L’infanzia è un terremoto
Sono arrivata nel Belice, a Partanna, un anno dopo il terremoto del ’68, perciò ho una certa confidenza con i suoi effetti: le case distrutte, le baraccopoli, i primi nuclei delle città nuove. Ma del terremoto non ho nessuna memoria.
Per quel che mi riguarda, l’esperienza comincia la mattina in cui scendo dalla Peugeot 404, attraverso la baraccopoli di San Martino ’U Pisciu, e vedo Luca, che ha quattro anni non compiuti, nove giorni meno di me e pedala sul triciclo sollevando polvere sotto la collina coltivata a ulivi. Il terremoto è mito, la vita di prima è preistoria. Poi mi ricordo senza soluzione di continuità, ma devono essere passati almeno giorni, di me e Luca che raccogliamo amaredduci, i fiori gialli dell’acetosella, li mangiamo e io che non ho difese immunitarie sufficienti finisco intossicata in ospedale.
In ospedale mio padre e mia madre mi hanno spiegato che sugli amaredduci ci pisciano i cani. Non sono né amari né dolci, solo aspri, ma per un momento ho pensato che mi dispiaceva non mangiarli più. Quando sono stata dimessa ho ripreso a succhiarli come niente fosse e non sono stata male.
Mia madre dice che siamo arrivati a San Martino nell’autunno del 1969. Doveva essere fine settembre perché Luca – ci siamo rivisti quest’anno a Partanna, ma negli ultimi anni ci eravamo già ritrovati – si ricorda di aver festeggiato per la prima volta il suo compleanno, a quattro anni, insieme a me. Io sono del 1° ottobre, lui del 10. Doveva essere più l’inizio di ottobre che la fine di settembre, considerato il fatto che mio fratello Adriano è nato il 4 giugno del ’70 e che mia madre è sicura di essere arrivata nel Belice già incinta. Naturalmente la cronologia si sfalderebbe se Luca ricordasse male, se il compleanno a cui pensa fosse quello dei nostri cinque anni. Ma cambia poco, nell’autunno del ’69 eravamo là, e ci siamo rimasti fino al ’73. Mi ricordo che abbiamo viaggiato in macchina da Marostica, in Veneto, il paese degli scacchi, dove abitavamo in una casa appena fuori dalle mura con la vista sul castello, fino a Partanna. A Partanna c’era il Centro studi iniziative Valle del Belice che faceva capo a Lorenzo Barbera e a Paola Buzzola, i genitori di Luca, Fabrizio e Matteo, e ad altri ex collaboratori di Danilo Dolci. Mio padre e mia madre, architetti, andavano a lavorare con loro per la ricostruzione e lo sviluppo.
Del viaggio non mi ricordo niente. Solo la partenza, mia nonna con la faccia tirata che sembra una maschera – me la ricordo identica alla madre di Pasolini nel Vangelo secondo Matteo –, la Peugeot con i bagagli già dentro, io che grido perché ho caricato quasi tutte le mie bambole ma mi mancano certi pupazzi alti dieci centimetri, mezzi uomini e mezzi bestie, e i miei genitori, per una volta severi, non mi permettono di cercarli.
Ho chiesto a Luca se si ricorda il terremoto: «Assolutamente niente», mi ha risposto, «buio totale».
Sotto e sopra le macerie
«Centinaia di morti e oltre mille feriti nella Sicilia occidentale, distrutti i paesi di Montevago, Gibellina e Salaparuta»: è il titolo cubitale in prima pagina del «Corriere della Sera» del 16 gennaio 1968. Di Poggioreale sono rimaste in piedi molte facciate, ma il paese è ormai una quinta teatrale. Anche Santa Margherita Belice è sventrata. Crolli e morti ci sono stati a Menfi, Partanna, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi.
