Storia della letteratura tedesca. 3. Il Novecento
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Storia della letteratura tedesca. 3. Il Novecento

  1. 356 pagine
  2. Italian
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Storia della letteratura tedesca. 3. Il Novecento

Informazioni su questo libro

Una storia della letteratura, agile ed attuale, pensata per il pubblico italiano, che considera il fenomeno letterario nel contesto degli eventi politici e sociali dei paesi di lingua tedesca. Giuliano Baioni Questo volume, dal 1914 alla riunificazione della Germania, illustra i destini della cultura tedesca all'ombra dei complessi avvenimenti della sua storia. Dopo gli orrori del Terzo Reich, la cultura si trovò di fronte alla prova più ardua: riscattare l'immensa eredità culturale tedesca dalle colpe e dall'infamia della dittatura nazista e riabilitare la nazione come parte di un'Europa democratica e civile.

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Informazioni

Capitolo terzo.
Gli anni del nazionalsocialismo
e della guerra

1. Ascesa del nazionalsocialismo e reazione degli intellettuali

Il crollo della borsa di Wall Street ebbe in Germania drammatiche ripercussioni: calo delle esportazioni a causa del protezionismo degli altri paesi, mancato rinnovo dei prestiti, fallimenti e crescita inarrestabile della disoccupazione. Dal punto di vista politico il Reichs­tag fu praticamente esautorato e la Germania venne governata per mezzo di decreti presidenziali. Le elezioni del 1930 non fecero che confermare la frammentazione del quadro politico e la crescente radicalizzazione (i comunisti guadagnarono più di un milione di voti e i nazionalsocialisti da ottocentomila voti salirono a più di sei milioni). La forza del Partito nazionalsocialista consisteva nel saper combinare il carattere reazionario della sua ideologia con l’utilizzo efficace e spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa per la propaganda politica, che puntava a risvegliare le emozioni facendo leva su paure e aspirazioni patriottiche. Questa ideologia, che si innestava nella tradizione autoritaria dell’impero, appena scalfita dalla fragile democrazia di Weimar, si basava sulla falsificazione della storia e sulla creazione di veri e propri miti, che venivano sottratti all’analisi razionale e diventavano fondamento di una sorta di «religione di ricambio» secolarizzata, che si rifaceva alla mitologia germanica e alle antiche saghe nordiche.
Il discorso dei germani come nucleo della cosiddetta razza ariana, per esempio, non aveva nessun fondamento scientifico, ma doveva servire a dimostrare la superiorità dei tedeschi sugli altri popoli.
Spesso si identifica questa nuova ideologia razzista germanica con l’antisemitismo, per la terribile determinazione con cui il nazionalsocialismo portò avanti lo sterminio del popolo ebraico, ma il nazismo si accanì contro tutti i «diversi»: dagli avversari politici (comunisti e socialdemocratici, democratici e liberali di ogni tendenza) agli «asociali» (omosessuali e zingari) e agli handicappati.
Gli ebrei diventarono capro espiatorio sia per motivi simbolici che per motivi pratici: l’antisemitismo aveva origini molto antiche e gli ebrei – che costituivano il simbolo del pluralismo di Weimar, che bisognava annientare per ripristinare una società arcaica, patriarcale e preindustriale – erano facilmente individuabili e avevano spesso professioni prestigiose e patrimoni cospicui. Per demonizzare gli ebrei i nazisti fecero coincidere l’identità razziale con quella politica, presentandoli come facinorosi comunisti e inventando la leggenda della congiura giudaico-bolscevica contro il popolo tedesco.
Questo mito della razza e del carattere «sano» del popolo tedesco si collegava con quello del Blut und Boden (il sangue e la terra patria), secondo cui i contadini rappresentavano il vero nucleo della nazione, e la ripresa dell’espansione verso est per la conquista di «spazio vitale» costituiva un’esigenza pienamente legittima. Il popolo poi aveva bisogno di un capo che lo guidasse: ecco nascere allora il mito del Führer, con il quale le masse avevano un rapporto quasi mistico e a cui si doveva obbedienza assoluta. Altro mito significativo, su cui ci siamo già soffermati a proposito del romanzo di guerra nella Repubblica di Weimar, era quello del soldato eroico e della morte in guerra per la patria tedesca. Non per niente i nazionalsocialisti consideravano gli scrittori pacifisti come Kurt Tucholsky e Carl von Ossietzky (nato nel 1889 e morto in campo di concentramento nel 1938) tra i peggiori nemici.
