VIII.
Dopo Montaperti
«Redde rationem»
La sera del 4 settembre la battaglia è finita, ma la guerra no. La questione di Montalcino è ancora irrisolta e a Siena, come si è detto, si è convinti che con la rocca della Valdorcia sia il momento di chiudere i conti. Così il 22 settembre, secondo il Montauri, l’esercito ghibellino si presenta sotto il castello assediandolo. Nella descrizione molto colorita e molto ricca di “parlato dal vivo” al quale ci ha abituato il Montauri, i montalcinesi, riuniti in un angosciato consiglio generale, fanno trasparire dalle loro parole uno stato d’animo diviso fra paura per quegli armati sotto le mura, coscienza di averla fatta grossa provocando la guerra, rimorso per l’atto avventato, volontà di resistere e consapevolezza di non potercela fare. L’assedio, sempre nella narrazione del nostro cronista, va avanti per una settimana; poi, il 30 settembre, c’è l’assalto dei ghibellini. Si ammassano alle porte le stipe incendiarie e quando i montalcinesi se ne accorgono tentano una sortita. Con poco risultato, perché «comincioro a fare grande izufa insieme, e furonvi morti alquanti Montalcinesi e fuvi morto alcuno cavalo de’ Sanesi; e a malgrado de’ Montalcinesi furno rimesi drento a la porta e seroro la porta e recarosi a le difese a le mura», dove sono fatti bersaglio dei balestrieri senesi. Intanto le stipe incendiarie fanno il loro lavoro e la porta prende fuoco, così che i senesi «caciavasi drento come lioni».
Alla fine, la difesa capitola: i senesi fanno irruzione al grido di «Viva el comuno di Siena e muoia questi traditori Montalcinesi» e, come è prassi di guerra per un castello o una città che cadono senza essersi arresi, Montalcino viene messa a sacco. «E poi a dì 2 d’ottobre disfecero le mura e grande parte delle case arsero, e tuti e’ Montalcinesi, grandi e picoli, preti e frati e done, tuti escirno di Montalcino, ché ne furno caciati, si no li bisogniava morire».
L’Anonimo, per parte sua, fa partire l’esercito senese dopo appena due giorni da Montaperti, il 6, e gli fa dare l’assalto vittorioso già il giorno dopo, il 7. I suoi tempi sembrerebbero troppo contratti, e invece sono decisamente verosimili, perché il solenne atto di sottomissione di Montalcino, come vedremo, verrà rogato sul Campo di Siena proprio il giorno 8 settembre. Lo scrittore non si esime dal sottolineare la grande liberalità e cortesia d’animo dei cavalieri tedeschi perché, quando l’esercito irrompe in Montalcino, i loro comandanti «ordinoro che le donne fusino conservate e messe nella loro chiesa, acioché non perdeseno el loro onore».
I superstiti del nuovo strazio e grande scempio abbandonano il castello per andare a Firenze, precisa l’Anonimo, ma durante la marcia la colonna degli esuli si ferma a Buonconvento, poco più di una decina di chilometri da Montalcino, dove si tiene un’assemblea per decidere il da farsi: prende la scena la figura di «un vechio de’ buoni di Montealcino [il quale] sì fece fermare tutta la giente che era co’ lui e disse: Io vi consiglierei che noi con esso mecho andassimo a Siena, e tutti ci metesimo la coregia a la ghola e adimandasimo misericordia». Il garbato invito (quel rispettoso condizionale, «Io vi consiglierei», di grande delicatezza ed eleganza, sembra quasi esser messo lì a sottolineare, da parte dello scrittore, una situazione drammatica in cui nessuno si sente di esercitare un’autorità sugli altri infelici come lui) viene accolto da tutti e la colonna degli esuli (e qui le narrazioni dei due cronisti senesi coincidono alla lettera) con la corda al collo, in camicia e scalzi, entra in Siena con sì alti lamenti e pianti che «pareva una confusione e uno terrore a vederli»; «gridavano tanto forte che pareva che Siena andasse a romore».
La descrizione dell’atto di umiliazione dei montalcinesi prosegue con tratti che si collocano a metà strada fra l’horror e un’impietosa legge del contrappasso. Secondo l’Anonimo, i Ventiquattro signori di Siena accolgono la lamentosa schiera per rampognarla bene bene: «Voi Montalcinesi sete cagione d’havere fatto morire più di XII migliaia di persone». La pena è dura: i prigionieri saranno rilasciati ma dovranno recarsi a Montaperti perché «vedesseno di quanto male erano stati chagione» e perché seppelliscano i morti della battaglia, i cui cadaveri non erano stati ancora rimossi. Solo quando il duro incarico sarà stato espletato i montalcinesi saranno perdonati, non prima di aver fatto atto di sottomissione a Siena.
Montauri non li tratta granché meglio: li fa anch’egli mandare in penitenza a Montaperti, anche se non a seppellire i morti, bensì a meditare sulla loro colpa in mezzo a quel carnaio in decomposizione. I penitenti si recano dove «eravi sì grande la puza che non vi si poteva stare» e ci resistono due giorni prima di ricevere l’agognato perdono, poter tornare nel loro castello distrutto e cominciare a ricostruirlo («e riferno Montalcino un poco minore che non era, e anco si vede ogidì»). Conclude sentenzioso il cronista: «così si gastiga queli che sono stati traditori a’ loro signori».
