Sempre più blu
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Operai nell'Italia della grande crisi

  1. 160 pagine
  2. Italian
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Operai nell'Italia della grande crisi

Informazioni su questo libro

La lotta di classe è finita, sostengono alcuni. Imprese e sindacati hanno opinioni diverse ma una cosa è certa: gli operai non sono scomparsi. La tuta blu non è un ricordo del Novecento, contiene ancora oggi storie, passioni, lotte. E soprattutto persone. Antonio Sciotto racconta le loro esperienze, entra nelle fabbriche piccole e grandi e spiega cosa sta cambiando: i conflitti alla Fiat dopo l'arrivo di Marchionne al timone del gruppo; la paura per il posto di lavoro e la diffidenza verso gli immigrati; gesti estremi quando si è perso il proprio reddito e fantasia nei nuovi tipi di protesta. Fra gli operai che si arrampicano su una gru o quelli che si autorecludono su un'isola, c'è anche la storia di chi sogna un futuro senza più fabbrica: accade a Taranto, dove la città è avvelenata da un'acciaieria e gli abitanti si interrogano sulla possibilità di un diverso modello di sviluppo.

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Informazioni

Argomento
Economia
Categoria
Giornalismo

1. C’era una volta lo sciopero: gli operai dal tetto all’isola

I leoni sul tetto

«Hic sunt leones». Hanno scritto così, su un grande striscione appeso fuori dalla fabbrica, gli operai dell’Innse di Milano. Stavano occupando il loro stabilimento. Anzi, in realtà, presidiavano la portineria per impedire che il padrone potesse entrare con una squadra speciale di smontatori e portare via i macchinari che aveva già venduto. Nei giorni più intensi della loro lotta, poi, in cinque si sono arrampicati su un carroponte, una sorta di gru alta sedici metri. Da lì non si sono più mossi e hanno vinto: hanno conservato il posto di lavoro, tutte le macchine e la loro industria. E oggi sono anche di più: il nuovo titolare assume giovani tute blu, e vuole ampliare la produzione. Una storia a lieto fine: dura, ma con una bella conclusione. Rara, al giorno d’oggi: contro la crisi molti operai si battono, resistono fino allo stremo delle forze, ma spesso non riescono a evitare gli esuberi, la mobilità, il licenziamento. A volte è la crisi a battere loro.
All’Innse, però, hanno offerto un esempio diverso: sono stati i primi lavoratori italiani a salire in alto, e dopo di loro tanti altri si sono arrampicati sulle torri, sul tetto delle fabbriche, persino sul Colosseo. Li hanno «imitati», anche se in alcuni casi non con lo stesso successo. Con la volontà di attirare i mezzi di informazione, di entrare nel circo mediatico per poter avere voce. Gli operai del Novecento facevano massa, scendevano in piazza o occupavano le fabbriche, e ottenevano spesso il sostegno dei partiti, quello dei sindacati. In modo «organico», perché una parte della società – la sinistra, il sindacato, appunto – era organizzata, sintonizzata sui loro bisogni. Oggi gli operai cercano prima di tutto che si accenda una telecamera: poi, se la mobilitazione dei media è potente, a ruota arrivano anche i politici. E il sindacato, se all’inizio magari è troppo «timido», li appoggia con maggiore convinzione. Ma fondamentale diventa il sostegno di qualcosa che sta fuori dalle forze organizzate, tipiche del secolo scorso: devi fare simpatia alle associazioni del territorio, dai centri sociali fino ai gruppi di quartiere, le comunità religiose e gli ambientalisti. E soprattutto devi bucare su Internet: sul popolo di Facebook, che ti tagga e ti mette in connessione, che moltiplica la tua storia, tanti quanti sono i link che riesce a creare nel mare magnum del web.
