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Diritto vivente
Informazioni su questo libro
Bio-diritto e bio-politica sono formule ormai diffuse nel dibattito pubblico. Si parla correntemente di danno biologico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, dignità della vita, living will (o testamento biologico) e integrità del corpo, mentre nelle grandi Carte e nelle Costituzioni hanno fatto irruzione, già da tempo, dimensioni non sempre immateriali dell'esistenza, come la felicità , la vita delle generazioni future, la fraternità .
Eligio Resta insegue le tracce della difficile 'incorporazione' della vita nel diritto attraverso la rilettura dell'antica formula del «diritto vivente» e del suo lessico, nel duplice significato del riguardare la vita rappresentandola e di essere per se stessa vita.
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Informazioni
Argomento
DirittoCategoria
Storia giuridica1. Vita
Quando la formula «diritto vivente» compare nella cultura europea degli inizi del secolo scorso, essa può già vantare una lunga storia. Affonda le sue radici in quelle riflessioni sull’etico-politico che il grande pensiero filosofico greco aveva suggerito. L’idea della sovranità della legge aveva, fin dai suoi esordi, tessuto un filo solido con la dimensione della «vita», nel doppio senso del riguardare la vita rappresentandola e di essere per se stessa vita.
Gioco singolare quello del diritto e della vita: fatto di avvicinamenti e allontanamenti, di rappresentazioni e di condensazioni, di puri riferimenti e di incorporazioni. Proprio questo, vedremo, è uno dei termini che quella filosofia comincerà a praticare fin dalle sue origini. L’idea del nomos basilèus si presenta come nomos, prima che basilèus, dotato di anima (èmpsychos), capace di agire, di aver vita: è solo per paradosso, poi, che l’idea dell’anima venga indicata col meccanismo dell’incorporazione; ma questo ha a che fare, come vedremo, con le pieghe sottili delle dinamiche dei «corpi». Le pagine che seguono costituiscono un tentativo di rileggere la formula «diritto vivente». Vi sono infatti molti strati di senso che emergono quando la guardiamo più da vicino. Credo che si tratti di una sonda potente ed efficace per vedere quello che accade all’interno dei nostri sistemi giuridici, a patto però che non se ne faccia un uso puramente evocativo. Traccerò alcune linee di lettura del diritto vivente interrogandomi su che cosa sia «vivente» nel diritto vivente, suggerendo di ripercorrere alcuni percorsi, brevi e ovviamente incompleti, del lessico che ad esso si accompagna.
1. La vita del diritto
A efficacia differita, la formula «diritto vivente» ha cominciato a riscuotere un certo successo. Si è dovuto attendere più di qualche decennio perché se ne riparlasse e ciò, forse, è dovuto al fatto che si è aspettato di consumare il dibattito, vero, ma datato, tra formalisti e antiformalisti: dibattito vero ma non l’unico. Si tratta di una delle tante discussioni che la cultura giuridica ha coltivato con caparbio accanimento lavorando intorno alle numerose dicotomie con le quali il diritto si era presentato. Ed è noto che le dicotomie spesso hanno attraversato le questioni scientifiche semplificando in schieramenti binari una enorme complessità analitica.
Il diritto non solo non è rimasto immune, ma ha dato il suo significativo contributo ai giochi ermeneutici binari; si pensi alla contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo, giusnaturalismo e positivismo, diritto e giustizia, legge e interpretazione, imperativismo e diritto libero, diritto legislativo e giurisprudenziale, creazione e scoperta della norma, fatto e valore. Anzi, prima o poi, bisognerebbe stilare un accurato elenco delle strutture dicotomiche che riposano sotto la superficie dei dibattiti per comprendere alcuni aspetti significativi del linguaggio giuridico.
Il sospetto è che, dietro l’apparente lavoro ermeneutico, la forma dicotomica lavori attraverso i noti processi di identità e differenza che nelle pratiche sociali caratterizzano la «vita» dei sistemi. Ma si tratta soltanto di un’ipotesi buttata là , suggerita da questa discussione, e che dovrà essere ripresa con ben altri approfondimenti.