Quest’inverno, quando sono andata a Montevago, mia madre e Giuseppe mi hanno convinto a passare in Biblioteca comunale. Ci sono andata più che altro per la biblioteca, perché mi sembrava difficile scoprire proprio lì qualcosa di imprevisto. Non erano ancora finite le vacanze di Natale, perciò la biblioteca era deserta. Normalmente la usano gli studenti universitari e liceali. È uno stanzone con grandi tavoli, finestre alte, scaffalature a vista e i libri classificati con il sistema Dewey. Giuseppe mi ha affidato ai bibliotecari, un uomo e due donne che conosceva bene, una delle due è sua parente. Era quasi ora di pranzo, fuori il sole era coperto ma scaldava, dentro invece avevo i brividi. Succede spesso d’inverno in Sicilia, perché gli interni raramente sono riscaldati. Magari in biblioteca i termosifoni erano accesi, ma la stanza era talmente grande che il caldo non riusciva a raggiungermi. Nell’ufficio sul fondo, il bibliotecario maschio lavorava al computer. Le due bibliotecarie avevano un aspetto domestico. Premurose, appena diffidenti, incuriosite. Che io fossi figlia di mia madre le rassicurava. Mi hanno mostrato un lavoro sul terremoto fatto dai bambini delle scuole, una tesi di laurea sulla zona. La più alta ha sorriso: «Ma io ho capito», ha detto alla collega, «cerca qualcosa di serio», e mi ha tirato fuori un libro del 1978. Non l’ha preso dagli scaffali, ma da un posto che sapeva lei. La prossima volta che scendo a Montevago lo dovrò restituire. Si chiama Valle del Belice (Introduzione alla storia di dieci anni di terremoto), l’ha scritto un frate, padre Mariano Traina. Passa continuamente dalla stringente presentazione dei dati all’aneddotica, dalla citazione dei poeti locali all’analisi della legislazione. Ci sono libri sul terremoto altrettanto e forse anche meglio documentati, ma questo mi piace. In quarta di copertina padre Mariano ha messo una canzone: «Sole alla Valle e sole alla Collina / Per le campagne non c’è più nessuno / Addio, addio, Amore, io vado via / Amara [...]» ha aggiunto una variante: «‘Ama la’ terra mia / Amara e bella». Sotto ci ha scritto solo «Modugno».
Dice padre Mariano che l’ora dei terremoti si può calcolare facilmente, basta andare a vedere quando si sono fermati gli orologi, però siccome gli orologi raramente vanno in sincrono, per maggiore precisione si fanno calcoli sui sismogrammi:
l’andamento del sisma fu il seguente: ore 13,29 minuti e 29 secondi [del 14 gennaio] violenta scossa di 6° grado della scala Mercalli; ore 14,16 minuti e 47 secondi, scossa di 7° grado. Queste due scosse vennero seguite da numerosi crolli. Il 15 gennaio, ore 00,30, altra scossa di 5° grado; ore 02,34 minuti 03 secondi, 8° grado e dopo 12 secondi di 9° grado [...]; ore 17,43 minuti ultima violenta scossa di 9° grado. Ebbe la durata di 52 secondi.
Le scosse, quelle terribili di ottavo e nono grado, la notte del 15 gennaio hanno ucciso più di trecento persone, al conto se ne aggiunsero altre e il numero completo si avvicina a quattrocento. Quattrocento persone non sono tante. Il territorio colpito è grande e i danni sono impressionanti. Non solo le case e le strade, perfino le radici degli alberi sono state estirpate.
Quest’inverno ero a Gibellina con Simone. Simone è mio fratello piccolo, è figlio di mio padre e di Antonella. Mio padre e Antonella si sono conosciuti quando noi eravamo in Belice, ma Simone è nato dopo, a Palermo: del terremoto e della ricostruzione sa pochissimo, mi accompagnava per curiosità e solidarietà fraterna.
Di Gibellina si è parlato tanto, è stata ricostruita lontano da dove era, è diventata una città d’arte, disseminata di opere di artisti e architetti per volontà di Ludovico Corrao, avvocato democristiano, poi comunista, a lungo sindaco di Gibellina. Da molti anni, a giugno, nel Teatro dei Ruderi, un anfiteatro mimetico dei teatri greci, si tengono le Orestiadi. Nel 1992 è nata la Fondazione Orestiadi, al Baglio di Stefano, poco fuori Gibellina nuova, che si occupa di organizzare la rassegna e di promuovere iniziative d’arte, di musica, di poesia ad altissimo livello. Visto da Gibellina, il baglio, circondato di verde, sembra un luogo di pace che guarda la città. Sulle scelte di Corrao, degli artisti, degli architetti, ci sono state grandi polemiche; Mario La Ferla ha scritto un libro molto duro, Te la do io Brasilia, uscito per Stampa Alternativa nel 2004. Le opinioni dei detrattori di Gibellina mi sono sempre sembrate, anche se parziali e tagliate con l’accetta, più aderenti alle cose di quelle degli estimatori. Solo per un momento mi è venuto un dubbio: quando un amico di mio fratello Adriano, uno scultore, mi ha detto emozionandosi che imprese come Gibellina o la Fiumara sono improbabili, coraggiose, nutrimento per gli artisti. Se ci penso, poi, la Fondazione Orestiadi c’entra quasi sempre con le riflessioni sul terremoto degli ultimi anni: mi vengono in mente Il silenzio di Pippo Delbono, il video Earthquake ’68 di Emanuele Svezia.
