IV. Dal lento recupero di fuorusciti dalla FSSPX agli sforzi ricorrenti per una ricomposizione dello scisma
1. Il «motu proprio» «Ecclesia Dei adflicta» e le sue conseguenze
Dopo aver espresso tutta la propria afflizione («maestitia») per l’«l’illegittima ordinazione episcopale conferita lo scorso 30 giugno dall’arcivescovo Lefebvre» (un’afflizione tanto più «sentita dal successore di Pietro, al quale spetta per primo la custodia dell’unità della Chiesa»), la «lettera apostolica» Ecclesia Dei adflicta proponeva di trarre una lezione generale da ciò che era avvenuto. «Le particolari circostanze, oggettive e soggettive, nelle quali l’atto dell’arcivescovo Lefebvre è stato compiuto», osservava infatti Giovanni Paolo II, devono costituire «l’occasione per una profonda riflessione e per un rinnovato impegno di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa». Non era una considerazione priva di seguito. Nel suo articolato svolgimento la lettera infatti intendeva con tutta chiarezza toccare i temi principali che di tale riflessione avrebbero dovuto essere l’oggetto. Riguardavano Lefebvre e i suoi seguaci, ma riguardavano anche un pubblico più vasto, di coloro in particolare che si schieravano, per dir così, sul versante opposto del vescovo ribelle.
In primo luogo dunque vi era l’atto scismatico compiuto da Lefebvre sul quale Giovanni Paolo II richiamava l’attenzione. Esso si qualificava come «un rifiuto pratico del primato romano» e aveva la sua radice «in una incompleta e contraddittoria nozione di tradizione»: incompleta, «perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione» (e qui Giovanni Paolo citava un ampio passo della Dei verbum), ma «soprattutto contraddittoria», perché «si oppone al Magistero universale della Chiesa, di cui è detentore il vescovo di Roma e il corpo dei vescovi». Era però la contraddizione insita nella disobbedienza al papa che veniva rilevata con particolare enfasi: «Non si può rimanere fedeli alla tradizione rompendo il legame ecclesiale con colui al quale Cristo stesso, nella persona dell’apostolo Pietro, ha affidato il ministero dell’unità della sua Chiesa». Sarà un leitmotiv nei documenti vaticani riguardanti la variegata schiera di quanti rivendicavano la loro fedeltà alla tradizione.
La questione del mancato riconoscimento (e del conseguente venir meno del pieno rispetto) dell’autorità primaziale del papa si configurava così, nell’ottica romana, come l’elemento centrale della rottura consumata da Lefebvre. Non era un aspetto nuovo nello scontro che aveva opposto Roma a Lefebvre. Ribadito nelle nuove circostanze implicava che la coerente accettazione e riaffermazione di quella autorità diveniva il passaggio preliminare ed essenziale di ogni prospettiva di riconciliazione, relegando in qualche modo al margine i corposi contenuti dottrinali che delle accuse e della ribellione di Lefebvre erano stati e continuavano ad essere la ragione specifica. Si manifestava così ancora una volta il profondo divario che, nella considerazione dei fatti e dei problemi sul tappeto, divideva Roma dalla Fraternità: ciò che per quest’ultima era essenziale (ossia la denuncia dei presunti «errori» del Vaticano II e del magistero che ne era seguito), veniva per dir così riassorbito dai vertici romani nell’unica preliminare richiesta di riconoscere l’autorità del papa.
Si tratta di una sorta di sfasatura già implicita nel Protocollo di accordo firmato il 5 maggio 1988. Con la Dichiarazione dottrinale infatti Lefebvre, oltre a promettere fedeltà alla Chiesa cattolica e al pontefice romano, dichiarava nello stesso tempo di accettare «la dottrina contenuta nel nr. 25 della costituzione dogmatica Lumen gentium», che all’autorità del papa e all’assenso che essa richiede dedica uno spazio tutto particolare, mentre rispetto ad alcuni punti del concilio Vaticano II, che sembrano poco conciliabili con la tradizione, egli si limitava ad assicurare «un atteggiamento positivo di studio e di comunicazione con la sede apostolica, evitando ogni polemica». Erano comunque ammissioni – lo si è già ricordato – non ovvie. Se corrispondessero anche ad un giudizio nascosto per dir così nell’inconscio degli interlocutori romani di Lefebvre è difficile dire. Non sarebbe stata comunque la prima volta (come non sarà l’ultima) che gli allarmi e i giudizi dell’arcivescovo ribelle avrebbero trovato espressioni di non effimera condivisione tra autorevoli prelati della Santa Sede.
Dopo aver detto di Lefebvre, la lettera passava ad una considerazione più ampia, che riguardava l’atteggiamento cui erano invitati i «fedeli cattolici». Essi infatti devono rendersi «consapevoli [...] di alcuni aspetti che questa triste circostanza pone in particolare evidenza». Si trattava perciò di compiere in primo luogo «una sincera riflessione circa la propria fedeltà alla tradizione della Chiesa, autenticamente interpretata dal Magistero ecclesiastico, ordinario e straordinario, specialmente nei concili ecumenici, da Nicea al Vaticano II». Da tale riflessione doveva derivare l’impegno a «migliorare ancora tale fedeltà, rifiutando interpretazioni erronee e applicazioni arbitrarie e abusive, in materia dottrinale, liturgica e disciplinare». E Giovanni Paolo II ricordava come spettasse «soprattutto ai vescovi [...] il grave dovere di esercitare una chiaroveggente vigilanza piena di carità e di fortezza, affinché tale fedeltà sia salvaguardata ovunque».
