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Il palio d’Italia
Facciamoci del male, ma per gioco: festa e identità
La società tradizionale non conosce il concetto di tempo libero, ma quello di festa, cioè del momento in cui si elabora un tempo identitario e comunitario; carico di simbologia; che riafferma posizioni, ruoli e gerarchie; che crea condivisione e consenso e scopre le contiguità con il mondo – incerto, misterioso e inquietante – del sacro. La festa è un linguaggio del potere, non c’è dubbio, però è un linguaggio di intermediazione che serve a veicolare contenuti che non si avvertono come calati dall’alto e imposti perché la forma e l’estetica che li intermediano li trasformano in contenuti condivisi.
Non ripeteremo cose fin troppe volte dette: che la festa sia un sistema per coinvolgere la collettività depotenziandone la percezione delle criticità e, quindi, prevenendone le possibili manifestazioni di contestazione è cosa talmente ovvia e scontata da risultare imbarazzante a ripeterla. La festa ha anche la funzione di creare identificazione, magari attraverso meccanismi accettati inconsciamente e immaginati come autoprodotti e non percepiti come subìti. Quella sottile espropriazione della coscienza critica, banalizzata nel luogo comune «festa, farina e forca» (altrettanto banale e parziale quanto l’altra più aulica locuzione «panem et circenses»), costituisce senza alcuna possibilità di dubbio uno strumento di esercizio del potere1.
Ha, pertanto, indubbiamente ragione chi, guardando all’esito di questo stato di cose, legge la festa come strumento di governo e di controllo della popolazione2, e tuttavia, detto (e, certo, in ultima analisi, sottoscritto) tutto ciò, resta il desiderio di decodificare questo complesso meccanismo, sfrondandolo da retorici topoi e da scorciatoie, cercando di vedere a quali reali meccanismi di costruzione del consenso ci si debba rifare e quali siano, non tanto le finalità, ma le motivazioni veicolatrici di questo dispositivo mentale che a tali finalità approdano.
Al potere, in definitiva, non si contesta (almeno in età pre-illuminista e comunque solo ad opera di minoranze intellettuali) di essere assoluto, se ciò contribuisce al benessere della gente, e in quest’ottica, dunque, la festa ricompone un legame, perverso ma sostanziale, fra dominatore e dominato. Nel Cinquecento il concetto è ben riassunto da Giovanni Botero, il quale nel terzo libro del suo trattato Della Ragion di Stato scrive: «Perché il popolo è di natura sua instabile, e desideroso di novità, ne avviene che s’egli non è trattenuto con varij mezi dal suo Prencipe, la cerca da se stesso anco con la mutatione di Stato, e di governo. Perciò tutti i Prencipi savij hanno introdotto alcuni trattenimenti popolari nei quali, quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e del corpo, tanto saranno più a proposito»3.
Con più raffinata interpretazione, coglie meglio il punto un giurista e magistrato modenese, Fulvio Pacciani, segretario e consigliere degli Estensi e capitano di giustizia, per conto di Ferdinando II dei Medici, a Siena dove stampa, nel 1607, il suo trattato Dell’arte di governare bene i popoli. In esso, la funzione politica della festa è espressa con concetti che riprendono, da un lato, il medievale senso di signore dispensatore del bene comune e, dall’altro, alludono alla moderna declinazione della festa stessa e del gioco come linguaggi della costruzione dello Stato4. «Bisogna dunque – scrive – che il Principe intenda e conosca intrinsecamente le condizioni di coloro alli quali suole fare beneficio, ò dare ricompensa, né le potrà compitamente conoscere, se non si lascia vedere fuori dalle camere, e non conversa in pubblico il più spesso [...], né per altri rispetti furono nelle Città bene governate introdutte le feste, i conviti e i pubblici giochi, se non per assuefare gli sudditi a pratticare insieme, acciò che col mezzo della conversatione si potessero intrinsecamente conoscere, e cominciando a pigliarsi amore, si dassero ne i bisogni aiuti, e si facessero beneficio l’un con l’altro, a vicenda». In questa prospettiva, pertanto, polemizza contro quei funzionari che arbitrariamente «solo per mostrare, ch’ancor essi sono da qualche cosa nell’officio, prohibiscono contra ogni ragione le feste publiche a i cittadini, perché questa prohibitione è contra la norma del buon governo», non rendendosi conto che sono anche queste altrettanti mezzi per mantenere la serenità dello Stato5.