Quest’inverno, io e Simone eravamo appena entrati nella chiesa di Quaroni, quella che nel 1994 se n’è venuta giù. Non faceva freddo, anche se erano i primi di gennaio. Quest’anno era così, il fondo dell’aria tiepido, il vento sferzante, il cielo coperto. Ma non era una coltre grigia e accogliente, era un cielo drammatico, con grosse nuvole troppo bianche e troppo nere che via via prendevano velocità. Stava sempre per piovere. Per raggiungere la chiesa non abbiamo imboccato la strada asfaltata. Abbiamo tagliato. Una specie di arrampicata tra spazi pubblici e terra e sterpi. La chiesa sferica sembrava abbandonata, dentro c’erano rifiuti, calcinacci. Una chiesa con la base quadrata e la cupola sferica mi dava l’idea di una provocazione: l’accostamento del quadrato con la sfera è un gioco illuminista, quasi un simbolo massonico, incarna l’idea dell’umana autosufficienza, senza slanci. A Dio dice: sto a posto, non ho bisogno di te. Quasi quasi, pensavo, era doveroso che cedesse, o, se non altro, prevedibile. Nell’idea originaria la sfera doveva essere celeste e più leggera, chissà, forse quello aiutava. Ma l’intonaco bianco sulla sfera proprio no. A vederla non sembra che sia crollata, semmai costruita solo a metà, i lavori ancora in corso, appena sospesi. In effetti da tempo la stanno riparando. Sembra un cantiere abusivo con i sigilli. È rimasta enfaticamente a cielo aperto. Eppure la attraversano grossi cavi elettrici, ci sono dei faretti, degli spot. I fili e i fari sono puliti, sembrano nuovi.
Mi sono domandata: ma li accendono? Ci sono eventi, occasioni liturgiche nella chiesa scoperchiata, di liturgia religiosa o civile? O l’illuminano per l’effetto che può fare nella notte: perché un edificio crollato da queste parti ormai è un valore in sé?
Simone a Gibellina non c’era stato mai e gli veniva da ridere. Gibellina non è diversa da Montevago o dalla periferia di Partanna. L’impianto è lo stesso: stradoni vuoti, case quasi tutte a due piani, troppe per poche persone. Semmai a Gibellina c’è più pensiero. C’è anche una piazza, anzi c’è il Sistema delle piazze di Laura Thermes e Franco Purini. Per lo più deserte. Ma qualcosa si accende in occasione delle iniziative estive. Molto spesso poi ti cade l’occhio su un’opera, un palazzo, una villetta, Uncini, ancora Purini. Cose anche belle. Pensiero concentrato in un punto, solo che quel pensiero è del tutto scollato dal contesto. Subito dopo ti trovi davanti di nuovo case a due piani senza carattere, strade larghe e vuote, spopolate. Così capita che anche il pensiero incarnato dalle opere faccia un effetto comico: un pensierino. Chiuso, senza appigli, che non ti porta da nessuna parte.
Ho pensato a Gibellina come a un pamphlet dell’antintellettualismo, un Candide, la dimostrazione della pochezza, dell’inanità dell’arte. Che cos’è l’arte? La cacatina di un uccello presuntuoso. Chi presta attenzione all’arte? Nessuno. Perché dovrebbe? che ragione c’è? Può giusto servire a richiamare turisti e intellettuali, gente che si diletta di cose senza senso, gente senza problemi.
Volevo portare Simone a vedere il Cretto, che è un’altra cosa. Gli raccontavo che Giuseppe e i suoi compagni di Montevago odiano il Cretto, dicono: quella colata di cemento, è orribile. Forse rappresenta qualcosa, ma è orrenda... E lo dicono con rabbia, con rancore. E io dicevo: Simo, invece no. Il Cretto è bellissimo. Nel silenzio, adagiato alla collina che cambia colore con le stagioni, parla della condizione umana, della violenza, quella che esercitiamo e quella che ci travolge, parla del tempo e di come si ferma tutt’a un tratto, è come un intero slancio di trionfi, dice così tanto in così poco...
Avevamo di sicuro sbagliato strada perché la Stella di Consagra era alla nostra sinistra, andavamo verso l’autostrada e per il Cretto invece bisogna andare dall’altra parte, seguire l’indicazione per Ruderi di Gibellina, salire verso le colline, sulla strada per Salaparuta. Perciò abbiamo fermato un Ape per chiedere indicazioni. Era un Ape malconcio. C’erano dentro un uomo e una donna anziani, due vecchietti, come dice Simone. Piccoli e magri. Lui con la coppola, lei con gonna e camicia, ma che cadevano comode, buone per il lavoro. Forse erano contadini che tornavano dal campo. Si assomigliavano. Simone gli ha chiesto: «Come arriviamo alla vecchia Gibellina?». Si sono guardati con perplessità e sgomento. «Ma a Gibellina vecchia non c’è niente».
Ci è passata la voglia di andare.
«Gibellina», mi ha raccontato qualche anno fa Peppe Binaggia, «era un paesino come tanti paesi della Sicilia. Abbastanza caratteristico. Era in un punto bellissimo. Si passava la vita con gli amici, perché qui stiamo parlando più o meno degli anni Cinquanta, quando ero ragazzo io. Ancora non c’erano le televisioni, perciò la sera ci riunivamo in qualche piazza, per fare qualche gioco nei bar, qualche briscola, qualche scopa».