Per questo i nuovi operai, se fanno conflitto con il padrone – e in questo si rivelano ancora molto «classici» –, ci tengono a stringere amicizia, invece, con la società. Così, se possono, evitano azioni «aggressive», come occupare una strada o fermare i mezzi pubblici. Intendiamoci, questi episodi accadono ancora, e nelle cronache si continua a leggere di tute blu che bloccano un’autostrada o un aeroporto. Ma spesso sono azioni che non producono grande eco mediatica, perché piuttosto inflazionate, percepite probabilmente come «vetero»; e che perdipiù offrono il fianco ai facili attacchi delle controparti, o dei gruppi antipatizzanti (dai politici alla stampa, che non nutrono particolari simpatie per gli operai). Al contrario, ci sono lavoratori che hanno sperimentato nuove strade, come, appunto, i «leoni» dell’Innse o i famosi cassintegrati dell’Asinara (che prima famosi non erano, ma lo sono diventati grazie all’idea originale di lasciare le proprie case e recludersi su un’isola). Questi lavoratori fanno «male», per così dire, solo a se stessi: e questo mettersi al centro, con il proprio corpo e la propria anima, con la passione della lotta ma senza scivolare nel vittimismo, attira le simpatie della società civile. Convogliando su di loro l’attenzione dei media e della politica.
Essenziale, per gli operai che lottano, è che le proprie famiglie capiscano e sostengano: a parte la rete di solidarietà che si forma nella società, infatti, questi lavoratori hanno bisogno di sentire che le proprie mogli o mariti, i propri figli, stanno dalla loro parte. Molti raccontano dell’importanza delle visite dei familiari e degli amici nelle fabbriche occupate, fino al ritiro nell’isola, lontano dalla costa. Per il contatto umano, certo, ma anche per sentirsi ancora accettati nonostante si stia perdendo il posto: il rischio è infatti che con la notizia della cassa integrazione, o, peggio, del licenziamento, monti un sentimento di frustrazione, di rassegnazione. Bisogna evitare di cadere in depressione, di giungere ad azioni che sono forse l’opposto delle lotte sui tetti: arrivare a farsi male come atto estremo individuale, fino a togliersi la vita, come pure sta accadendo a diversi imprenditori e operai durante la crisi peggiore dal dopoguerra.
Un’altra caratteristica degli operai di oggi, lo vedremo dalle loro storie, è dunque una forte attenzione all’affettività, alle relazioni familiari e amicali. Rispetto alle tute blu degli anni Settanta, sono più ripiegati sul privato. E quando chiedi loro: «sei di destra o di sinistra?», in molti casi rispondono di votare il partito in cui, volta per volta, si identificano di più perché meglio risponde – o perlomeno promette di rispondere – ai loro bisogni immediati: la conservazione del posto di lavoro, una città vivibile e sicura. «Non importa se di destra o di sinistra, basta che risolvano il nostro problema, che salvino la nostra fabbrica», rispondono soprattutto i lavoratori sui trenta-quarant’anni. Naturalmente queste affermazioni non hanno alcuna pretesa di sondaggio scientifico, solo che durante i nostri viaggi attraverso le fabbriche ci siamo sentiti rispondere frequentemente così, e questo dunque registriamo.
L’allentarsi della dimensione ideologica, tipica del Novecento, ha anche affievolito la partecipazione, la militanza degli operai nei partiti tradizionali. Inoltre, molti di quelli che abbiamo intervistato, non si vedono come fautori di un cambiamento, di una «rivoluzione» che vogliono agire nella società, come invece avveniva per i loro genitori del secolo scorso, magari animati dall’adesione al Pci o ad altri partiti della sinistra, parlamentare e non. L’essenziale, per molti, è ritornare alla serenità che vivevano in passato, prima della crisi che ha investito in particolare la loro azienda. Avere denaro sufficiente per una vita dignitosa per sé e la propria famiglia, ritrovare quella quotidianità interrotta traumaticamente dal periodo buio della recessione. È anche vero, però, che dopo l’esperienza della lotta cambiano, e guardano alla società con occhi più coscienti, in alcuni casi diventano più attivi politicamente, o perlomeno più attenti a distinguere tra i diversi partiti al momento del voto (perché si abituano a parlare con politici e giornalisti). Ma anche e soprattutto molto più attivi sindacalmente: in diversi casi abbiamo incontrato operai che si sono iscritti per la prima volta al sindacato in occasione della nuova vertenza che li ha coinvolti. E capita quindi che si «fidelizzino» all’organizzazione solo in seguito, scegliendo di conservare la tessera e magari di impegnarsi in prima persona come delegati.

