La politica estera dell'Italia
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La politica estera dell'Italia

Dallo Stato unitario ai giorni nostri

  1. 350 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La politica estera dell'Italia

Dallo Stato unitario ai giorni nostri

Informazioni su questo libro

Un secolo e mezzo di politica estera italiana, dalla proclamazione dell'Unità a oggi, attraverso l'esperienza post-risorgimentale e del periodo fascista fino alla Repubblica. L'Italia, a differenza di Stati più antichi come la Francia e l'Inghilterra, ha faticato ad acquisire una identità nazionale, basata su valori e programmi ben definiti. Il volume indaga sui motivi che hanno reso le azioni dei governi italiani talvolta prive di precise progettualità almeno fino all'ultimo ventennio, quando la posizione del nostro paese ha assunto un protagonismo diverso, con fasi di equilibrio e iniziative anche lungimiranti. In questa nuova edizione, Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace riflettono sulle ultime scelte riguardanti la politica estera, orientate da una strategia bipartisan: dall'impegno militare in Afghanistan – che ha visto a fine del 2009 un accordo tra maggioranza e opposizione – alla nostra missione in Libano, dove in nome dell'Onu l'Italia ha assunto il comando del contingente internazionale; dall'accordo storico con la Libia e dal nuovo rapporto della Russia con l'Unione europea alla conclusione dell'iter del Trattato di Lisbona, con un rinnovato sostegno italiano alla causa dell'Europa.

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IV. La politica estera di Mussolini (1922-1943)