A causa della debolezza della Repubblica di Weimar i nazisti aumentarono la loro influenza presso il tradizionale elettorato delle forze borghesi e nelle campagne, ottenendo l’appoggio delle forze più autorevoli dell’economia e delle forze armate, che pensavano di poter manovrare Hitler in funzione antibolscevica. Anche l’atteggia­mento delle potenze europee era dettato da calcoli analoghi: il ­paese in cui le organizzazioni della classe operaia erano più forti e più radicate doveva diventare una diga contro il comunismo. L’aspra ­lotta tra i comunisti tedeschi, influenzati dalla strategia politica dell’Internazionale comunista, e i socialdemocratici non fece che peggiorare la situazione e favorire la penetrazione del nazionalsocialismo nella classe operaia. Il Partito comunista tedesco (KPD), ritenendo erroneamente che la rivoluzione fosse ormai imminente, considerava il riformismo dei socialdemocratici come il nemico principale.
Alla fine degli anni Venti la propaganda nazionalsocialista contro ebrei e comunisti si fece sempre più martellante e cominciarono i primi attacchi contro persone e negozi, tanto che il presidente Hindenburg mise al bando entrambe le organizzazioni paramilitari naziste, sia le SA (Sturmabteilungen) che le SS (Schutzstaffeln). La revoca di questo provvedimento, avvenuta qualche mese dopo, fu all’origine di scontri sanguinosi tra nazisti e comunisti.
In questo clima la gente era disposta ad accettare qualsiasi proposta politica pur di ottenere l’ordine.
Dopo le elezioni del 1932, che si risolsero in una sbalorditiva vittoria dei nazionalsocialisti, Hitler fu nominato cancelliere e cominciò a regolare i conti con gli oppositori interni, con rapidità ma anche con studiata gradualità. L’incendio del Reichstag del 28 febbraio 1933 offrì un primo pretesto per attaccare i comunisti e per l’apertura di campi di concentramento a scopo «rieducativo».
Ma i nazisti avevano capito che se da una parte occorreva annientare l’opposizione, dall’altra bisognava andare oltre la stählerne Romantik (romanticismo dell’acciaio) dei romanzi di guerra e imporre una solida egemonia anche in campo culturale. Considerate le tendenze nazionalistiche, anti-illuministe e irrazionalistiche presenti nella cultura di Weimar, anche in quella borghese-liberale, il terreno si presentava molto fertile.
Già alla fine degli anni Venti Alfred Rosenberg aveva definito la cultura di Weimar – per le sue città abitate da «masse senza volto», la sua «letteratura d’asfalto» e i suoi Zivilisationsliteraten, che erano alleati con i cartelli e le grandi banche e che facevano soldi con l’industria culturale – una «palude» in cui si annidavano i Kunstbolsche­wiken (bolscevichi dell’arte). In questo termine appare evidente l’idea nazionalsocialista del legame tra la rivoluzione operata in campo estetico dalle avanguardie artistiche e quella politico-sociale avvenuta in Russia. Di conseguenza, il programma culturale dei nazionalsocialisti si pone soprattutto l’obiettivo di contrapporre all’elemento bolscevico-cosmopolita-ebreo quello tedesco-nazionale, per creare un’identità fondata sulla differenza dei tedeschi rispetto agli altri popoli e sul presunto carattere tedesco della Kultur.
In questa chiave va letto il richiamo al Kulturerbe (eredità culturale) dei grandi del passato e in particolare dei poeti della «Weimar classica» e del romanticismo come rappresentanti dell’anima tedesca. Si tratta di un’eredità da selezionare e manipolare in funzione ideologica, per esempio cancellando Heine dalla storia della letteratura e presentando la Lorelei come un Volkslied (canzone popolare).
A questo proposito va sottolineato come – in modo apparentemente paradossale – negli anni Trenta la politica culturale nazional­socialista e quella comunista fossero concordi nella rivalutazione dei classici della letteratura tedesca e nel rifiuto delle avanguardie1.
L’aspra battaglia tra le ideologie combattuta attorno all’eredità culturale costituisce un nodo cruciale per capire l’atteggiamento degli intellettuali nell’emigrazione. Per condurre questa lotta i nazisti fondarono nel 1929 la «Lega per la cultura tedesca», che tra i suoi nemici elencava tra gli altri Erich Kästner, Kurt Tucholsky, Thomas Mann, Bertolt Brecht, l’Istituto per le ricerche sessuali di Berlino, gli artisti del Bauhaus, Ernst Toller. L’inserimento in ­questa lista avveniva non solo in base alle posizioni ideologiche, bastava anche una buona tiratura all’estero2.
Dalla creazione di queste liste nere all’autodafè il passo era breve: nella notte del 10 maggio 1933 in diverse città tedesche studenti e formazioni della Hitlerjugend (Gioventù hitleriana), dopo aver fatto scorrerie nelle biblioteche, ammucchiarono i libri in enormi pile e li bruciarono tra urli e danze. Due giorni dopo lo scrittore austriaco Oskar Maria Graf (1894-1967) fece stampare nell’«Arbeiterzeitung» di Vienna una lettera di protesta, in cui invitava i nazisti a bruciare anche i suoi libri, perché non arrivassero nelle mani coperte di sangue dei nuovi dominatori.