I primi a cercare il cielo: gli operai Innse di Milano

Sono stati loro i primi operai a salire in alto per protesta: non su un tetto, però, come faranno successivamente molti altri. Sono montati su un «carroponte», una sorta di gru interna allo stabilimento, usata per movimentare il materiale e spostarsi da una parte all’altra dell’impianto. Si tratta delle tute blu dell’Innse, un’industria milanese che produce grosse valvole per oleodotti e gasdotti. Questi lavoratori, con la loro passione e una lotta lunga un anno e mezzo, non hanno salvato soltanto il proprio posto: hanno tenuto insieme e rilanciato una fabbrica che non era condannata dalla crisi, perché era stata sempre produttiva e non aveva problemi, ma che doveva essere smembrata, venduta a pezzi per fare spazio a un grosso progetto immobiliare.
La Innse faceva parte originariamente della Innocenti: negli anni Sessanta era un anello del celebre gruppo milanese che produceva anche la Lambretta, e automobili a proprio marchio. Nel 1971 viene ceduta all’Iri, e poi, nel 1995, alla tedesca Demag. Nel 2000 l’industria passa al gruppo Manzoni, ma già nel 2002, a causa delle difficoltà economiche della casa madre, viene messa in amministrazione controllata. Nel 2006, provvederà a rilevarla, per un prezzo molto inferiore al suo valore reale, l’imprenditore Silvano Genta, che tra l’altro ha come supporter il leghista Roberto Castelli: si aggiudica l’Innse per circa settecentocinquanta mila euro, quando più avanti, dalla vendita di solamente due dei diciotto macchinari complessivi, riuscirà a spuntare oltre il doppio. Il fatto è che l’Innse ha un notevole patrimonio di macchine, e non ha mai avuto crisi di commesse, ma in questo passaggio vale molto poco in quanto commissariata dallo Stato, in forza della legge Prodi (fatta per salvare le aziende in difficoltà). Ha peraltro ormai soltanto cinquanta dipendenti, quando a pieno regime potrebbe dare lavoro a centocinquanta persone. Genta si impegna a rilanciare lo stabilimento, ma sono solo promesse: nel maggio 2008, infatti, esattamente alla scadenza dei due anni previsti dalla legge in cui non può licenziare, decide di chiudere bottega e dà il benservito a tutti. Il 31 maggio le tute blu dell’Innse ricevono una inaspettata lettera di licenziamento: una doccia gelata.
«In quella lettera c’era tra l’altro scritta una grossa bugia – spiega Roberto Giudici, della Fiom Cgil di Milano, uno dei cinque saliti sul carroponte –. Diceva che l’azienda aveva ormai un parco macchine obsoleto, superato. È stato questo a fare arrabbiare di più gli operai: loro conoscevano bene la potenzialità della fabbrica, l’eccellenza delle sue produzioni e dei macchinari, del fatto che non aveva mai avuto crisi di commesse e che anzi era sempre stata tenuta parecchio al disotto delle sue potenzialità. Così, il giorno stesso in cui sono arrivate le lettere, c’è stato un tam tam tra i lavoratori, una riunione in cortile e si è deciso di occupare la fabbrica. La produzione avrebbe dovuto cessare dalla settimana successiva, ma gli operai hanno deciso che avrebbero continuato da soli la commessa che stavano lavorando in quel periodo, e che l’avrebbero regolarmente consegnata all’azienda committente».
Per capire come mai il proprietario della Innse, Silvano Genta, possa dichiarare nella lettera che una fabbrica in attivo è ormai decotta, bisogna fare un passo indietro. La Innse si trova in via Rubattino, a Lambrate. Lì, in passato, c’era una grossa area industriale, oggi praticamente dismessa. Il nuovo piano regolatore prevede una riconversione per quest’area: una profittevole riconversione, venticinque mila metri quadrati da destinare ad aree residenziali, commerciali, uffici in vista dell’Expo 2015. Ma in mezzo c’è l’Innse, e finché resta operativa nessuno ha il diritto di estrometterla. La proprietaria dell’area di via Rubattino è l’immobiliare Aedes, che comincia a corteggiare Genta perché dismetta la fabbrica. Genta avrebbe così una doppia convenienza: poter vendere tutti i macchinari (per svariati milioni di euro) e uno stabilimento che, per la sua posizione strategica, ha un valore enorme. L’accordo è di quelli d’oro, e l’unico ostacolo sono le tute blu. Ostinate, non vogliono che la fabbrica chiuda.
