1. Identificazione dell’imputato
Si fa presto a dire processo alla finanza. Ma processo a chi, o a che cosa, esattamente?
Se proprio vogliamo portare alla sbarra delle persone fisiche, come è nella tradizione del diritto penale, dobbiamo pensare ad almeno tre categorie distinte di potenziali imputati.
La prima categoria è composta dai soggetti professionali privati che operano in campo finanziario: banchieri, gestori di fondi di investimento o di fondi pensione o di fondi sovrani, gestori di hedge funds, amministratori di agenzie di rating. Sono soggetti (la cui natura e attività vedremo meglio più avanti) spesso globalizzati, quindi privi di una precisa identità nazionale, anche se i maggiori fra loro appartengono al mondo anglosassone. Possiamo sospettare che essi abbiano consentito, all’interno delle loro aziende, la messa in atto di comportamenti scorretti, in qualche caso criminali, avallandoli o facendosene attori diretti, magari restando formalmente obbedienti alle regole, ma tendendo a eluderle.
Una seconda categoria è composta da coloro che hanno responsabilità amministrative di regolazione e supervisione degli intermediari e dei mercati finanziari. Soprattutto nel mondo angloamericano e negli ultimi due decenni, possiamo sospettare che costoro, presenti nelle banche centrali e nelle autorità di vigilanza, abbiano chiuso un occhio (o entrambi) sulle malefatte degli appartenenti alla prima categoria. O perché fuorviati da una dottrina sbagliata, o perché insipienti, o perché complici. Sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito la Grande Crisi ha in effetti suscitato autocritiche da parte delle autorità di regolazione-supervisione: ad esempio, Janet Yellen, attuale vicepresidente del Sistema della Riserva federale, la banca centrale americana, ammetteva già nella primavera del 2009 che il sistema di supervisione finanziaria negli usa era diseguale e frammentato, afflitto da lacune regolamentari che consentivano agli operatori privati libere scorrerie facilmente elusive delle regole esistenti.
Ma poiché gli enti in questione, per quanto autonomi, si muovono pur sempre all’interno di un quadro legislativo che a loro è fornito dalle istituzioni politiche, ecco la terza categoria, formata appunto da coloro che hanno responsabilità politiche: esponenti dei parlamenti e dei governi, dirigenti delle principali formazioni politiche. In quello stesso intervento Yellen si diceva (un po’ maliziosamente) «rinfrancata» dall’acquisita consapevolezza, da parte dei politici americani e del Congresso, della necessità di riformare radicalmente il sistema di regolazione e supervisione della finanza.
Tuttavia, per quanto le persone fisiche siano gli attori decisivi, l’impressione generale che si ricava dai mezzi di comunicazione è che la gente ce l’abbia proprio con la finanza in quanto sistema, in quanto abito mentale, in quanto schema concettuale e di comportamento. Ne discende un interrogativo ovvio, ma meno banale di quel che può apparire: che cosa dobbiamo intendere per finanza?
Un grande studioso contemporaneo di finanza, Robert J. Shiller dell’Università di Yale, è fra coloro che hanno più di recente riflettuto sulla natura profonda della finanza. Shiller non è certo sospettabile di oltranzismo filo-Wall Street: prima della crisi era fra i pochi economisti a non lesinare critiche e allarmi, in anni di finanza facile e riverita da tutti, anni in cui si andavano gonfiando, negli Stati Uniti e altrove, quegli eccessi, quelle bolle, la cui deflagrazione ha poi prodotto i guai da cui il mondo ancora non riesce a uscire, che hanno fatto germinare le rivolte, i rancori anti-finanza che oggi osserviamo e viviamo.
Nel suo libro Shiller muove da un ideale umanistico, mette al centro della sua analisi i modi in cui sia i singoli esseri umani sia le società in cui essi si aggregano possono tendere a uno «star meglio tutti insieme», ad accrescere il benessere nell’armonia e nella giustizia. Si chiede poi se quella particolare tecnica che viene detta finanza possa essere usata in accordo con quell’ideale; anzi, al suo servizio. Risponde affermativamente; con pragmatismo squisitamente americano si diffonde a spiegarlo passando in rassegna tutti i vari mestieri connessi con la finanza (amministratore delegato di una banca, trader, assicuratore, lobbysta, regolatore e così via), esaminandone ruoli, responsabilità, incentivi, ricercando i modi per volgere al bene comune il loro lavoro. Non risparmia, a se stesso e al lettore, l’analisi puntigliosa di tutti i danni che la finanza può, in talune circostanze, causare, per la degenerazione degli impulsi che sottostanno all’agire umano. Ma conclude che un sistema finanziario democratico è proprio ciò che occorre per ridurre l’incertezza e la casualità nelle nostre vite e consentirci di promuovere i migliori valori umani.
Shiller esordisce con il delineare e indagare il concetto stesso di finanza. La finanza – scrive – è, al livello più generale, «scienza dell’architettura dei fini»: come disegnare le misure economiche necessarie a raggiungere un insieme di finalità (di famiglie, imprese, governi) e amministrare i cespiti a ciò occorrenti.