1. Mussolini si presenta

Nel primo intervento parlamentare da capo di governo e ministro degli Esteri ad interim, Mussolini dedicava una parte importante del suo discorso alla politica estera che al momento «più di ogni altra cosa ci occupa e ci preoccupa».
Più che ai deputati, il discorso era diretto all’esterno, alle varie cancellerie europee che si domandavano quale sarebbe stata la linea politica del governo fascista appena insediato, dopo quella operazione per metà politica e per metà militare che era stata la marcia su Roma e che all’estero era stata diversamente valutata.
In Inghilterra la stampa liberale («Manchester Guardian») l’aveva giudicata come una rivolta anticostituzionale, mentre quella conservatrice («The Times») come una giusta reazione contro i pericoli del comunismo1.
In America gli stessi giornali erano passati in pochi giorni dall’aperta condanna alla benevola accoglienza e il «The New York Tribune» intitolava un editoriale del 31 ottobre 1922 «Garibaldi in camicia nera».
All’estero la situazione italiana era poco conosciuta e il fenomeno fascista lo era ancora meno: un chiarimento non poteva essere ulteriormente rinviato e lo stesso Mussolini preannunciava all’inizio del passaggio dedicato alla politica estera che quanto avrebbe detto «avrebbe dissipato molte apprensioni».
In realtà, Mussolini non aveva alcun programma di politica estera. Era a digiuno dei complessi meccanismi diplomatici e tanto meno – a differenza di quanto farà Adolf Hitler con il suo Mein Kampf – aveva affidato a un testo una sorta di «programma d’azione».
Comunque, dal quadro disegnato da Mussolini emergeva una politica moderata. I trattati, e soprattutto quelli della pace, sarebbero stati onorati poiché «un Paese che si rispetti non poteva fare diversamente»2, ma subito dopo, in omaggio alla tecnica di un colpo al cerchio e di un colpo alla botte, che sarà caratteristica dell’oratoria ma anche dell’azione mussoliniana, aggiungeva: «I trattati non sono eterni e irreparabili. Se nel corso della loro esecuzione si rivelassero errati e inadeguati, andrebbero riesaminati e rivisti».
L’Italia – continuava Mussolini – rimaneva fedele alle alleanze del tempo di guerra, ma i suoi alleati avrebbero dovuto farsi un esame di coscienza. L’Italia aveva perso posizioni in Adriatico e in Mediterraneo: alcuni dei suoi diritti fondamentali venivano posti in discussione, il nostro paese non aveva ricevuto né colonie né fonti di materie prime e si trovava letteralmente oppresso dai debiti contratti per far fronte alla causa comune. La permanenza dell’Italia nell’Intesa restava condizionata alla soluzione di questi problemi e al riconoscimento di uguali diritti per tutti i membri della coalizione, altrimenti il paese avrebbe dovuto recuperare la sua libertà d’azione per la protezione dei propri interessi nazionali. In conclusione: «Una politica estera come la nostra, una politica di interessi nazionali, di rispetto per i trattati, di ragionevole chiarezza di posizioni all’interno dell’Intesa; una tale politica non può essere fatta passare come avventurosa o imperialistica». «Vogliamo seguire una politica di pace, ma non una politica suicida»3.
Toni moderati, ispirati a ragionevolezza e pragmatismo, ma non privi di quel rivendicazionismo che permeerà tanta parte della politica estera italiana durante il periodo fascista e che vent’anni dopo, diventato parossistico nei toni e nella cadenza, porterà il paese alla guerra.
Per il momento prevale una linea di prudenza che si confermerà per più di un decennio, e che mira a mantenere normali rapporti con gli alleati del tempo di guerra verso i quali, di quando in quando, l’Italia avanzerà richieste e contestazioni, ma pur sempre nell’ambito di una politica di cooperazione internazionale e di conservazione della pace.
D’altronde le circostanze non permettevano una politica diversa. Sul paese premevano le emergenze economiche e sociali del dopoguerra, la nuova classe politica e lo stesso Mussolini, inesperti di governo e più ancora di politica internazionale, dovevano affrontare i problemi del consolidamento del potere.
Inoltre la situazione internazionale si andava normalizzando e il periodo turbolento del dopoguerra si stava concludendo. L’economia e la finanza miglioravano, Francia e Gran Bretagna trovavano nella Società delle Nazioni un punto di riferimento sicuro per la loro politica europea. La Germania stava per uscire dalla crisi monetaria che aveva polverizzato il marco e grazie ai capitali americani stava riaccendendo i motori. In Unione Sovietica la rivoluzione aveva ormai consolidato il proprio potere e dopo aver meglio definito le proprie frontiere esterne il paese si avviava verso una fase di «coesistenza pacifica» con l’Occidente4.