Nella realtà, l’atto di sottomissione non deve essere stato, in effetti, troppo leggero (al netto dei particolari da romanzo gotico) perché, nella sostanza, le parole di riprovazione e la solenne umiliazione pubblica si ritrovano in una fonte di tipo tutt’altro che letterario, cioè nel documento ufficiale conservato in quel liber iurium che è il Caleffo Vecchio del Comune di Siena. Dalla scrittura asciutta e senza fronzoli del notaio si apprende che gli oltre 400 montalcinesi, convenuti parrocchia per parrocchia nel Campo, davanti al carroccio che è ormai diventato una santa reliquia, si sentono rimproverare, esattamente nei termini riportati dai cronisti, di essere dei traditori e di aver causato la guerra e i lutti e distruzioni che ne sono seguiti.
I punti del trattato sono duri in proporzione: il castello, ora ufficialmente considerato nel contado della città e nella diocesi del vescovo senese, dovrà giurare fedeltà assoluta a Siena; i suoi uomini dovranno essere pronti a rispondere ad ogni chiamata della dominante e combattere per lei; dovranno essere rescissi tutti i patti con Firenze e con gli altri nemici di Siena. Non è tutto e non è nemmeno il peggio, perché i montalcinesi dovranno abbandonare il castello, distruggerlo abbattendone le mura e ogni fortificazione, colmando le carbonaie e i fossati e radendo al suolo «domos et edificia», impegnandosi a non tornarci mai, a non rimurarvi dentro nemmeno un mattone, e ad accettare di abitare in quei luoghi che sarebbero stati indicati dal Comune di Siena nella pianura sottostante. Montalcino è ormai sostanzialmente ridotto ad un insediamento aperto come un qualsiasi villaggio rurale.
Non si lavora troppo di fantasia se si ipotizza che più d’uno avrebbe preferito davvero, anziché questo, andare a seppellire i cadaveri decomposti dei morti di Montaperti.
Mensano (conquistato dai fiorentini – accusano i senesi – perché ha tradito) è l’altra vittima della rappresaglia: le disposizioni che puniscono i mensanesi verranno riportate addirittura nel Constituto senese redatto nel 1262, perché non si corra il rischio che vengano dimenticate. Nessun abitante del castello, esattamente come quelli di Montalcino, potrà far parte dei consigli cittadini, e passi se ci si limitasse a questo: si mette, infatti, in piedi una commissione d’inchiesta per scoprire i traditori «qui dictum castrum dederunt Florentinis», i quali, una volta individuati, saranno puniti e i loro beni saranno confiscati dal Comune di Siena. Nemmeno in questo caso ci si ferma qui: Mensano dovrà essere anch’esso completamente raso al suolo, per punire gli abitanti «propter suas iniquas proditiones». Torri di difesa, barbacani, case, edifici dovranno essere cancellati, le carbonaie dovranno essere colmate, «ita quod nullum hedificium ibi remaneat». I governanti senesi non sono ignari del fatto che, in mezzo a quel ricetto di traditori, ci sono anche le case di alcuni leali nobili cittadini senesi, gli Arzocchi, i Beringhieri e i Grisi (o Nisi, come si legge in altra parte del documento), comunque la soluzione è molto semplice. Ovviamente dovranno essere rase al suolo anche quelle, ma i proprietari verranno risarciti fino all’ultimo denaro dai mensanesi, sui quali graverà anche il costo per la costruzione del cassero (con mura alte 15 metri e barbacani di difesa) che prenderà il posto dell’insediamento e per il salario del rettore senese che lo occuperà con il compito, oltre che di sorvegliare, anche di amministrare la giustizia. Infine, a completamento del tutto, i mensanesi dovranno, di tasca loro, risarcire tutti i masnadieri senesi che, durante la loro ribellione a Siena, erano stati fatti prigionieri.
Nel novembre si prendono in esame i diritti su Montepulciano che vengono considerati da Giordano di Agliano preda di guerra dei senesi, anche se ci vuole l’ennesima spedizione militare per convincere i poliziani a sottoscrivere, il 5 luglio 1261, i capitoli di sottomissione alla città. Il sito viene decastellato, le carbonaie e i fossi riempiti, mentre la sola fortificazione sarà costituita dal cassero che il Comune di Siena vi costruirà. Per farlo, però, la città indennizzerà i poliziani le cui case dovranno essere rase al suolo per far posto alla nuova fortificazione (e la vincitrice manterrà l’impegno: pagine e pagine del Caleffo relative al 1262 riportano puntualmente gli atti di risarcimento e le cifre spese per le espropriazioni).
Firenze, per parte sua, rinuncia a favore di Siena ad ogni diritto che abbia acquisito, a vario titolo, oltre che su Montalcino e Montepulciano, anche su Mensano, Casole, alcuni castelli della Valdorcia e della Maremma, Poggibonsi e Staggia (e proprio su quest’ultimo castello si verificherà di lì a poco un braccio di ferro con Manfredi).
Il terremoto è avvertito in tutta la regione e incominciano a girare storie catastrofiche: Guglielmo Beroaldi, fiorentino, ambasciatore del Comune in Germania, riceve la notizia ...