Questa definizione a me pare troppo ingegneristica. Provo dunque a proporne un’altra, che ho già avanzato in un mio libro precedente.
Alla radice dell’idea di finanza c’è il poter traslare nel tempo e nello spazio la «possibilità/capacità di procurarsi cose utili nell’immediato». Qualunque contratto sancisca una traslazione di questo tipo è «finanza»: l’etimo di finanza è la parola latina finis, nel senso di fine, conclusione nel tempo di una prestazione.
Si tratta di un ambito molto ampio. Nei suoi confini albergano tre concetti lievemente meno generali, ma ancora dallo spettro larghissimo, come la moneta, il credito, l’assicurazione. Sul piano logico, sorge subito l’interrogativo: vi è una sequenzialità fra i tre concetti, di modo che da uno discenda l’altro? Sul piano storico, l’interrogativo diviene: vi è un ordine cronologico di nascita e diffusione nella vita pratica degli esseri umani, che metta in fila le tre modalità? Se assimiliamo in prima approssimazione i contratti assicurativi al credito (per ragioni che vedremo più avanti), il duplice interrogativo si riduce a un classico dilemma del tipo «è nato prima l’uovo o la gallina?». Vediamo perché, esaminando i tre concetti uno alla volta, iniziando dal credito.
Che vuol dire far credito? Un esempio ci aiuta a comprenderlo. Supponiamo che un bel giorno la mente di un certo uomo preistorico A s’illumini, di modo che egli concepisca il seguente ragionamento: poiché dispone quel giorno di un sovrappiù di cibo rispetto allo stretto indispensabile a soddisfare la fame che ha (è stato particolarmente fortunato nella caccia), A pensa di cedere quel sovrappiù al suo vicino di caverna B, che ne ha un bisogno impellente (ha molta fame ed è stato invece sfortunato nella caccia). A si fa promettere da B la restituzione di quel cibo dopo un certo tempo, ma con una maggiorazione che ne premi la rinuncia alla golosità. In questo modo A fa il proprio interesse, perché si mette in condizione di poter soddisfare bisogni/desideri futuri, forse ancora a lui stesso ignoti, senza sacrificare il consumo necessario presente. Fa anche l’interesse collettivo, perché migliora il benessere del suo vicino e dunque, nell’esempio, il benessere aggregato della comunità.
Se A è particolarmente malfidato, costringerà B a cedergli come ostaggio un figlio finché la restituzione non sia avvenuta (si deve a Shiller e al suo già citato libro l’illuminante similitudine fra l’antica pratica degli ostaggi e quella moderna della richiesta di beni a garanzia – collateral – di cui il prestatore si può appropriare se il debitore non è in grado di restituire il finanziamento ricevuto).
Una riflessione incidentale a cui siamo indotti da questo semplice esempio di credito riguarda la tradizionale diffidenza che in ogni tempo e cultura è stata riservata sul piano morale a coloro che fanno credito, a dispetto del vantaggio sociale che se ne deriva. Il cavernicolo A è comunque sospettabile di condotta immorale, qualunque sia lo stato in cui si trova B: se B è solo un pigro, che non si è abbastanza impegnato nella caccia quel giorno, l’antipatico A lo sta assecondando in questa sua condotta sventata per trarne un profitto personale; se B ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità ma si trova in stato di bisogno per pura sfortuna, ancora peggio: A sta approfittando bassamente della malasorte di B per arricchirsi alle sue spalle. È da valutazioni di questo tipo che nasce probabilmente l’ostilità, il disprezzo, in alcuni casi il divieto, diffusi lungo tutta la storia dell’umanità e delle religioni, nei confronti del mero atto di esigere un interesse su una somma prestata.
Che vuol dire assicurarsi? Il concetto di assicurazione scaturisce da quello di rischio. Il primo uomo a divenire consapevole del fatto che il futuro potesse riservare eventi avversi (un terremoto, la perdita degli utensili di lavoro, una carestia) fu probabilmente anche il primo a cercare di evitare almeno in parte quei rischi, ricercando compensazioni per il caso che gli eventi temuti si avverassero. La storiografia antica ci mostra contratti assicurativi anche sofisticati stipulati fin dal terzo millennio avanti Cristo, in Cina, a Babilonia, presso gli Achemenidi.
Assicurarsi (assicurare) assomiglia al fare credito (contrarre un debito): se voglio assicurarmi contro il rischio di un danno, o far sì che alla mia morte un mio congiunto possa essere aiutato a sopravvivere ricevendo una somma, trasferisco delle sostanze a una controparte che s’impegna a restituirle, accresciute, al verificarsi dell’evento avverso; la natura della transazione non è molto diversa da quella del contratto di credito stipulato dai due cavernicoli dell’esempio precedente. I contratti assicurativi fanno esplicitamente leva sulla nozione di «avversione al rischio». Questa è una caratteristica personale di ciascun essere umano, studiata anche dalla neuroeconomia: ognuno di noi, posto di fronte alla scelta fra un comportamento A che produce un esito certo con un guadagno di 10 e un comportamento B che produce un esito incerto con un guadagno fra zero (se va male) e 20 (se va bene), seguirà un istinto che lo porterà verso A o verso B a seconda del grado di avversione al (o di amore per il) rischio che lo caratterizza. Le compagnie di assicurazione annoverano fra i loro clienti migliori le persone più avverse al rischio.
