Babel
  1. 172 pagine
  2. Italian
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Babeldescrive il regno dell'inaudito disordine con un orizzonte amplissimo che va dalle diseguaglianze e le esclusioni sociali sino al nesso tra rivoluzione tecnologica e sistema dell'informazione, passando attraverso una spietata critica della politica. Gian Enrico Rusconi, "La Stampa"

Ci sono più domande che risposte nel dialogo tra Bauman e Mauro. È vero, le domande prevalgono, ma di certo elencare in una sequenza decifrabile i disordinati cambiamenti del presente è già l'inizio di una risposta. Corrado Augias, "Il Venerdì di Repubblica"

Babel mostra gli effetti sui meccanismi sociali e sulla politica della crisi economica e della globalizzazione. Su tutto la grande trasformazione prodotta dalla Rete. Perché Internet ha cambiato la storia, la geografia, l'economia, il costume. Massimo Gaggi, "Corriere della Sera"

Un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole, affinché i giovani, a cui spetta di diritto il futuro, abbiano chiara la mappa dell'avvenire senza perdersi per vie errabonde. Umberto Galimberti, "D - la Repubblica"

Domande frequenti

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Informazioni

1. Dentro uno spazio smaterializzato

Ezio Mauro Come un esercito invasore in un regno addormentato, la crisi sta attraversando con una facilità sorprendente tutta l’impalcatura materiale, istituzionale, intellettuale della costruzione democratica che l’Occidente si è dato nella tregua del dopoguerra. Governi, parlamenti, corpi intermedi, soggetti sociali, antagonismi, welfare state, partiti e movimenti nazionali, internazionali, continentali. Come a dire, tutto ciò che avevamo creato al fine di sviluppare e articolare il meccanismo della democrazia per proteggerci nel nostro vivere insieme.
Oggi sappiamo che quel meccanismo da solo non ci difende, che la crisi lo penetra e lo deforma attraversandolo, e così facendo lo svuota. Scopriamo che professare la democrazia nelle forme e negli istituti non ci protegge, dunque non è sufficiente. La democrazia non basta a sé stessa.
Diventa ineludibile, allora, domandarci fin dove arriverà la mutazione che la crisi in atto porta con sé. Una crisi economico-finanziaria, se guardiamo al detonatore. Ma crisi politica, istituzionale, dunque culturale, se misuriamo gli effetti quotidiani che si possono riassumere così: il governo democratico è precario, perché tutto è fuori controllo.
Sapevamo tutti, fin dall’inizio, che non sarebbe stata soltanto una parentesi ma una trasformazione profonda. E che ciò che era nato nel territorio dell’economia finanziaria, poi dell’industria, quindi del lavoro sarebbe ben presto diventato una dinamica sociale e politica. Con effetti su ciò che chiamiamo capitalismo, su ciò che consideriamo governance di sistema, sulle forme di organizzazione spontanea della società. Dunque sulla democrazia.
Ma quel che mi colpisce è qualcosa in più. Qualcosa che chiamerei autonomia della crisi. Guardiamola. Si muove indifferente al processo democratico, potremmo dire sotto la sua linea d’ombra, sfruttando e ingigantendo le sue debolezze.
Dobbiamo prendere atto che la crisi è una forza anche se non è un pensiero. Il che non significa naturalmente che non esistano cause, interessi e colpe, dunque responsabilità nella sua origine e nel suo sviluppo e che non ci sia oggi chi ne trae un beneficio. Ma come la sfera di Fellini che conclude Prova d’orchestra travolgendo tutto, la crisi è questo: forza che si conquista autonomia senza un’apparente teoria di sé e della sua azione, dunque senza un progetto, ma con una capacità d’intervento che produce effetti fortemente visibili.