La festa, intesa in tal senso, si collega necessariamente con il «mito», termine nel quale dobbiamo, in questo caso, ricomprendere il complesso del memoriale religioso legato alla figura celeste che si onora, e quello civile, misto di storia, leggenda, fatti e invenzioni, che compone il riferimento sovratemporale – e spesso atemporale – della genesi delle comunità. Se, come sostengono gli antropologi, non c’è mito senza rito, la festa assume, dunque, il ruolo di espressione rituale del mito, di ludus collettivo che ha bisogno, però, di una conclusione di scarico liberatorio del sacro che il rito convoca: non c’è festa senza gioco6.
Il complesso sistema ludico fatto un po’ di tutto (corse di cavalli, corse a piedi, armeggerie, battagliole e vari tipi di affrontamento) si innesta sulla festa traendo da essa, in qualche caso, la legittimazione per manifestazioni violente che solo la sospensione del tempo ordinario – insita congenitamente nella festa stessa – può rendere tollerabili. A formare la cornice di questo tempo particolare sono i momenti di frattura – il Carnevale, le feste religiose, il santorale civico – che a volte coesistono o che costringono le feste stesse a rimbalzare da una data all’altra cercando una loro, sempre precaria, collocazione nel calendario.
La veronese domenica «totius populi», destinata, fin dalla prima attestazione nel 1276, allo svago della popolazione, saltabecca, per i cinque secoli successivi, dal Carnevale al maggio, con il suo programma di corse di uomini, asini, cavalli, prostitute e oneste donne7. Non è differente il contesto del Calcio fiorentino giocato molto spesso nei giorni carnevaleschi, ma che può essere riproposto, all’occorrenza, anche in altri momenti (addirittura, il 10 gennaio del 1491, sul letto ghiacciato dell’Arno)8.
È ancora una volta il Carnevale a far da sfondo quasi dappertutto, fin dal Medioevo, ai non pochi (ovunque amatissimi) giochi di affrontamento: a Orvieto, per esempio, ne fa le spese il podestà Pietro Parenzo il quale, nel 1199, se la vede brutta davanti ai concittadini inferociti per il suo divieto a svolgere le sanguinose battagliole che si tengono fino alla Quaresima9, mentre Salimbene de Adam ci dice che a Parma, nel Duecento, si combattono le battagliole (che si collocano sempre e ovunque a metà strada fra gioco ed esercizio militare10) in cui ci si affronta protetti da scudi di vimini11.
A Gubbio, a Pisa, a Bologna, ad Asti, a Orvieto e in tante altre città, per Carnevale, ci si fronteggia in piazza e per strada a sassate: quando Sant’Ubaldo († 1160), vescovo, cerca di vietarle a Gubbio non viene ascoltato e, d’altra parte, se si pensa a quello che per secoli avviene a Perugia, dove per le sassate c’è una vera e propria venerazione, si può ben capire come il sant’uomo non abbia alcuna possibilità di venire a capo di questa diffusa passione per un gioco, anche mortale, al quale (vedi proprio il caso perugino) partecipano adulti, vecchi e addirittura bambini. Pure a Firenze ci si diletta così anche per qualche fausta occorrenza, come nel 1584 quando, in via Larga, si tiene una memorabile sassaiola per celebrare in questo singolare modo le nozze di Eleonora de’ Medici e Vincenzo Gonzaga12.
A Venezia, dal 1162 – raccontano le cronache di Andrea Dandolo – per solennizzare il trionfo della città sul patriarca di Aquileia, Ulderico, si svolge in piazza San Marco un rito che fa rivivere l’episodio e durante il quale viene tagliata la testa ad un toro, tributo del patriarca sconfitto, e vengono uccisi dodici maiali offerti, a loro volta, da altrettanti canonici del primate aquileiense. Mentre sulla piazza si svolge questa sorta di metaforica uccisione dei governanti della città friulana, all’interno del palazzo il doge procede a un altrettanto significativo rituale distruggendo con una mazza di ferro una serie di modellini di castelli di legno che rappresentano i castelli del territorio di Aquileia debellati dai veneziani.
Questa cerimonia (dalle caratteristiche assolutamente politiche, come si vede) si dovrebbe tenere nel giorno memoriale dell’avvenimento, che, per essere accaduto in tempo carnevalesco, si incardina, però, dopo qualche tempo sul Giovedì Grasso13, il quale risucchia nel suo contesto festivo una...