La più bella truffa del mondo, ovvero un Natale romagnolo
Il romagnolo è un sognatore professionista; siamo gente che rimane spesso a bocca aperta, a mangiare dell’oca.
Il nostro senso di meraviglia non si è affatto atrofizzato.
Grazie a questo, un Natale di tanti anni fa, inciampai nel mio destino, che contrariamente a quanto sperava Gianì non erano né le zappe né le forbici da potatura.
Erano i tempi in cui il mio nome era ancora Ninni.
La vigilia di Natale, sognai così forte un camion dei Lego, che la mattina dopo credetti veramente che mi fosse stato regalato, e andai a cercarlo sotto il letto a castello, dove ricordavo confusamente di averlo nascosto.
Ma non c’era.
C’erano i rimasugli polverosi di una vecchia pista della Polistil, una vecchia scatola di scarpe che conteneva i doppioni di un centinaio di figurine, un paio di giochi di società che non avevo mai toccato, la foto del Cesena dell’81 che era caduta giù dal muro la sera che ci avevano eliminati dalla coppa Uefa e un fustino di Dixan sigillato pieno di Playmobil e di regalini dell’ovetto Kinder.
Del camion della benzina dei Lego neppure l’ombra. Mi sentii come se mi avessero truffato. Ricordavo benissimo quando mamma me lo aveva messo in mano. Sentivo ancora la spigolosità della scatola e, se chiudevo gli occhi, i colori della confezione mi rimanevano impigliati nitidamente nella retina.
Mi avevano derubato.
A Natale.
Ci sono pochi crimini peggiori del truffare un bambino a Natale.
Anzi, pensandoci bene, non esisteva proprio un crimine peggiore. Furto di camion dei Lego, con l’aggravante natalizia.
Mi sistemai i pantaloni del pigiama, tirandomeli bene sopra la pancia, e marciai in cucina indossando il mio migliore muso da combattimento.
Cristèna stava armeggiando intorno ai fornelli. Dall’odore, stava preparando i fegatini da mettere sulle fette biscottate.
Per un attimo, la faccia mi si addolcì, ma trovai in fretta il controllo di me stesso; la situazione richiedeva la massima serietà.
Il vetro della finestra era appannato, e le due farfalle di plastica infilzate alle tendine avevano l’aria più morta stecchita del mondo.
Se avessi ripulito un piccolo oblò sul vetro, avrei notato che fuori il mondo era diventato tutto bianco. Ma non lo feci.
“Dov’è il camion?”, chiesi.
La schiena di Cristèna non rispose.
Ci fu uno sferragliare di pentole.
“Che camion?”. Lei si voltò, e si avvicinò alla tavola.
Si mise a tritare il pane secco per preparare i passatelli.
Mantenere il muso fu un’impresa.
“Il camion del benzinaio”, dissi.
Cristèna alzò un sopracciglio.
“Benzinaio?”, chiese.
“Il benzinaio dei Lego”, dissi io.
Cercai di caricare dentro molto ispettore Derrick nel mio sguardo, ma mia nonna non sembrava per niente impressionata.
“A ’n sò gnint del benzinaio dei Lego”, rispose.
Una congiura, ecco cos’era.
Mi piantai le mani sui fianchi.
“Me l’ha regalato ieri mamma”, dissi.
Cristèna scosse la testa.
“Te da sugné men, Ninni”, disse.
“Dove l’avete nascosto?”, insistetti.
Cristèna mi guardò.
Non era molto alta, ma a me sembrava un gigante.
A volte la consideravo il mio carceriere, specialmente la mattina, quando mi buttava giù dal letto per mandarmi a scuola, o quando mi teneva fermo per le spalle davanti al lavandino per quella specie di tortura che era lavarsi le mani.
Indossava un grembiale da cucina di stoffa pesante che le circumnavigava perfettamente la pancia, come se glielo avessero fuso addosso. Ebbi la netta sensazione che non ci avrei tirato fuori niente, da lei.
Era impenetrabile.
Specialmente con quel grembiale di ghisa.