Proprio nel 1922 si concludeva la guerra tra greci e turchi con la vittoria di quest’ultimi e l’inizio per la Turchia di quel processo di occidentalizzazione sotto la guida di Kemal Atatürk che doveva trasformarla profondamente. Anche i nuovi Stati dell’Est europeo, nati dalla caduta dei vecchi imperi e dai trattati di pace, si stavano consolidando. Permanevano i contrasti tra il governo francese e quello tedesco per i debiti di guerra che porteranno nel gennaio del 1923 all’occupazione franco-belga del bacino carbonifero della Ruhr; una decisione sostenuta, almeno in un primo tempo dal governo Mussolini. Ma l’Europa e l’America si avviavano verso un periodo di stabilità internazionale e di crescita economica che non offrivano alternative e occasioni per manovre eversive e per il momento neppure per politiche revisioniste; salvo le insoddisfazioni e le lamentele di chi pensava di essere stato danneggiato o di non essere stato abbastanza favorito dalle manipolazioni versagliesi: i trattati di pace potevano essere criticati ma non sovvertiti.
Il fascismo, nella sua componente di esasperazione nazionalistica, di espansionismo territoriale, per il momento non trovava né condizioni né spazi per la realizzazione del suo obiettivo prioritario: quello di un’Italia grande potenza5. Restava la propaganda di regime che lo riproponeva di quando in quando e restava la tecnica mussoliniana dei colpi di scena, degli improvvisi mutamenti di linea, accompagnati da atteggiamenti minacciosi, del «niente per niente», episodi che tuttavia restavano isolati e venivano rapidamente composti per l’intervento della diplomazia professionale che in questi anni agisce come importante strumento di moderazione, di orientamento e di correzione degli eccessi di Mussolini di cui, se non la filosofia, condivide gli obiettivi.
Pur esercitando cautele e prudenze diplomatiche, Palazzo Chigi – diventato la sede del ministero degli Esteri dopo lo spostamento dal Palazzo della Consulta – simpatizza con la politica di Mussolini in questa prima fase. Solo due ambasciatori, il conte Carlo Sforza, ambasciatore a Parigi, e il senatore Alfredo Frassati, ambasciatore a Berlino, lasceranno la carriera per motivi politici. Più tardi, anche per l’immissione di elementi fascisti – come Dino Grandi, Giuseppe Bastianini e Filippo Anfuso – la diplomazia italiana diventerà strumento sempre più duttile nelle mani del dittatore, ma almeno fino all’arrivo di Galeazzo Ciano alla guida del ministero degli Esteri manterrà una sua autonomia di giudizio e con le prudenze del caso la userà a vantaggio del paese e della sua immagine internazionale.
Il primo test dei suoi rapporti con il futuro dittatore e la prima uscita internazionale di Mussolini coincise con la crisi di Corfù. Nell’agosto 1923 una missione militare italiana, incaricata dai paesi dell’Intesa di tracciare la linea di confine greco-albanese, veniva attaccata da elementi nazionalisti locali, ma di cui le indagini successive non riusciranno a stabilire l’identità, e quattro dei suoi membri, compreso il capo-delegazione, generale Enrico Tellini, venivano assassinati.
Due giorni dopo Mussolini inviava un ultimatum alla Grecia in cui si chiedeva la condanna a morte dei colpevoli e una serie di risarcimenti morali e materiali estremamente onerosi. Poiché il governo greco aderiva solo in parte alle richieste italiane, Mussolini mobilitava una squadra navale che, dopo aver bombardato Corfù, procedeva a sbarcare truppe e a occupare l’isola. Per una parte della stampa internazionale e in particolare per quella britannica il «malaugurato inutile bombardamento»6 rivelava il vero volto del fascismo, il suo spirito aggressivo e il disprezzo delle convenzioni internazionali.
In realtà, Mussolini aveva esagerato per dare, più che al mondo, al paese una prova di quella determinazione nella difesa del prestigio nazionale a cui la politica fascista affermava in ogni occasione di ispirarsi. Dovette riconoscere di aver esagerato anche il futuro dittatore, che – anche su consiglio del segretario generale del ministero degli Esteri, Salvatore Contarini, siciliano, allievo di Antonino di San Giuliano, che fino al 1926 eserciterà una notevole influenza moderatrice sulla politica mussoliniana – nei giorni successivi attenuò i toni.
Ma poiché Mussolini aveva escluso che del problema potesse occuparsi la Società delle Nazioni, sede naturale per una controversia che investiva due membri dell’organizzazione, la questione di Corfù acquistava una dimensione ideologica che rendeva più difficile la sua soluzione. Saranno l’intervento del governo inglese, protettore della Grecia ma interessato anche a mantenere il tradizionale rapporto di amicizia con l’Italia, e la collaborazione del governo francese a risolvere il caso.
Della questione veniva investita la conferenza degli ambasciatori dell’Intesa che, insieme alle scuse del governo greco, decideva per un’indennità di cinquanta milioni di lire a favore dell’Italia, che a fine settembre ritirava le proprie truppe da Corfù. Con questa soluzione, accettata da ambedue le parti in conflitto, si concludeva la prima infelice uscita internazionale del governo di Mussolini che, in un discorso al Senato, tenuto qualche tempo dopo, dichiarava che «l’occupazione di Corfù è stata fatta anche per rialzare il prestigio dell’Italia»7. Già in questa fase il prestigio dell’Italia e quello personale di Mussolini coincidevano.