Chiediamoci infine che cosa sia la moneta. Moneta è il termine che gli economisti usano per designare quello che la gente comune chiama denaro, soldi. Il denaro – sostiene la corrente dominante di pensiero fra gli storici dell’economia – è una tecnica che gli umani hanno inventato per superare le inefficienze del baratto, primitiva forma di scambio contestuale.
Che il baratto sia inefficiente non c’è bisogno di spiegarlo, è implicito nel fatto che si tratta di un rapporto bilaterale: se i beni disponibili e desiderabili sono più di due, perché io possa soddisfare un mio specifico bisogno/desiderio dovrò probabilmente dar vita a una lunga concatenazione di baratti prima di potermi finalmente procurare il bene che voglio, disponendo di un dato contraccambio che non è necessariamente ricercato da tutti. Lo scambio cessa di essere simultaneo, occorrerà tempo per completare la sequenza. Fa capolino la variabile temporale, che distorce i comportamenti, perché tempo vuol dire incertezza.
Il denaro è un bene terzo, neutro, che tutti in linea di principio accettano in cambio dei propri beni, purché il rapporto di scambio (prezzo) sia ritenuto congruo. Se nella comunità è presente una tecnica di questo tipo, allorché io, disponendo di pere, desidero delle mele, dovrò assoggettarmi a due sole transazioni, una di vendita, contro denaro, delle mie pere a chiunque le voglia, una di acquisto di mele, contro denaro, da chiunque le detenga. Questa immensa semplificazione degli scambi libera energie e tempo per il procacciamento dei beni, accelerando lo sviluppo economico della comunità. Soprattutto, accorcia il tempo necessario allo scambio pere-mele, rendendolo di nuovo, rassicurantemente, simultaneo o quasi.
Val la pena di notare che una letteratura antropologica recente mette in discussione la centralità del baratto nelle società primitive, puntando piuttosto l’attenzione sulla funzione del dono come catalizzatore di reciproci obblighi/debiti morali. Ma la facilitazione che la tecnica monetaria apporta resta evidente anche sposando questo punto di vista.
Agli albori della storia economica si adoperarono come segni monetari, prevalentemente, oggetti dotati di un valore intrinseco immediatamente riconoscibile da tutti e anche comodi da trasportare, come ad esempio dei piccoli dischi di metallo prezioso (cioè bello e raro, come l’oro e l’argento). La tecnologia si è poi evoluta nel corso dei millenni, impetuosamente negli ultimi due secoli, portando alla nascita della moneta fiduciaria, cioè di un segno (ancora materiale come la banconota o l’assegno, o del tutto immateriale come una scrittura contabile originata da un impulso elettronico) che non ha valore in sé, ma a cui viene attribuito valore dalla fiducia collettiva, cristallizzata da appositi assetti istituzionali, al cui centro sono poste le banche centrali (su questa interpretazione del ruolo delle banche centrali, una lettura fondamentale è il libro postumo di Curzio Giannini, L’età delle banche centrali).
La moneta, il denaro, hanno acquisito nel tempo una carica simbolica fortissima, ben superiore a quella degli altri due elementi costitutivi della sfera finanziaria (il credito e l’assicurazione). Un filosofo come il tedesco Georg Simmel, poco più di un secolo fa, si è a lungo interrogato sulla natura dello scambio economico e sul ruolo che vi gioca il denaro, per poi passare a riflettere sul denaro in sé, sul suo significato nella vita dell’uomo moderno: «così come un poema non è solo un pezzo di storia della letteratura, ma anche un fatto estetico, filologico, biografico, così due persone che si scambiano i loro prodotti non danno solo vita a un puro fatto economico». Nella immaginazione popolare il denaro, come già il prestare a interesse, è stato spesso colorato di nero, rivestito di significati negativi, associato a sentimenti riprovevoli come l’avidità, l’avarizia, l’egoismo. Pregiudizi religiosi e moralismi laicali si sono spalleggiati l’un l’altro nel denigrare il denaro, negandone la natura di mero strumento, attribuendogli un’essenza autonoma, corruttrice.
Ricapitoliamo. Si intravede, nelle sommarie definizioni sopra riportate, un elemento comune ai diversi fattori costituenti la finanza? Sì, due: il primo, fondamentale, è il tempo; il secondo è il nesso fra rischio e rendimento.
Discutiamoli brevemente entrambi, iniziando dal tempo.
Credito, assicurazione, moneta hann...