IV. Storia con fantasmi
Vorrei cominciare con una poesia in forma di lettera, che scrissi all’amico Carlo Bordini alla fine degli anni Settanta:
caro carlo
ti scrivo la mia ultima
scoperta
ogni volta che mi lavo
mi dissolvo un po’ di più
mi sciolgo come la schiuma
che mi frego tra le
mani
fino a diventare scaglia
e scomparire.
È per questo sai
che non amo stare al sole
la politica non c’entra
sono fatto di neve
avrei preferito dirtelo
a voce ma
quando suona il telefono
tu ti metti paura
cominci a strisciare su e giù
per le pareti
Poi vorrei mostrare un’immagine della fotografa americana Francesca Woodman dello stesso periodo:
Una decina d’anni fa, a Parigi, capitai quasi per caso all’inaugurazione di una mostra alla Fondation Cartier, e ne uscii emozionato e turbato. Ero andato lì per fare qualcosa di inessenziale, una non-esperienza, come ci induce a fare il rituale dei consumi culturali. Incontrai invece qualcosa che parlava implacabilmente a me e di me. Che mi parlava di quello che avevo voluto scrivere e testimoniare in un passato non lontano e che non cessa di tornare. Era una mostra retrospettiva di fotografie di Francesca Woodman, scattate negli anni Settanta. Soprattutto autoritratti, molti dei quali fatti a Roma, dove abitò tra il 1977 e il 1978. Provai un sentimento fortissimo di riconoscimento e di comunanza, di lei e della sua poetica. Fui anche sicuro di averla incontrata, conosciuta. Simultaneamente appresi che l’autrice era morta il 19 gennaio 1981, gettandosi dalla finestra. Aveva ventitré anni.
Nata a Denver, Colorado, un anno prima di me, figlia di artisti, vissuta a Boulder (dove tra l’altro si trovava il Naropa Institute di Allen Ginsberg & soci), poi studi alla Rhode Islands School of Design a Providence, poi un anno a Roma, scoperta (o riscoperta) del surrealismo (e del futurismo, e di altre avanguardie) in una libreria anch’essa «d’avanguardia» vicino a piazza Navona. Abitava – dalla primavera del 1977 all’estate del 1978 – a piazza San Salvatore in Lauro, vicino a via dei Coronari. In quella libreria, Maldoror, Francesca Woodman ha sotto gli occhi gli autori caldi del momento, quelli del pensiero della «trasgressione», da Lautréamont, appunto, ad Artaud e Bataille. È lì che avrebbe esposto le sue fotografie nel 1978: giorno previsto per l’inaugurazione il 20 marzo. Solo quattro giorni prima Aldo Moro venne rapito e la sua scorta massacrata. Ma Francesca Woodman, così pare, non venne toccata da questi eventi. Era completamente assorbita dalle proprie ossessioni estetiche, idee e programmi, di cui sono parte integrante i suoi diari. Un’idea per lei è come qualcosa «sul fuoco», di cui bisogna occuparsi, annota, «prima che faccia bruciare il fondo della pentola». In questa libreria, luogo di sperimentazioni estetiche e comunitarie gestita dagli amici Paolo Missigoi e Giuseppe Casetti, scopre, grazie al loro archivio di immagini preziose custodite in una valigetta, un curioso ritaglio della rivista «Sapere». Sono le fotografie di uno scienziato ungherese che si pretendeva inventore di una «macchina per scomparire»; le illustrazioni mostrano una donna seduta che sfuma poco alla volta nel corso delle immagini successive, prima di sparire definitivamente. È da qui che prende l’idea della sua rappresentazione fotografica della trasparenza e della sparizione, come nell’Angel Series? Non credo. Le sue foto degli anni precedenti, a Boulder, a Providence, mostrano già pienamente la sua estetica dello sfumato, dell’evanescenza, del dissolvere e dissolversi, dell’uscire di scena, del diventare altro, diventare aria, tappezzeria, muri, carta da parati, carta e basta, diventare erba, sabbia, pavimento, lenzuolo, albero, «diventare ombra, riflesso, corrente d’aria» (Nicolas Bouvier), «divenire sempre, non diventare mai» (Gilles Deleuze), ecc. Però la coincidenza è bella, come una complicità: l’inventore ungherese della macchina per sparire. Che, per Francesca, altro non è che l’apparecchio fotografico. Come si chiamava quel bellissimo film in bianco e nero di Woody Allen, primi anni Novanta, che è insieme la storia dell’antisemitismo e del desiderio di evadere dalla realtà, dall’essere stesso? Ah sì, Ombre e nebbia, dove il goffo eroe, in fuga e perseguitato, a un certo punto sparisce con una macchina per sparire, complice un mago che assomiglia tanto, anche nei suoi procedimenti, ai vecchi fotografi col treppiede e il flash abbagliante. Uno schiocco di dita, e puff! Era questo che voleva, da sempre, anche prima di essere perseguitato. Ombre. Nebbia. Ed è ancora una volta lo sfumato, lo sfuocato, la tenuitas, l’ectoplasma, la parte più viva e insistente della storia dell’arte, la «vera icon», la Veronica, la Sìndone. L’assenza, le tracce che si lasciano quando si vogliono cancellare le proprie tracce. La Ninfa che si veste di ciò che la denuda. Un’estetica della sparizione. Ma anche un’estetica del volto, di ciò che si oppone al ritratto (che è sempre assoggettamento dell’altro, della sua presenza) grazie alla frontalità o al disfacimento (dis-facere) dei suoi tratti, a costo di una indistinzione, di un divenire fantasma. Ecco, tutto questo è per me la quintessenza degli anni Settanta, qualcosa che non è mai morto, solo (forse) scomparso, tornato cioè nel suo alveo originario, alla sua condizione naturale. Quella di fantasma.
