a puntellare i soffitti, ad appoggiarsi ai muri sperando che reggano. Condannato all’immobilismo per non finire travolto.
Inevitabile chiedersi se nel Veneto è in corso un vero sorpasso oppure, come succedeva nel film di Dino Risi con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, il sorpasso è già finito fuori strada. Lì c’era un morto, era una tragedia, qui potrebbe essere una commedia: un sorpasso camaleontico, i vecchi padroni che saltano nel nuovo corso, cambiare tutto per non cambiare niente. Il Gattopardo del Veneto senza che ci sia un Tomasi di Lampedusa che l’ha scritto. Solo un Luca Zaia a rifilarcelo.
L’implosione della Lega
Ma la Storia corre più in fretta: giovedì 5 aprile 2012, via Bellerio, ore 16,30, si dimette Bossi. Il Capo di un movimento che si riteneva al di sopra di ogni sospetto è travolto da un’inchiesta sulla gestione dei rimborsi elettorali, che coinvolge la sua famiglia e mette a nudo le responsabilità dei vertici della Lega. Il tesoriere Francesco Belsito è indagato per appropriazione indebita, truffa aggravata, truffa ai danni dello Stato e riciclaggio. Che fosse un personaggio chiacchierato si sapeva: mai laureato a Londra e neanche a Malta, come andava sostenendo, forse neanche diplomato. Uno che aveva falsificato perfino la patente. Ma il caso va molto al di là del personaggio Belsito, che pure è stato sottosegretario alla semplificazione nell’ultimo governo Berlusconi: il tesoriere ha una cartella intitolata “The Family” con le spese per la casa di Gemonio, per interventi sanitari, per pagare i diplomi e i corsi universitari al figlio Renzo, per comprargli la macchina, per finanziare la pasionaria Rosy Mauro. Sempre con i soldi del partito.
I leghisti non vogliono crederci, Umberto si dichiara all’oscuro, ma la sua segretaria dice che sapeva. C’è un blocchetto di assegni con il suo nome. Le rivelazioni si accavallano in un crescendo che Luca Zaia, dal Veneto, definisce «un’agonia alla quale porre fine». Bossi la pensa allo stesso modo e al quarto giorno si dimette.
Il mito del Senatùr crolla nella settimana santa, al culmine dei riti della passione che precedono la Pasqua. C’è una coincidenza simbolica mica male, per uno che sulla simbologia e sui riti celtici ha costruito la fidelizzazione al movimento. Ma c’è anche qualcosa di beffardo nell’essere il Capo della Lega Nord e venire inquisito da due procure del Sud. Sbugiardato e costretto alle dimissioni da magistrati di Napoli e di Reggio Calabria, oltre che di Milano: un contrappasso da seppellire la Padania. Vent’anni di slogan contro il Meridione restituiti con gli interessi. Non bastava lo stipendio da consigliere regionale di oltre diecimila euro, fatto guadagnare al figlio scaldabanchi: si deve venire a sapere che Renzo Bossi attingeva alla cassa del partito per comprarsi la macchina, per pagare la benzina, il ristorante, l’affitto. Lo stesso faceva il fratellastro Riccardo. Alla seconda moglie di Bossi, Manuela Marrone, risultano intestati 11 appartamenti. Il denaro di un partito che si regge sul volontariato e la dedizione dei militanti, usato per le spese del Capo e dei suoi cari. Tutto mentre la gente in Padania, ma anche nel resto della penisola, è sferzata da una crisi impietosa. Il cerchio si chiude nel modo più scontato, come in certe casse peòte venete degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i soci scoprivano che presidente e cassiere rubacchiavano. Può finire così?
No, può andare ancora peggio. L’argent de poche a disposizione dei rampolli di casa Bossi è solo la ciliegina. La torta è di decine di milioni di euro attinti dal rimborso elettorale del partito e investiti all’estero. La notizia parte da Genova, dove abita Belsito, con uno scoop del «Secolo XIX». È gennaio ma sanno già tutto: il tesoriere della Lega ha investito tra Natale e Capodanno un milione di euro in corone norvegesi, vincolandolo per 6 mesi all’interesse del 3,5 per cento, quando Bot e Bpt nello stesso periodo davano un rendimento più conveniente; un altro milione e duecentomila euro nel fondo “Krispa Enterprise Ltd” di Lanarca, a Cipro, anche se Bossi non era d’accordo (rientreranno solo 850 mila euro); quattro milioni e mezzo di euro depositati in una banca della Tanzania, in attesa di essere reinvestiti. Poi non se ne fa più niente e dalla Tanzania rientrano sul conto della Lega, alla Banca Aletti di Genova, perno di tutti questi spostamenti. Su altri conti della Lega, al Banco Popolare di Genova, risultano in pochi giorni 700 mila euro che entrano, 450 mila che escono in assegni circolari e prelievo in contanti, tutto nella disponibilità di Belsito.
Gran parte del denaro attinto dai rimborsi elettorali, a colpi di centinaia di migliaia di euro, non risulta contabilizzato. La Lega ha fatto investimenti in lingotti d’oro e perfino in diamanti che non si trovano più. Dal fiume delle intercettazioni saltano fuori collegamenti di Belsito con la criminalità organizzata: l’uomo di raccordo è un imprenditore genovese, Romolo Girardelli, detto “l’ammiraglio”, inquisito per riciclaggio di denaro della ’ndrangheta.
Altri brandelli di storie tirano in ballo i parlamentari Roberto Calderoli e Aldo Brancher. Il primo avrebbe preso soldi da Belsito per l’affitto della casa, il secondo ha una frequentazione di lunga data con Stefano Bonet, un imprenditore di San Donà di Piave, perno di tutti gli affari di Belsito e non solo. Bonet e Belsito sembrano il gatto e la volpe: un giro lo fanno a braccetto, l’altro a minacciarsi. Bonet è un consulente tuttofare. È lui che ha il punto d’appoggio a Cipro, nell’italo-cipriota Paolo Scala, per le operazioni estere di Belsito, quei 4,5 milioni da investire in Tanzania e 1,2 nella Krispa. Ma è sempre lui a denunciare la cosa con una raccomandata al consiglio federale della Lega, perché Belsito gli ha fatto arrivare i soldi come fondi del partito e non vuole storie.
Bonet è anche consulente di Brancher, o socio in affari, non è ben chiaro, in almeno due organismi. Uno è l’associazione “Garda tutto l’anno” per la quale il parlamentare veronese ha raccolto 550.000 euro di sponsorizzazioni, 100.000 dei quali cacciati da Bonet, che su sollecitazione di Brancher liquida anche spese minori («20-30.000 euro ...