Sono anni che combatto con il terremoto. Già nel 1999 avevo fatto un documentario radiofonico, per il programma Cento lire di Radiotre, sulla storia della Valle del Belice. Mettendo ordine nel materiale ho ritrovato quest’intervista a Peppe Binaggia, che all’epoca lavorava al Cresm e adesso credo sia in pensione. Il Cresm (Centro ricerche economiche e sociali per il Meridione) è stato fondato da Lorenzo Barbera e Paola Buzzola dopo la fine dell’esperienza del Centro studi. Di terremoto in terremoto il Cresm ha lavorato in Irpinia, prima con il sostegno del comitato olandese e del comitato svedese, tra i finanziatori del Centro di Danilo Dolci e poi di quello di Lorenzo, e dal 1984 con progetti europei. Mia madre collaborava già di tanto in tanto con Paola, che dirigeva la sede di Palermo, quando nel 1992 Lorenzo è tornato in Sicilia e l’ha invitata a lavorare con lui.
Peppe Binaggia, quando l’ho incontrato, era un uomo di mezza età, solido, dai polsi grandi, sembrava un contadino siciliano, con tutto il carico di terrosità e di malinconia che uno si aspetta. Me lo ricordo epicamente stagliato contro il cielo grigio e nero, anche se non può essere, l’ho intervistato nell’ufficio del Cresm. In realtà non ho potuto fare a meno di notare la precisione nel lessico e nella sintassi e la capacità di raccontare, la consapevolezza quasi teatrale degli effetti.
«Noi avevamo un corso, che era la strada principale, che era all’incirca settecento metri ed eravamo tutti lì ammassati, si vedeva una marea di coppole, la domenica. Perché prima si portava la famosa coppola. L’ottanta per cento con i vestiti blu. Comunque era una caratteristica del vestito siciliano che ora non si vede più. Forse il terremoto ha distrutto qualcosa di importante per noi. Ci manca la strada, la fontana, cioè i luoghi in cui tra ragazzini giocavamo, la chiesa. Questi posti sono scomparsi».
Il 15 gennaio 2006, nell’anniversario del terremoto, pochi giorni dopo il passaggio mio e di Simone, c’è stata una mostra di fotografie a Gibellina. Si chiama Scatti sul Cretto. La mostra conclude un’azione ideata da Emanuele Svezia. L’idea era di portare gli abitanti di Gibellina dov’era la città vecchia e quindi sul Cretto. Il 28 maggio 2005 un migliaio di persone sono salite al Cretto – molte non c’erano state mai – e Mauro D’Agati le ha fotografate.
Anche a Gerusalemme c’era la neve
Padre Mariano racconta di fenomeni inquietanti che accompagnarono o precedettero le scosse: cavalli e muli che zampettavano irrequieti cercando di scavare per terra. «Le galline, le colombe, gli uccelli in genere», che facevano
vibrare le loro ali un po’ abbassate. Lugubri i latrati dei cani. [...] mutamento repentino di pressione, odore acre di zolfo, a Contessa Entellina si aprirono crepe con vapori di zolfo; a Sciacca fuoriuscirono vapori solforosi dai pozzi; a Camporeale [...] da un pastore fu osservata una nuvola di fumo sollevarsi in alto; alla Pietra a 4 km da Poggioreale venne osservata una lingua di fuoco, bruciante per pochi secondi in senso orizzontale. Ad Alcamo e Camporeale si formarono mucchietti di sabbia silicia di colore verdastro, molto umida. In quest’ultimo comune i carabinieri ne contarono più di sei con crateri profondi più di un metro, da dove usciva fanghiglia rossastra. Molte le sorgenti scomparse. Cosa poi contenesse l’aria, non ci riuscì di capire; era talmente untuosa che i tergicristalli non riuscivano a pulire i parabrezza delle macchine.
Io e mio fratello ci eravamo lasciati alle spalle il laboratorio a cielo aperto dell’architetto pazzo, come diceva Simone. Credo che ci fosse umido nell’aria, perché sia io che lui abbiamo sentito il bisogno di metterci i cappotti. Mi facevano male i bronchi. Ci siamo mossi verso Partanna.
Partanna è diversa da Gibellina e da Montevago. Non è una città nuova, è un paese antico, in collina. Ha un castello normanno rifatto nel Seicento. Cosa strana, io il castello non l’ho mai visitato, forse dal ’69 al ’73 non si poteva entrare, ma anche dopo non ci sono mai tornata. Ci siamo passati accanto distrattamente per anni e nessuno me ne ha mai parlato. I miei punti di riferimento erano altri....