Per questo, sempre più spesso mi domando se il mio paese – ma con ogni probabilità anche il tuo –, se questo nostro grande paese che è l’Europa, sia oggi in condizione di pensare sé stesso, se pensare vuol dire riflettere collettivamente sul suo divenire, con coscienza del passato e con un orizzonte comune nel quale cercare almeno un futuro, dopo che sembra tramontato ogni Avvenire. Come se, senza le ideologie fortunatamente sepolte, non sapessimo guardarci dentro e guardare avanti insieme. Saltato tutto ciò che serviva a organizzare l’«insieme» – le grandi culture politiche, i partiti, i canali di discussione – lo spazio dove ragionare e discutere con gli altri si è ristretto e il discorso pubblico atrofizzato. Forse non siamo più capaci di una pubblica opinione pur facendo un gran commercio gratuito di opinioni private ridotte in pillole e lanciate ovunque tra mille tweet al giorno, pur immersi in un mare di commenti e di spezzoni di giudizio trasformati in battute, calembour, invettive, aforismi.
Tu hai visto sciogliersi tutto ciò che dovrebbe fare da cornice e da sostanza di un pensiero lungo, organizzato, capace di costruire e di crescere nel confronto. Hai dato un nome a questo fenomeno. Ora dobbiamo porci la questione finale, radicale: dobbiamo domandarci se finirà per sciogliersi anche il pensiero che pensa il mondo liquido. E a quel punto dobbiamo interrogarci su come vivremo sotto l’onda continua, senza un punto fermo e uno strumento che misuri il peso e la distanza delle cose, solitari nel mare aperto. Perché se la democrazia è sotto attacco – e di questo oggi si tratta – dobbiamo chiederci se essa è ancora capace di pensare sé stessa, se è in grado di ri-pensarsi per reinventarsi e riconquistare il governo effettivo e reale.
Zygmunt Bauman Cogli nel segno quando fai notare che la crisi attuale, che tocca tutti gli aspetti della nostra condizione, incide a fondo in «tutto ciò che avevamo creato al fine di sviluppare e articolare il meccanismo della democrazia per proteggerci nel nostro vivere insieme». È proprio così. D’improvviso, ci sentiamo vulnerabili: a livello individuale, singolarmente, e tutti insieme in quanto nazione, anzi in quanto specie umana. Ma come ricordava Thomas Paine ai nostri progenitori in Senso comune del 1774, uno dei testi più influenti dell’età moderna, «quando soffriamo o sopportiamo ad opera di un governo quelle stesse sventure che ci aspetteremmo di patire in un paese privo di governo, la nostra disgrazia è acuita dalla considerazione che siamo noi stessi a fornire gli strumenti della nostra sofferenza. Il governo costituisce, proprio come gli abiti, il simbolo della perduta innocenza; i palazzi dei re sono stati eretti sulle rovine delle dimore del paradiso terrestre. Difatti, se gli impulsi della coscienza fossero chiari e coerenti, e venissero osservati in modo inflessibile, l’uomo non avrebbe bisogno di altro legislatore, ma non essendo questo il caso, egli si vede costretto a rinunciare a una parte di quanto gli appartiene per fornire gli strumenti necessari a proteggere il resto. A questo lo induce quella stessa prudenza che in ogni altra circostanza gli suggerisce di scegliere, tra due mali, il minore. Ragion per cui, essendo la sicurezza il vero scopo e il vero obiettivo del governo, ne consegue irrefutabilmente che la forma di governo da preferirsi a tutte le altre è quella che sembra la più idonea a garantire tale sicurezza con la minore spesa e i maggiori vantaggi»1.
Queste parole furono vergate da Paine più di un secolo dopo che Thomas Hobbes nel suo Leviatano – altro testo di fondazione della modernità – aveva proclamato che l’assicurazione e l’offerta di sicurezza fu la ragione prima, il compito supremo e l’obbligo inalienabile dello Stato: quindi, la sua ragion d’essere. Non possiamo vivere senza governi che non siano adeguatamente dotati di mezzi di coercizione. E il motivo di ciò per Hobbes era che in assenza di simili governi le persone sono afflitte da un «continuo timore»: la vita dell’uomo diventa allora «solitaria, misera, ostile, animalesca e breve»2. Lo scopo dell’avere un governo è di essere sicuri. Come osservava Sigmund Freud, pur di ottenere una maggiore sicurezza siamo disposti a sacrificare e ad essere privati di una buona dose di un altro valore che ci è caro, quello della libertà. Poiché questi due valori non sono del tutto conciliabili nella pratica (per ogni quota aggiuntiva di sicurezza bisogna rinunciare a una parte di libertà, e viceversa!), la