2. La politica danubiano-balcanica

I due anni successivi all’episodio di Corfù furono privi di fatti rilevanti. L’attenzione di Mussolini si spostava su questioni interne: le elezioni del 1924, che davano al «listone» fascista il 66,3 per cento dei voti e 374 seggi su 535, il delitto Matteotti con le sue conseguenze e la graduale trasformazione del sistema politico in regime.
Saranno soprattutto le questioni balcaniche e dell’Europa orientale a occupare le cronache della politica estera italiana. Oltre al già menzionato accordo con la Jugoslavia per il trasferimento di Fiume all’Italia e dei suoi dintorni al governo di Belgrado, l’Italia stipulava una serie di trattati con i nuovi Stati dell’area danubiana: così, nel luglio del 1924, un’intesa di amicizia e di collaborazione per il rispetto delle decisioni di Versailles con la Cecoslovacchia; un accordo commerciale italo-ungherese nel settembre 1925; uno italo-rumeno sui prestiti di guerra nel giugno ’26; e, ancora con la Jugoslavia, un trattato di commercio e navigazione il 14 luglio ’24 e un altro sui confini dalmati il 18 luglio ’25. Già nel febbraio 1924 l’Italia aveva riconosciuto il governo sovietico, con cui tuttavia nel corso del ventennio manterrà rapporti più economici che politici, esportando macchinari per i piani quinquennali staliniani e importando carbone.
Più tardi, nel corso della seconda metà degli anni Venti, altri trattati venivano stipulati dall’Italia con la Bulgaria, con la Grecia, con la Turchia e in particolare con l’Albania. Se si esclude l’Albania, nei confronti della quale l’Italia manifesterà una costante attenzione fino all’occupazione e all’annessione nella primavera del ’39, la politica danubiano-balcanica rispondeva più a obiettivi di prestigio e di interdizione dell’influenza altrui che all’instaurazione di rapporti miranti a una politica e a un progetto comune tra i contraenti.
L’azione di interdizione era diretta contro la Francia che curava con molta assiduità i rapporti con gli Stati della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia) e più tardi, nel corso degli anni Trenta, e per un breve periodo, nei confronti della Germania che già prima dell’avvento del nazismo aveva ripreso la sua tradizionale politica di penetrazione in quella parte d’Europa.
L’Ungheria e la Romania saranno gli alleati di riferimento dell’Italia, ma, date le molte ragioni di concorrenza e di conflittualità tra ungheresi e rumeni, le relazioni rimarranno bilaterali: un tipo di rapporto verso il quale il governo di Roma esprimerà una decisa preferenza, perché meglio si presterà ai suoi obiettivi di presenza nella zona e gli eviterà di assumere impegni gravosi e prolungati nel tempo tali da impedire una politica delle mani libere.
La presenza italiana nell’area danubiano-balcanica troverà nell’influenza dell’ideologia e del modello fascista un importante canale di penetrazione. In Austria, nei paesi baltici, in Grecia e soprattutto in Ungheria e Romania il fascismo susciterà forti simpatie. Movimenti e governi si ispireranno alle idee e alle istituzioni del fascismo, creando per l’Italia una posizione di prestigio, ma che paradossalmente faciliterà più tardi la penetrazione nell’area della Germania nazista8.
Diverso il rapporto con la Jugoslavia, nei confronti della quale resteranno sempre il sospetto e l’inimicizia, di origine risorgimentale, verso quella nazionalità croata che era sempre apparsa agli italiani come la principale componente del potere austriaco. Ma oltre alle antipatie storiche e a quelle più recenti relative alla disputa dalmata, nei rapporti con la Jugoslavia giocava anche il comune e conflittuale interesse per l’Albania, dove tra il 1924 e il 1926 l’Italia, come reazione a iniziative jugoslave dirette a interferire nella politica albanese, gettò le basi di un vero e proprio protettorato approfittando del conflitto interno tra il vescovo ortodosso Fan Noli e il primo ministro albanese, principe Ahmed Zogalli.
Dopo la vittoria di quest’ultimo, nel marzo 1925, il governo di Roma stipulava un trattato che legava economicamente il piccolo paese all’Italia (nonché lo stesso Zogalli grazie a generose sovvenzioni) e pochi mesi dopo un patto militare segreto che, in caso di bisogno, avrebbe trasformato l’Albania in una vera e propria testa di ponte per eventuali operazioni italiane nell’area balcanica. Seguivano nel novembre 1926 un’alleanza difensiva, il primo Patto di Tirana, e quindi un secondo Patto di Tirana, stipulato nel novembre 1927, in risposta ai ripetuti scontri di frontiera tra elementi dell’esercito jugoslavo e di quello albanese.
I due patti di Tirana completavano la serie degli accordi confermando l’esistenza di una specie di protettorato italiano su...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. I. La politica estera dell’Unità (1861-1870)
  3. II. L’Italia nella Grande Alleanza (1871-1900)
  4. III. L’Italia e la prima guerra mondiale (1901-1921)
  5. IV. La politica estera di Mussolini (1922-1943)
  6. V. Dalla sconfitta alla Costituzione repubblicana (1943-1948)
  7. VI. Le scelte della ragione: atlantismo ed europeismo (1948-1955)
  8. VII. Speranze, illusioni e delusioni di una media potenza (1956-1989)
  9. VIII. La transizione incompiuta (1989-2010)
  10. IX. La politica estera della globalizzazione (2010-)
  11. Bibliografia essenziale