Ma torniamo al 31 maggio 2008, quando i dipendenti dell’Innse ricevono le lettere di licenziamento. In quel periodo stanno ultimando la commessa di un’impresa bresciana, la Ormis. Il 1° giugno sarebbero partiti i settantacinque giorni previsti dalla procedura di mobilità, e così gli operai hanno l’idea di fare uno «sciopero al contrario»: invece di bloccare la produzione, decidono di trascorrere lavorando i mesi che hanno di fronte. Occupano la fabbrica, anche se bisogna dire che questo termine – «occupare» – non li vede d’accordo. Ai giornali che li intervistano in quell’estate del 2008, dicono che stanno semplicemente «continuando a lavorare», che stanno «difendendo il diritto al lavoro». Tra l’altro, Genta ha già venduto i due macchinari, e la notte tra il 31 maggio e il 1° giugno tenta anche una sortita, con una squadra di smontatori, per portarli via: ma i lavoratori, già in occupazione, respingono l’attacco.
Comincia così il lavoro in una fabbrica «senza padrone»: gli operai vengono affiancati, tra l’altro, dall’ingegnere a capo della produzione, che decide di rimanere accanto a loro. Per farli desistere, Genta comincia a non pagarli più. Dunque da giugno a settembre, quando consegnano la commessa finita alla Ormis, le tute blu dell’Innse lavorano senza ricevere lo stipendio.
«Per prendere una decisione del genere, restare a lavorare anche se il padrone ha rinunciato alla fabbrica – spiega il sindacalista Giudici – devi conoscere la produzione alla perfezione. Gli operai dell’Innse sono altamente specializzati, conoscono bene i macchinari e così non hanno avuto dubbi». La commessa viene regolarmente finita in settembre, e la Ormis resta talmente colpita dalla determinazione degli operai, oltre che dalla qualità del lavoro svolto, che decide di offrire a Genta di rilevare l’Innse, per inserirla direttamente nella propria filiera produttiva.
A questo punto, si scoprono le carte: Genta nicchia, e passa talmente tanto tempo che la Ormis alla fine desisterà dall’offerta. Il fatto che sia arrivata una proposta per la fabbrica, e non da un soggetto qualsiasi ma da un committente che ne ha apprezzato il prodotto, fa comprendere come siano state speciose le ragioni addotte per disporre la chiusura. La Innse è un’azienda sana, ma gli interessi immobiliari sull’area dove è situata la fabbrica sono probabilmente più forti.
In settembre la magistratura dà ragione a Genta, che nel frattempo ha denunciato gli operai perché occupano lo stabile e gli impediscono di portare via i macchinari già venduti. Vengono messi i sigilli alla fabbrica, e i lavoratori vengono sgomberati. D’altra parte non c’è più nulla da fare: dopo quella della Ormis non sono arrivate altre commesse, a causa della situazione precaria della Innse. Genta accetta di pagare gli stipendi arretrati e le tute blu entrano in mobilità, percependo da ottobre 2008 assegni di settecentocinquanta-ottocento euro al mese. Comincia così la fase più difficile della lotta: resistere mentre la produzione è ferma, e difendere i macchinari dal padrone che li vuole smontare e vendere uno a uno.
Interessante è il modo in cui viene portata avanti la resistenza: i dipendenti dell’Innse, sfrattati dall’interno della fabbrica, si stabiliscono nella portineria. E lì mettono in piedi un vero e proprio presidio, che occupano giorno e notte, per sorvegliare che Genta non tenti un blitz per riprendersi le macchine. Si riproducono gli stessi turni della fabbrica, solo che invece di stare sulle linee, si sta al presidio: la potremmo definire la «catena di montaggio» della protesta. C’è anche la «mensa», naturalmente: cucinano due ex operai, marito e moglie pensionati, della Borletti, un’industria dei dintorni. I primi giorni, il cibo viene dalle famiglie degli stessi operai, ma in seguito l’occupazione comincia a fare breccia anche fuori, e così arriva la solidarietà di tante associazioni, centri sociali, o di semplici cittadini.