Soffiai fuori tutta l’aria che avevo in corpo, e tornai in camera strascicando i piedi per terra. Portavo i calzettoni di lana, e per un attimo mi sembrò di lasciare dietro di me una coda di scintille, come una stella cometa. Avevo talmente tanta lana addosso, la notte, che la mattina mi svegliavo con tutti i peli del corpo dritti. Probabile che non ci fosse mai buio, nella mia camera, visto tutta l’energia elettrica che producevo.
Controllai un’altra volta.
Sotto il letto niente.
Provai sotto la scrivania, dove tenevo due fustini di detersivo stracolmi di vecchi pezzi dei Lego. Ma della scatola nuova non c’era neanche l’ombra.
Cercai di ragionare. Non era tanto facile nascondere un camion.
Ispezionai tutti i cassetti di tutti i comodini, ma l’unica cosa interessante che ne saltò fuori era un braccio di un vecchio Big Jim. La guarnizione bianca che lo avrebbe dovuto tenere attaccato alla spalla sembrava veramente un osso umano.
Da un certo punto di vista, la mia camera era sempre stata un luogo di stragi, e non solo di furti clamorosi come questo di Natale. Ne conservava le tracce, come una scena del crimine. Teste, piedi e braccia smembrate ovunque.
Per non parlare di automobili distrutte, donne dei Playmobil scomparse e, addirittura, un Furia cavallo del West azzoppato, con una beffarda figurina di Schachner attaccata sul dorso a mo’ di sella.
C’erano abbastanza indizi, in quella camera, da tenere occupato un investigatore per anni e anni. In ogni caso, niente camion.
Tornai in cucina.
Sopra la credenza, l’albero di Natale pigmeo lampeggiava che era una meraviglia. Stava un po’ piegato da una parte, perché avevo voluto per forza metterci sopra una stella troppo grande, ma l’albero sopportava quel carico con una perfetta indifferenza e una dignità da generale pluridecorato.
Il presepe, invece, era sopra al finto tavolino di fianco alla televisione. In realtà era un mobile che nascondeva nelle sue profondità l’antica macchina da cucire della Fosca poveretta, la sorella di Cristèna morta nel ’37.
Risalii con lo sguardo il corso del torrente di carta stagnola, come se il camion potesse esserci affondato dentro.
Niente.
E nemmeno i pastorelli, le contadine, i legionari romani e i due soldatini verdi sdraiati di nascosto dietro una palma, con le mitragliatrici spianate, avevano l’aria di chi avesse visto un camion piombare lì all’improvviso.
Per non parlare di Giuseppe e Maria, che erano talmente felici di aver avuto un bambino che non gli staccavano gli occhi di dosso. La Santa Vergine, poi, era talmente su di giri che era finita in ginocchio.
L’asino e il bue, e il cavallo dei Playmobil che gli avevo messo vicino per fargli compagnia, avevano un’aria così addormentata che non si sarebbero accorti nemmeno di un’esplosione nucleare, figurarsi di un camion dei Lego.
Quanto ai Re Magi, beh, loro erano semplicemente troppo lontani, visto che stavano attraversando, faticosamente, il deserto sullo schienale del divano.
In ogni caso, controllai tutti i cassetti della cucina.
Cristèna mi sbirciava con la coda dell’occhio, e io non capivo se era divertita o preoccupata.
“Guêrda che te ne trov mia”, mi informò.
Stava infornando una teglia. Dentro c’era un coniglio. Probabile che fosse morto sepolto dalla frana di patate al forno che lo circondavano.
“Lo avete nascosto proprio bene, eh?”, dissi fra i denti.
“U ngn è propri, Ninni”, rispose lei: “T’en pó truvê quel c u ngn é”, aggiunse.
“Me lo ha dato ieri in mano. Sono sicuro. Era una scatola così!”.
Ero disperato.
Mimai addirittura i confini della confezione, profondità compresa. Poi mi venne un sospetto, guardando l’espressione sul volto di mia nonna.
“Te pensi che sono matto”, dissi, socchiudendo gli occhi.
Lei sorrise, pulendosi le mani sul grembiale. Era incredibile vedere quella stoffa di ghisa piegarsi. Non l’...