Ora, superate le secche del dibattito tra formalisti e antiformalisti, che ha segnato la semantica influente della cultura giuridica nella prima metà del secolo scorso, il «diritto vivente» è tornato a essere una categoria presente e significativa. Forse il successo può essere imputato alla formulazione «calda» del suo lessico. La vita del diritto vivente ci accosta a un «corpo» attraversato più da passioni calde che non racchiuso dentro contenitori freddi. Il linguaggio, del resto, non è mai per caso e l’uso della formula «corpo del diritto» è denso di significati che si sono sempre riproposti fin dall’esperienza del mondo antico, dove la grande codificazione si racchiudeva in un corpus iuris.
Chi volesse scavare nel gioco metaforico del corpo dovrebbe ripartire dalle note pagine vichiane della Scienza nuova, opportunamente riprese dal bel libro di Alan Hyde, Bodies of Law (1997, p. 3). Il corpo vivente del diritto rimane immagine metaforica linguisticamente più attraente della sua riduzione metonimica, in cui il corpo è soltanto contenitore. Così almeno lo intende il versante formalistico, che porta alle estreme conseguenze la deriva positivistica instaurata dal moderno. Paradossalmente, si potrebbe aggiungere, il diritto vivente si avvicina più a quell’idea di corpus che l’esperienza delle grandi codificazioni antiche considerava sì contenitore, ma animato dalle tante forze della tradizione, che non al corpo del diritto positivo che la tradizione continentale moderna ha consegnato ai suoi «ordinamenti».
La fortuna della formula, dunque, va cercata, per il tempo in cui si è proposta, nella reazione al formalismo da una parte e all’imperativismo riemergente dall’altra. Ma questo non spiega ancora la fortuna attuale, che è tutta da cercare nel luogo e nel tempo in cui la semantica si è liberata dalle secche della dicotomia formalismo/antiformalismo. Ha ragione infatti Paolo Grossi quando pone l’accento su quella silenziosa trasformazione che conduce dal primato della legge al primato della prassi (Grossi 2006), allargando l’orizzonte ristretto del diritto prodotto esclusivamente dallo Stato. Il «diritto vivente», che guarda «alla vita della norma nel tempo e nello spazio», è il risultato di una serie di processi grazie ai quali si passa dalla mera esegesi all’ermeneutica del testo, in cui interpretazione e applicazione hanno un ruolo determinante. In tali processi contano molte cose, che vanno dall’idea di Costituzione materiale all’organizzazione concreta dei ceti professionali, alla cultura giuridica, ai mutamenti esterni (esogeni) che i sistemi sociali ed economici impongono. Tutti contribuiscono a smantellare il modello imperativistico e a fornire una dimensione applicativa molto forte. La «prassi» è allora termine più vicino alla tradizione, appunto, della filosofia della prassi, che è anche, come è noto, un progetto ermeneutico.
Su questo cercheremo di avanzare alcune ipotesi.
2. «Dìkaion èmpsychon»
Prima che si identificasse definitivamente dìkaion con ius, la tradizione aristotelica parlava di un’idea del giusto, consegnata alle leggi, come èmpsychon (Etica nicomachea, 1132, 20). La psychè del diritto va intesa letteralmente come anima (di un corpo) e «anima», da Platone a Seneca, indicherà quel mondo che vive di autonomia rispetto alla sua determinazione «materiale» e contingente. La si può pensare come qualcosa che conserva una dimensione di universalismo contro la contingenza di un corpo, con tutte le composizioni e sfaccettature diverse che universalismo e particolarismo possono suggerirci. Sarà ad esempio la tradizione epicurea che metterà in forma l’idea dell’incorporazione dell’anima sotto quella veste nuova e inusitata di un doppio codice, di una compresenza: la nota lirica di Adriano ci racconta di un’animula che è hospes comesque corporis. L’anima che è ospite e, nello stesso tempo, compagna del corpo, contenuta nel corpo, esterna e interna tanto da essere sua compagna, anticipa tutta la grande tradizione moderna del body/mind problem, che, come è noto, ha scandito tutte le tappe della soggettività moderna e che oggi fa da sfondo ai grandi temi della bioetica.
Possiamo così affermare che la tradizione aristotelica ha messo in forma l’idea della legge sovrana dopo una lunga e possente riflessione che si è snodata attraverso una complessa e ricca epoca di pensiero filosofico che, non a caso, ha posto al centro della sua riflessione i temi del nomos, della sovranità e della polis. Questo dimostra il carattere rilevante della semantica che intorno alla legge e alla sua «vita» si è andata condensando. Anzi, proprio questa semantica meriterebbe di esser sottolineata più approfonditamente, perché, come è stato indicato da pregevoli studi filologici, l’aver collocato la legge dentro il gioco di psychè e di soma, anima e corpo, ha consentito di declinare il diritto e la giustizia nella dimensione del «vivente».