Non sembra arbitrario individuare in tale misurato richiamo un riferimento agli «abusi», alle «forzature», alle «deviazioni», che tutti i «tradizionalisti» delle più diverse gradazioni avevano denunciato in atto nel post-concilio e che non poche voci autorevoli avevano riconosciuto come causa prima della reazione di Lefebvre. Che tale fosse l’intendimento del papa trova una conferma nel rinvio posto in nota all’esortazione apostolica di Paolo VI Quinque iam anni, dell’8 dicembre 1970, indirizzata ai propri confratelli vescovi al compiersi del quinto anniversario della chiusura del Vaticano II. Il pieno riconoscimento «all’onda abbondante di grazie» che il concilio aveva rappresentato, e al fervore di rinnovamento che in tutta la Chiesa ne caratterizzava l’attuazione, si accompagnava infatti alla preoccupata constatazione «che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale». E Paolo VI aveva ricordato al riguardo «i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti [...] l’indissolubilità del matrimonio e il rispetto della vita umana». Si arrivava al punto, aveva osservato il papa, «da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione». Da qui un forte richiamo ai vescovi perché intervenissero ad impedire che l’impegno e lo sforzo di rinnovamento suggerito dal concilio «non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede».
Sulla stessa linea di una riaffermazione di fedeltà alla tradizione della Chiesa, e confermando nello stesso tempo implicitamente come il concilio andasse letto in piena continuità con l’insegnamento precedente, si muove l’invito di Giovanni Paolo II ai teologi ad un «impegno di approfondimento [degli insegnamenti del concilio Vaticano II], nel quale si metta in luce la continuità del concilio con la tradizione, specialmente nei punti di dottrina che, forse per la loro novità, non sono stati ancora ben compresi da alcuni settori della Chiesa».
L’ultima parte della lettera era dedicata a «tutti coloro che finora sono stati in diversi modi legati al movimento dell’arcivescovo Lefebvre». L’appello loro rivolto era di «rimanere uniti al vicario di Cristo», abbandonando quel movimento. «Nessuno deve ignorare», ammoniva gravemente il papa, «che l’adesione formale allo scisma costituisce una grave offesa a Dio e comporta la scomunica stabilita dal diritto della Chiesa». Ma Giovanni Paolo II non si limitava ad ammonire. Prospettava infatti anche un atteggiamento di larga disponibilità e assumeva misure che dovevano facilitare la loro scelta. In primo luogo manifestava ai «fedeli cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche e disciplinari della tradizione latina» la propria volontà di «facilitare la loro comunione ecclesiale» con misure atte a «garantire il rispetto delle loro giuste aspirazioni». A tale volontà egli chiedeva si associassero i vescovi e tutti coloro «che svolgono nella chiesa il ministero pastorale».
Per dare corpo e concretezza a tale volontà Giovanni Paolo II istituiva una commissione (che sarà detta «Ecclesia Dei»), chiamata a collaborare con i vescovi e i dicasteri della curia, per facilitare la piena comunione ecclesiale di quanti intendevano abbandonare il movimento di Lefebvre per restare uniti al successore di Pietro, pur «conservando le loro tradizioni spirituali e liturgiche». Come base di tale unione veniva indicato il protocollo del 5 maggio precedente, firmato dal cardinale Ratzinger e da mons. Lefebvre. Con esplicito richiamo all’indulto stabilito dalla Quattuor abhinc annos del 3 ottobre 1984, Giovanni Paolo II ribadiva inoltre che «dovrà essere ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina, mediante un’ampia e generosa applicazione delle direttive» già emanate sull’uso del messale romano secondo l’edizione del 1962.
Ancora una volta dunque, a differenza di Paolo VI, Giovanni Paolo II si mostrava sostanzialmente insensibile al significato di contestazione anticonciliare che l’uso di tale messale aveva assunto nel discorso di Lefebvre e in genere nella vasta galassia tradizionalista che gli faceva corona. Nelle stesso tempo, scrivendo di «tradizioni spirituali e liturgiche» da conservare, rifiutava implicitamente l’idea che nei gruppi che avevano operato la scelta del messale di san Pio V vi fossero implicate non secondarie opzioni dottrinali e teologiche. Sarà un equivoco più o meno voluto che si riproporrà anche negli anni seguenti, nei rapporti tra gruppi di lefebvriani riconciliati e la commissione Ecclesia Dei. Corrispondeva alla renitenza romana di registrare in tutta la loro portata le motivazioni che avevano spinto preti e laici a seguire Lefebvre.
La lettera si chiudeva, a sancire per dir così la sua intenzione profonda, con l’esortazione rivolta a tutti «a unirsi alla preghiera incessante che il vicario di Cristo, per l’intercessione della Madre della Chiesa, rivolge al Padre con le stesse parole del Figlio: Che siano uno!».
L’appello rivolto ai seguaci e ai simpatizzanti della Fraternità non restò privo di risposta. Voci importanti dell’arcipelago definibile come integrista presero esplicita posizione contro la scelta scismatica di Lefebvre. Un tema era largamente comune: «la fedeltà alla Tradizione è inseparabile dalla fedeltà al Sovrano Pontefice», come scrisse in un comunicato la responsabile del gruppo Nouvel élan marial. Era ciò che Roma aveva sempre sostenuto. Di fronte alla via apparentemente senza ritorno scelta da Lefebvre diventa per molti l’argomento decisivo. Anche Jean Madiran, l’inesorabile fustigatore di ogni «progressismo», sempre a caccia di mode...