La foto in basso potrebbe essere sostituita da molte altre analoghe di Francesca Woodman. Quel giorno a Parigi, e dopo, sfogliando i libri delle sue fotografie, rimasi soprattutto colpito dall’ultimo lavoro di Francesca, un libro d’artista dal titolo Some Disordered Interior Geometries, «Alcune disordinate geometrie interiori», realizzato su un quaderno a righe dei primi decenni del Novecento, «Esercizi graduati di geometria». Lo sfondo infantile e didattico dei quaderni, tra definizioni e poliedri, esalta la passione individuale della sua ricerca, quasi una spinoziana Etica more geometrico demonstrata, un’etica desiderante, trascendente e immanente insieme: immagini sovrapposte di pezzi del suo corpo, piedi, gambe, gesti, il volto e il sesso semicoperti dalle mani, mani che porgono un guanto, interni vuoti e spogli, muri, pavimenti, superfici bianche; una geometria interiore e disordinata, non euclidea, agli antipodi di quella militare «geometrica potenza», tutta esteriore, con cui si definì tronfiamente l’azione delle Brigate Rosse a via Fani.
Ma io, che cosa facevo in quegli stessi anni, e perché sono così sicuro, fin dal turbamento e la commozione avuti a Parigi alla Fondation Cartier, di avere avuto a che fare con lei, al punto che il suo volto sfuocato nelle sue fotografie, il suo corpo sfuocato (tutto il suo corpo è volto, e anche ogni oggetto delle sue fotografie è volto), mi guardasse, cioè mi riguardasse? Leggevo gli stessi autori, facevo le stesse esperienze, lavoravo, si fa per dire, per una rivista d’arte che parlava di trasgressione, di Bataille, di rivoluzione culturale, e per la quale feci la prima intervista italiana al sociologo Jean Baudrillard, che ci sembrava allora straordinariamente nei tempi, vero e fecondo, coi suoi concetti di iperreale e di simulacro. Andammo a Parigi, un amico e io, e il giorno prima dell’appuntamento, in una camera d’albergo di rue Dauphine, passammo un pomeriggio sui nostri rispettivi lettini registrando un dialogo – quasi uno psicodramma – inconcludente come le parole che si scambiano Vladimir ed Estragon in Aspettando Godot di Beckett (lo amavamo follemente); solo che nel nostro dialogo era lui, un invisibile e immaginario Godot, ad interromperci bussando sempre alla porta («Qualcuno bussa alla porta, sarà di nuovo Godot, ma cosa vuole da noi?»).
È buffo: sabato 17 marzo 2007 la copertina di «Alias» («il manifesto») era fatta delle foto in primo piano di Baudrillard che mi parlava in quell’intervista del febbraio 1978, riprodotta all’interno. Accorgermene è stato un piccolo shock (nessuno mi aveva informato). All’epoca, al ritorno da quel viaggio, portai a scuola la giustificazione firmata (avevo 18 anni) della mia assenza: motivi di lavoro. Scrivevo già poesie e le avevo vendute ciclostilate per strada, e ai concerti di certi miei amici musicisti. Da tempo volevo scrivere, ma non sapevo né cosa né come, e fu la lettura di Allen Ginsberg a sbloccarmi: potevo parlare di qualsiasi cosa, tutto è «santo» e degno, il corpo soprattutto. Conobbi Carlo Bordini al festival di Parco Lambro del ’76, dove vendevo un librino di mie poesie seduto per terra, con una tovaglietta rubata al tavolino di un bar. Ero tranquillo e sballato. Tutt’intorno l’inferno, gli espropri al camion dei polli, la caccia ai tossici, le prime violenze dichiarate degli Autonomi, molti dei quali divennero a loro volta dei tossici. Io e Carlo che ci aggiravamo come un dante e un virgilio da fumetto in una divina commedia ubriaca, o meglio acida.
Cominciai a venire a Roma quella stessa estate, conobbi il Beat 72 (e un vero poeta beat che dormiva sulla moquette: Adriano Dorato) e il cortile del Politecnico dove si riuniva un gruppo chiamato «poesia nel movimento». Conobbi molte ragazze. Ero esotico, e loro lo erano per me. Ero a Roma alla manifestazione del 12 marzo 1977, dove la mia parte del corteo fu attaccata prima ancora di partire, e in cui vissi l’incubo di una fuga randagia e convulsa in strade già buie con cabine e automobili in fiamme, e spari, poliziotti bardati come astronauti; dove assistetti impotente al fermo di amici mentre mi salvavo miracolosamente di vicolo in vicolo nella mansarda dell’amico poeta. Si mangiava con gli altri poeti in una trattoria a San Lorenzo, dove Francesca Woodman si trasferì spesso a lavorare dagli amici pittori dell’ex pastificio di via degli Ausoni (e dove a volte la trovavano nuda e tremante di freddo accanto a un muro scrostato, in assorta attesa de...