vita umana è condannata a rimanere in un compromesso, pieno di risentimento ma inevitabile, fra una sicurezza sempre incompleta e una libertà sempre incompleta. Ed è nella natura di questo compromesso che non possa essere mai del tutto soddisfacente; ogni assetto specifico è il frutto di una negoziazione o una imposizione di un diverso equilibrio fra i due valori con i rispettivi benefici e perdite. Ci muoviamo a pendolo fra l’affannosa ricerca di maggiore libertà e l’affannosa ricerca di maggiore sicurezza. Ma non possiamo averle entrambe in quantità sufficiente. Come dice sconsolata la saggezza popolare, «non si può fare la frittata senza rompere le uova». E, come appunto osservava Paine, ci tocca sopportare da parte di un governo le stesse sventure che ci aspetteremmo di patire in un paese privo di governo. La terribile sventura da cui confidavamo che i governi ci liberassero e che invece ci assilla ai nostri giorni proprio per iniziativa dei governi, con la loro attiva partecipazione o con la loro rassegnata indifferenza, è in sostanza il senso di insicurezza della nostra vita. Come sottolinei giustamente, è proprio dal sistema democratico in quanto tale, cioè da quella fitta rete di istituzioni inventate con genialità e costruite con fatica dai nostri padri, che un numero sempre maggiore di loro figli e nostri contemporanei si sentono traditi e delusi.
La manifestazione più terribile di questa frustrazione è la crescente distanza tra quelli che votano e quelli che dal loro voto vengono insediati nel potere. Gli elettori si fidano sempre meno delle promesse che fanno le persone che essi stessi eleggono a governare; amaramente sconfessati dalle promesse mancate dei politici precedenti, difficilmente possono aspettarsi che questa volta le promesse vengano mantenute. Sempre più spesso gli elettori scelgono fra le varie proposte guidati più dalle vecchie abitudini che dalla speranza che il loro voto produca un cambiamento delle cose. Nella migliore delle ipotesi, si recano alle urne per scegliere il male minore. Per una grande maggioranza di cittadini, l’idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi nella giusta direzione (una possibilità che in passato aveva reso di solito la democrazia così attraente e aveva dato vigore all’attiva partecipazione alle procedure democratiche) raramente, o forse mai, è ora considerata credibile e a portata di mano. Come annotava J.M. Coetzee nel suo Diario di un anno difficile, «di fronte alla scelta tra A e B, dato il tipo di A e il tipo di B che in genere finiscono sulle schede elettorali, la maggior parte della gente, la gente comune, sarebbe portata a non scegliere né l’uno né l’altro. Ma quella è solo una propensione e lo Stato non si interessa di queste cose... Lo Stato scuote la testa. Devi scegliere, dice lo Stato: A o B»3. Stiamo assistendo ai nostri giorni al progressivo affievolirsi della scelta tradizionale tra «una serena servitù da un lato e una rivolta contro la servitù dall’altro», mentre non viene colto il nuovo atteggiamento che si sta configurando presso la maggior parte dell’elettorato nei confronti di quelli che elegge al governo; un terzo atteggiamento infatti va prendendo sempre più piede ed è scelto attualmente «da migliaia di milioni di persone ogni giorno»: una posizione che Coetzee descrive come segnata da «quietismo, voluta oscurità». Siamo al crollo della comunicazione fra la élite politica e il resto della popolazione?
Ricordiamo il Saggio sulla lucidità di José Saramago4, la brillante e profonda allegoria scritta nel 2004 – poco più di dieci anni fa –, o meglio quella premonitoria rappresentazione del punto cui alla fine potrebbe portarci la dissoluzione, al momento graduale ma continua, del potere d’integrazione della democrazia.