Da questo nasce qualche conseguenza di un certo significato: nelle pieghe del rapporto nuovo che si viene a creare tra la legge e la sovranità si instaura una dimensione della «vita» che rende sensibile e, appunto, corposo il discorso giuridico. Si tratta di qualcosa in più di una curvatura metaforica, che Vico più tardi coglierà e metterà in forma; si avvicina piuttosto a un’idea della vita collettiva che oscilla tra poli che possiamo definire complici e rivali. Da una parte gli uomini con il loro multiversum, il relativismo delle opinioni, la loro esposizione al «tempo» e alle necessità , dall’altra la perennità di un logos che a tutto quello si oppone, fa da modello, ma è anche pronto a diventare elemento di una dialettica. I nomi del logos cambieranno, diventeranno di volta in volta natura, legge non scritta, recta ratio, ma staranno lì sempre a ribadire una contesa che affermerà complicità e rivalità nello stesso momento. Che tutto ciò avesse già una consapevolezza filosofica era dimostrato dal pensiero eracliteo, che affermava il carattere di «contesa» (erin) della giustizia (dike), contesa pronta a trasfigurarsi in pòlemos: mà chesthai chre ton demon hypèr tou nomou okos hypèr teicheos, «occorre combattere per i nomoi come per le mura della città » (fr. 44 D.-K.). Naturalmente in questo vi è molto di più della moderna «lotta per il diritto», come vi è molta più «vita» di quanto non vi sia nella formula recente del «diritto vivente». La vita del diritto era consegnata a un’incorporazione che, concretamente, non poteva rinunciare né alla pretesa di «immortalità » dell’anima, né alla «mortalità » del corpo (caducità ?, come in Freud), ma che, nello stesso momento, dava il senso di una portentosa arte combinatoria. E nel lessico platonico la coppia mortale/immortale è capace di racchiudere tutte le dimensioni che la semantica storica ha potuto suggerire, attraverso tutte le dicotomie del pensiero giuridico-politico.
Quando la giustizia e la legge, con le loro contrapposizioni, i loro richiami, le loro contese, vengono tradotti nel gioco della «vita», ci portano dentro l’idea della tensione che la «contesa» eraclitea è stata capace di condensare in una formula. Il vivente della legge è tutto iscritto nel «campo» di quella dinamica mai pacificata, ma mai dimenticata, di anima e corpo; possiamo chiamarla contesa tra natura e positività , assolutezza e contingenza, immortalità e mortalità , ordinamento valido da sempre e legge della città , giustizia degli dei e giustizia del tiranno: le formule non mancano – e tutte confermeranno la necessità dell’èmpsychos del nomos, anche, se non soprattutto, quando esso venga puntualmente negato e tradito. Il vivente, dunque, rimanda a quel gioco della vita in cui «corpo» e «anima» saranno non soltanto rappresentazioni, come anche il discorso platonico non sembra escludere, ma luoghi in cui si «incarna» il diritto con tutte le sue complessità e le sue contraddizioni.
Si può ridurre tutto il diritto a quel «corpo» mortale che esclude ogni relazione con la sua «anima», come il discorso del moderno a volte sembra indicarci? Ogni risposta è possibile, ma va restituita consapevolmente alla complessità di quella formula con cui il pensiero greco ce l’aveva consegnata quando aveva costruito quella alternativa e l’aveva sottoposta all’infinito «intrattenimento», avrebbe detto Maurice Blanchot, della sua scomposizione e ricomposizione.
Il punto di partenza è ovviamente costituito da una fondamentale opposizione tra un’idea di sovranità della legge e il carattere umano degli affari della politica. A rappresentarcelo è il modello pindarico da una parte e quello sofistico di Protagora dall’altra. È da quel punto che si snoda un lungo dibattito che, sorto intorno alla costituzione della legge della città , non smette ancora di parlarci e di porci di fronte ai suoi interrogativi. I due punti di riferimento, alle origini di quel pensiero giuridico-politico, erano costituiti dall’idea del governo delle leggi da una parte e da quella del governo degli uomini dall’altra; o almeno così sono stati sintetizzati nel dibattito moderno attraverso le più diverse formule tanto nella tradizione di civil law come in quella di common law. Si può dire che la doppia natura dell’anima e del suo corpo (interna/esterna, determinante/determinata, cogitans/cogitata, causans/causata ecc.) è riversata interamente nell’idea di dìkaion e di ius; ma si può nello stesso tempo affermare che la doppia natura di diritto e di giustizia è intimamente compresa nel gioco del «vivente» definito da anima e corpo. Il continuo rimando dall’una all’altra coppia, che la formula «diritto vivente» custodisce, è il problema influente che ha sempre accompagnato il pensiero giuridico e ne ha fornito, nello stesso tempo, la chiave di lettura.
