VII. La formazione dell’unità d’Italia
Al suo ritorno al governo Cavour era persuaso che le recenti dichiarazioni di Napoleone III nei confronti del potere temporale e il ravvicinamento franco-inglese aprivano la strada a passi decisivi verso l’annessione dell’Italia centrale. Il 27 gennaio invitò dunque Farini e Ricasoli a predisporre, sulla base della legge elettorale sarda, l’elezione di deputati che avrebbero poi preso posto nel parlamento di Torino, realizzando così nel modo più pratico ed efficace l’ingresso dell’Emilia e della Toscana nel nuovo regno. Le ultime proposte inglesi, fatte proprie e in parte provocate dalla Francia, condizionavano l’annessione a una nuova votazione, che confermasse i risultati di quelle dell’estate precedente: ma l’ostacolo non era grave e in compenso le due potenze occidentali garantivano il non intervento, con la sola riserva da parte francese di un previo riconoscimento austriaco della impossibilità di applicare, nella nuova situazione, gli accordi di Villafranca e di Zurigo. In realtà Napoleone III e Thouvenel non avevano abbandonato l’idea di un regno separato dell’Italia centrale: e questa tesi aveva, come sappiamo, fautori nelle sfere dirigenti parigine, ai quali si era aggiunto adesso anche il principe Napoleone. Ma il consenso all’annessione diretta al Piemonte pareva la via più adatta ad agevolare la cessione di Nizza e Savoia: e in questo senso Napoleone III ne scrisse a Vittorio Emanuele, suggerendo tuttavia che il re di Sardegna accettasse le Romagne come vicario del pontefice, e apertamente proponendo l’equivalenza fra la libertà di voto della Toscana e quella da riconoscere in Savoia e a Nizza. In pari tempo la questione delle due province transalpine veniva esplicitamente affrontata in alcuni articoli della stampa francese; e da parte sua Cavour, che non si faceva alcuna illusione a questo proposito, aveva già mostrato all’inviato francese una larga disponibilità ad accettare il libero voto delle popolazioni interessate, sia pure rinunciando a parlare del principio di nazionalità, che avrebbe chiamato in causa Venezia. Pur chiedendo che il voto toscano venisse ritardato in attesa dei chiarimenti che il governo di Parigi intendeva dare e ricevere in sede internazionale, Thouvenel annunciava da parte sua che la Francia era disposta a riaprire le trattative sulla «formation d’un royaume Italien d’environ onze millions d’âmes», e chiedeva perciò l’invio di Nigra a Parigi. Su basi come queste, «au soleil des 11 millions de sujets» prospettati da parte francese, Cavour si dichiarava pronto a marciare; ma non poteva vietarsi di pensare che le cose andavano «trop bien», e che probabilmente non tutte le pretese dell’alleato erano venute alla luce.
Diffidenze, del resto, non mancavano neanche da parte francese, e non senza giustificazione, almeno per ciò che riguarda Vittorio Emanuele: il quale da un lato con l’inviato francese si dichiarava entusiasta del vicariato nelle Romagne, che anzi sarebbe stata una sua vecchia idea, ma dall’altro confidava a Cavour che a suo avviso non bisognava «ceder niente se è possibile», e se mai riparlarne dopo ottenuta Venezia, e anche in questo caso solo se il sacrificio fosse apparso inevitabile. Non era l’avviso di Cavour, il quale si rendeva conto dei rischi di cui era seminata questa via; ma da parte sua anch’egli non era affatto disposto a seguire passivamente i disegni imperiali, sulla cui strada gettò un grosso ostacolo con una lettera che fece inviare da Vittorio Emanuele a Pio IX e che, allargando la proposta del vicariato alle Marche e all’Umbria, ne provocò il fallimento anche per la Romagna.