E.M. Tu usi un termine che da solo potrebbe definire tutta la fase che stiamo vivendo, e non sappiamo per quanto. Vulnerabili: noi, individui disorientati, ma anche la struttura sociale, indebolita, e infine la democrazia, esausta. Non è un concetto politico ma materiale, fisico e psicologico insieme. Ci indica fin dove può scavare la crisi, toccando la carne e lo spirito infragiliti delle nostre società. E hai ragione a dilatare la nozione di crisi, perché il disordine economico-finanziario ha potuto allargarsi a dismisura in quanto ha trovato i cancelli della democrazia aperti e scardinati, quindi si è insinuato comodamente nelle debolezze del meccanismo democratico, come ruggine. Il cortocircuito è evidente: la percezione della propria vulnerabilità genera un sentimento di paura; ma se il compito dei governi è di garantire innanzitutto sicurezza, i governi diventano i primi imputati davanti alla nuova insicurezza crescente. Anzi, la politica finisce per essere il campione di un mondo che non funziona, il suo totem rovesciato.
C’è persino una logica, in tutto questo. Lo scambio che tu evochi e che ha dominato la modernità – io cittadino sacrifico quote della mia libertà, in cambio tu Stato dammi porzioni crescenti di sicurezza, che per me valgono di più – bene, quello scambio si è bloccato. Allo Stato non interessano le mie quote in vendita perché la Borsa del potere fa il fixing altrove, negli spazi impersonali dei flussi. Soprattutto, il potere pubblico non ha più certezze e tutele da offrire e barattare e in ogni caso non può garantire ciò che vende, perché il governo deperisce e tutto è fuori controllo.
Ma noi avevamo consegnato allo Stato il monopolio della forza appunto perché ci difendesse come individui e come insieme, e attraverso il libero gioco della politica avevamo costruito un percorso di legittimazione di quel potere statuale e dei ruoli che ne derivavano, per tutti. Se il meccanismo si blocca, lo Stato si arrende alla crisi, l’economia finanziaria si dimostra una variabile indipendente, il lavoro diventa un bene precario e non uno strumento di costruzione di sé in rapporto con gli altri; se la globalizzazione dilata la scena a dismisura, allora salta anche il mio ruolo di cittadino, il vincolo di interdipendenza tra il singolo e il potere pubblico.
Tu indichi il punto di rottura nella distanza crescente tra elettori ed eletti, cioè nella crisi evidente della rappresentanza. Non si va più a votare, lo si fa con indifferenza e senza passione o almeno senza convinzione, non si crede più al suffragio come arma suprema per premiare e punire, dunque scegliere. È vero che il malessere della rappresentanza è antico e periodico. Già nel 1925 Walter Lippmann diceva che il cittadino «oggi si trova nelle condizioni di uno spettatore sordo nell’ultima fila, che dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo spettacolo ma non riesce più di tanto a tenersi sveglio»5. Ma quella sordità assonnata e disorientata, stanca, oggi è paradossalmente diventata politica al contrario, quasi che il disincanto avesse fatto un giro completo e il rifiuto della politica avesse dato forma all’antipolitica realizzata, come una volta c’era il socialismo reale. Jacques Julliard lo teorizza così: quando il sistema rappresentativo diventa «cattivo conduttore della volontà generale», a un livello più profondo «il rifiuto della politica tradisce una sorda aspirazione all’autonomia degli individui, una sorta di allergia alla nozione stessa di governo»6.
Ma oggi, proprio oggi, siamo un passo oltre: l’allergia al governo per il cittadino deluso mescola e confonde i concetti cardine della filosofia politica moderna e dai governi e dai partiti l’allergia si trasmette alle istituzioni, allo Stato. Fino all’ultimo gradino su cui abbiamo già posato il piede, il disincanto della democrazia. Ne vediamo i segni, dal consenso per il neoimperialismo di Putin al successo di Orbán o di Erdoğan. D’altra parte, quel bisogno elementare di sicurezza deluso, che cos’è oggi? Fondamentalmente, un timore che la governance democratica non garantisca più alcun controllo, perché la crisi e i suoi fenomeni collaterali non sono governati. Dunque siamo di fronte ad una insicurezza politica, prima di tutto ...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. Dentro uno spazio smaterializzato
  3. 2. Dentro uno spazio sociale mutante
  4. 3. Solitari interconnessi
  5. Epilogo