Il tema, all’origine, si presentava come interferenza tra i due grandi campi semantici che, tuttora, animano la questione del diritto e della politica. Essi indicavano il nomos, da una parte, e il basilèus, dall’altra, quando ancora i campi e le sfere del diritto e della politica non si erano incamminati verso la differenziazione moderna: pur non realizzandosi in questa forma, le tracce del problema si trovano già delineate tanto nella filosofia platonica quanto nella tragedia di Sofocle. Socrate perseguito dagli arconti della città e Antigone, che oppone gli à grapta nòmima (le leggi non scritte) agli editti di Creonte, ci possono suggerire la rilevanza del tema che, però, è ancora alla ricerca della sua definizione. È intorno a questo vasto campo semantico che la filosofia fondava la sua riflessione. Così, prima che l’idea della repubblica e delle leggi trovasse forma in Platone e Aristotele, la questione era già posta nella sua interezza dal dibattito sofistico, che aveva cominciato a erodere e a porre in discussione il carattere «giusnaturalistico» della legge e della sovranità .
Non è sfuggito alla letteratura (Gigante 1993, Ramelli 2006) che il discorso platonico, soprattutto, può essere interpretato come ricomposizione di queste due antitetiche letture che si erano coagulate intorno al dibattito sulla città : quella sofistica di Protagora e quella «giusnaturalistica» (o razionalistica) di Pindaro. Ma si sa che ogni formula è un po’ semplicistica e troppo riduttiva.
Quando Protagora, scrittore di Antilogie, consegna il nomos al relativismo dell’uomo e lo sottomette esclusivamente alla sua «misura», la città viene letta come il luogo di una variabilità decisionale del politico che, una volta fatto ingresso sulla scena pubblica, continuerà a porsi come una possibile alternativa della dimensione del diritto e della politica. Sottratto alla «purezza» (il termine tornerà ) della sua autonomia, il nomos si riduce a scelta tutta contingente in cui, come è noto, è l’uomo la «misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono e delle cose che non sono in quanto non sono» (80 A 1 D.-K.). Nella testimonianza di Sesto Empirico (Adversus mathematicos, VII, 60) Protagora appartiene infatti alla schiera di filosofi che eliminano il criterio veritativo del giudizio e annunciano la verità relativistica di ogni opinione. Ritornerà sotto tante forme, a cominciare dall’argomento di Trasimaco nella Repubblica platonica, ed è evidente che, da quel momento in poi, costituirà , sia pure polemicamente, un punto di vista influente nel dibattito filosofico.
Il modello che la sofistica introduce è ovviamente un sensore potente del passaggio che si attraversa nella città , ma si emancipa presto dalla vita contingente della sua epoca per diventare uno dei poli della discussione che l’etico-politico non smetterà mai di alimentare; anche oggi. La dissipazione connessa al relativismo per cui l’uomo è la misura di tutte le cose travolge il nomos nell’idea della contingenza, dell’instabilità , della forza che ritroveremo nelle formule più disparate, da allora in poi.
Doveva essere un nervo scoperto nel panorama pubblico della città e della sua riflessione filosofica se, proprio contro questa erosione sofistica dell’universalità della legge, riemerge e trova nuova linfa il modello pindarico che, all’opposto, aveva fondato ogni idea di sovranità sul nomos. Il nomos ho panton basilèus (fr. 169 Snell) sottrae la legge alla disponibilità dell’uomo e la restituisce a quell’universalismo che indica primato e sovranità «delle cose mortali e immortali». La sottrae al tempo e alla contingenza assegnandole il senso di misura universale; diversamente, e in senso diametralmente op...
Indice dei contenuti
- Introduzione
- 1. Vita
- 2. Corpo
- 3. Tecnica
- 4. Archivio
- 5. VeritÃ
- 6. Processo
- 7. Tempo
- Riferimenti bibliografici