Quello che colpì gli osservatori, vale a dire il carattere rituale di questa «azione simbolica», costituiva in realtà una caratteristica specifica della propaganda nazionalsocialista, che puntava attraverso questi atti a rafforzare l’identificazione delle masse con il Führer. A questo scopo venne creato il Thingspiel (teatro Thing, dal termine germanico che definisce l’antico tribunale popolare), fusione dei misteri medievali e delle rappresentazioni gesuitiche, che si svolgeva all’aperto su «suolo consacrato», in stadi o in teatri appositamente costruiti e che potevano contenere migliaia di spettatori. Questo tipo di rappresentazioni, con la continua ripetizione di slogan da parte dei cori, stancarono presto gli spettatori e vennero abbandonate già prima dello scoppio della guerra.
Era ormai scoccata l’ora della Gleichschaltung (allineamento): il regime aveva conquistato il monopolio dell’informazione e poteva convogliare tutte le energie verso gli obiettivi che si era prefisso.
Molti intellettuali conservatori come Benn, Heidegger e Jünger in un primo momento appoggiarono con entusiasmo il nazionalsocialismo, con la convinzione che questo movimento contenesse i germi di una rigenerazione culturale, ma di fronte al dispiegarsi del suo volto brutale e totalitario si ritirarono in un prudente e a volte sprezzante isolamento.
Martin Heidegger nel discorso tenuto il 27 maggio 1933, in occasione dell’inizio del suo rettorato all’università di Friburgo, salutò nel Führer la guida spirituale che il popolo tedesco aveva tanto atteso e Carl Schmitt, importante filosofo del diritto e dello Stato e critico acuto della democrazia parlamentare, appoggiò esplicitamente l’idea di uno Stato autoritario guidato da un capo carismatico. Ernst Jünger inviò a Hitler i suoi libri di guerra con una dedica, ma per l’atteggiamento di distacco snobistico che mantenne sempre nei confronti della propaganda nazionalsocialista venne considerato inaffidabile dai nazisti, tanto che nel 1944 fu addirittura accusato di simpatizzare con la resistenza. Anche Gottfried Benn, dopo aver inizialmente appoggiato il nazionalsocialismo in modo esplicito, nel 1935 rientrò nell’esercito come ufficiale ­medico e scelse una «forma aristocratica di emigrazione». Però nel 1936, in occasione della pubblicazione delle sue Poesie scelte (Ausgewählte Gedichte), dovette subire un violento attacco dal giornale delle SS e dal «Völkischer Beobachter» (Osservatore del popolo, organo ufficiale del Partito nazionalsocialista), che lo definirono come «pervertito» e «giudeo» e gli rinfacciarono l’amicizia con la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler.
Nel 1933 vennero arrestati e messi in campo di concentramento molti intellettuali, tra cui Carl von Ossietzky ed Erich Mühsam; altri tra cui Brecht, Hasenclever e i fratelli Mann si sottrassero a questa sorte fuggendo oltre confine. A questa prima grande ­ondata di emigrazione ne seguirono altre, man mano che si intensificava la persecuzione dei nazisti. In questo frangente né la Chiesa cattolica né quella protestante ebbero il coraggio di uscire dalla cerchia dell’acquiescenza e del sostanziale consenso al regime, ma mentre il travaglio della Chiesa cattolica rimase sostanzialmente circoscritto ai comportamenti politici, nella Chiesa protestante – che pur si riconosceva per tradizione nell’autorità politica del Reich ed era soprattutto in Prussia un’articolazione del potere dominante – si formarono delle isole di resistenza, soprattutto per iniziativa della Bekennende Kirche (Chiesa confessante), un movimento evangelico che criticava l’atteggiamento della Chiesa ufficiale, o di singoli pastori come Martin Niemöller, che venne internato in campo di concentramento, e il teologo Dietrich Bonhoeffer, giustiziato nel 1944 con l’accusa di aver par...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Parte prima. Dall’espressionismo al 1945
  3. Capitolo primo. Tra «fine del mondo» e nuovo inizio
  4. Capitolo secondo. La metropoli e le ideologie: la cultura di Weimar
  5. Capitolo terzo. Gli anni del nazionalsocialismo e della guerra
  6. Parte seconda. La letteratura dopo il 1945
  7. Capitolo primo. Germania punto zero e la rinascita? Dalla fine della guerra alla stabilizzazione dei sistemi, 1945-1949
  8. Capitolo secondo. Divisione e integrazione. Dalla nascita dei due Stati tedeschi alla costruzione del Muro di Berlino, 1949-1961
  9. Capitolo terzo. Letteratura e politica. Sistemi a confronto e il movimento del ’68, 1961-1969
  10. Capitolo quarto. La letteratura degli anni Cinquanta e Sessanta nella DDR: dibattito sul formalismo, Bitterfeld e la lunga strada per Oobliadooh
  11. Capitolo quinto. Dopo il fallimento: la letteratura degli anni Settanta
  12. Capitolo sesto. Prima e dopo la «Wende»: la letteratura degli anni Ottanta e Novanta
  13. Brevi schede sugli autori
  14. Bibliografia