Riproducendo i tempi della fabbrica, gli operai sentono di non essere «inutili» per la società, non sopravviene cioè la tipica frustrazione di chi ha perso il lavoro e si trova in mobilità. O meglio, le paure e gli incubi della disoccupazione vengono esorcizzati nella lotta. «Oltretutto – spiega il sindacalista della Cgil – in questa fase è stato fondamentale l’appoggio delle famiglie, delle mogli. Era difficile spiegare loro che ti accontentavi di settecentocinquanta euro al mese della mobilità, mentre dall’altro lato la gran parte degli operai avrebbe potuto trovare lavoro, dato che i dipendenti dell’Innse sono in possesso di una specializzazione molto particolare: non tutti sanno far funzionare quei macchinari così complessi. Le loro mogli avrebbero potuto dire: ‘Perché ti ostini a salvare quella fabbrica? Trova un altro posto e riprendiamo la vita normale’».
In base a quale diritto, soprattutto, gli operai possono impedire al padrone della fabbrica di riprendersi i suoi macchinari? Perché non rispettano il diritto di proprietà? Lo spiega Roberto Giudici: «Noi lo abbiamo sempre detto, ogni volta che ci contestavano per il fatto che impedivamo a Genta di prendere i macchinari: questi appartengono innanzitutto alla fabbrica, e una fabbrica, se funziona bene, se ha commesse e va in attivo, è prima di tutto un bene sociale. La Costituzione italiana prevede che la proprietà privata sia limitata in base alla sua funzione sociale, e dunque nel difendere l’integrità della Innse si tutelava una fonte di benessere e occupazione per la società. Sapevamo che quella fabbrica, a regime, avrebbe potuto dare lavoro al triplo delle persone occupate in quel momento, e soprattutto era necessario conservarla integra, con tutti i macchinari. Infatti c’erano anche dei doppioni di alcune macchine, utili per poter avviare diverse produzioni in parallelo in particolari fasi della domanda. Tutto questo i lavoratori lo sapevano bene, e per questo hanno difeso lo stabilimento come un loro bene».
E non hanno mai pensato di diventare una cooperativa? Magari per rilevare, almeno in parte, la fabbrica? «No – risponde Giudici –. Loro hanno un’impostazione molto classica, credono nel conflitto di classe: e allora non puoi diventare padrone dell’industria, anche in forma cooperativa. Perché poi, mettiamo che tu debba chiedere più produttività, più ore di lavoro agli operai... o mettiamo che tu sia costretto a licenziare. Chi si prende la responsabilità di danneggiare altri lavoratori? Per questo il loro obiettivo è sempre stato quello di trovare un’altra proprietà, e con quella riprendere poi a trattare in futuro per migliori condizioni».
A colpi di carte bollate, Genta cerca più volte di riprendersi i macchinari: via via ne vende qualche altro all’esterno, invia delle squadre per riprenderseli, con l’assistenza delle forze dell’ordine, ma ogni volta deve fare marcia indietro. Il presidio continua per mesi e mesi, da ottobre 2008 ad agosto 2009. In particolare, una notte di febbraio 2009...

Indice dei contenuti

  1. — dedica
  2. Premessa
  3. 1. C’era una volta lo sciopero: gli operai dal tetto all’isola
  4. 2. La solitudine dei lavoratori: l’ondata dei suicidi che parte da Nord-est
  5. 3. La grande industria in dismissione: il futuro è un’incognita a Termini Imerese
  6. 4. L’operaio che non vuole più la fabbrica: l’Ilva di Taranto e la città inquinata
  7. 5. Operai e operaie. La vita quotidiana al tempo della crisi
  8. 6. Essere stranieri in fabbrica nell’era della Lega
  9. 7. Tornano i conflitti: lo scontro tute blu-Fiat da Melfi a Pomigliano
  10. Bibliografia