A partire però dall’inizio di febbraio gravi complicazioni si profilarono sul piano internazionale. Thouvenel proponeva una conferenza europea sull’Italia, previo però il riconoscimento della inapplicabilità dei patti di Zurigo, che di fatto rendeva inevitabile il rifiuto delle potenze conservatrici, dalle quali peraltro non sembrava doversi attendere una più seria opposizione. D’altra parte, le indiscrezioni su Savoia e Nizza avevano suscitato una tempestosa reazione dell’opinione pubblica inglese, riecheggiata violentemente nel corso dei dibattiti parlamentari per la ratifica del trattato di commercio anglo-francese, che su questo scoglio minacciarono di mettere in pericolo la stessa esistenza del gabinetto Palmerston, e compromisero in modo definitivo il ravvicinamento delle due potenze che nei mesi precedenti era parso così promettente. Thouvenel ritenne dunque opportuno informare il governo britannico che intese su Nizza e Savoia vi erano già state tra Francia e Piemonte nell’anno precedente, senza prevenirne Cavour, che invece per suo conto smentiva, restando fedele al segreto. Il presidente del consiglio sardo si trovò dunque improvvisamente scoperto davanti agli ambienti londinesi, nei quali da allora si moltiplicarono le accuse alla sua slealtà e doppiezza: nonostante che egli non avesse mancato di render nota a Hudson la disponibilità del governo di Torino a consultare la volontà delle popolazioni delle regioni chieste dalla Francia, e nonostante che i dirigenti inglesi di fatto avessero avuto da tempo sentore delle aspirazioni francesi anche da esponenti del governo di Parigi.
D’altra parte montava l’eccitazione dell’opinione pubblica francese, ormai mobilitatissima sulla questione, che al regime imperiale forniva l’opportunità non solo di giustificare la guerra impopolare dell’anno precedente, ma anche di compensare la recente perdita di simpatie nell’opinione cattolica. La crescente importanza della questione all’interno, la imprevista durezza della reazione inglese, che sollecitava a profittare della remissività delle potenze continentali prima che Londra riuscisse a mobilitare un più vasto schieramento ostile, le oscillazioni nella condotta delle autorità sarde, in Savoia e a Nizza, in parte dovute a inevitabili riguardi verso popolazioni da sempre fedeli e con forti correnti antiseparatiste, e in parte a cautele di politica internazionale, indussero dunque il governo francese a irrigidire sempre più il proprio atteggiamento. È anche possibile che la passività austriaca, russa e prussiana persuadesse il governo di Parigi che i suoi obiettivi potevano essere raggiunti con minori concessioni al Piemonte, secondo il disegno da tempo coltivato nelle sfere dirigenti francesi. Le proposte imperiali furono dunque precisate in termini assai deludenti per il Piemonte: annessione diretta dei soli ducati di Parma e Modena al Piemonte, vicariato nelle Romagne, regno separato in Toscana sotto un principe della dinastia sabauda, mentre restavano integre le richieste relative alla cessione di Savoia e di Nizza: in caso di rifiuto, le truppe francesi avrebbero lasciato la Lombardia, e il Piemonte avrebbe dovuto affrontare da solo la situazione «à ses risques et périls».
A Torino si lamentò il mutamento della politica imperiale: ma, incoraggiato anche dall’atteggiamento del governo britannico, che considerava il piano sottoposto da parte francese «as subversive of Italian independence», Cavour decise di procedere. Trasmise dunque le proposte imperiali ai governi dell’Italia centrale, ma li esortò a organizzare il voto a suffragio universale sull’annessione, dopo aver superato l’ostinata resistenza di Ricasoli, che considerava umiliante una nuova votazione dopo quella dell’estate precedente e proclamava Vittorio Emanuele il più forte sovrano d’Europa per il consenso popolare da cui era sostenuto: col solo risultato di provocare a beffarde considerazioni il realismo politico-militare di Cavour. Il conte era del resto convinto che la minaccia francese di abbandonare l’Italia a se stessa era un «ultimatum à l’eau de rose». Le votazioni, sull’alternativa tra l’unione alla monarchia di Vittorio Emanuele o un regno separato, furono dunque tenute l’11-12 marzo, con risultati schiaccianti a favore dell’annessione: risultati sco...