1. Cento anni di storia
D. Sotto il nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassare e di Nostro Signore Gesù Cristo che dalla terra morto risuscitò in cielo, così noi saggi fratelli formiamo questo sacro Vangelo... Giuro sopra questa arma e di fronte a questi fratelli di non partecipare a nessuna società e a nessuna organizzazione tranne al Sacro Vangelo. Giuro di essere fedele dividendo sorte e vita con i miei fratelli.
R. Lo giuro.
Formula rituale di affiliazione, tratta dal codice sequestrato nel giugno 1987 nel covo del latitante Giuseppe ChilÃ
Poi noi siamo là , viviamo là : abbiamo il passato, il presente, il futuro...
Dalla sentenza del tribunale di Palmi contro Sicari e altri, 23 maggio 2000
Gaetano Savatteri La ’ndrangheta si presenta come un potere antico, forte e tenace. Un potere ben radicato: nel territorio e nel tempo. Il 27 settembre 2007 il boss di Gioia Tauro, Girolamo Molè, discute con il nipote Domenico Stanganelli. Il momento è critico: dopo una lunga alleanza, i rapporti tra le famiglie Molè e Piromalli si stanno guastando, i Piromalli acquistano sempre più terreno e questo rischia di accendere tensioni tra i due clan. Ignaro di essere intercettato, Molè spiega: «Gli deve dire: ti devi stare a posto tuo. Perché qua ci sono cento anni di storia che non la puoi guastare... allora la storia qualcosa conta, i sacrifici, il carcere e tutto il resto conta... noi rispettiamo il passato e rispettiamo la storia... e non sbaglieremo mai. Mai!». È una frase che mi ha particolarmente colpito: i capi della ’ndrangheta rivendicano con orgoglio la propria appartenenza a una storia criminale che si tramanda di generazione in generazione. Ad ascoltare le parole di questo capoclan, si intuisce la superbia, quasi che l’appartenenza alla ’ndrangheta sia un blasone di cupa nobiltà ...
Giuseppe Pignatone Questa frase ha colpito anche noi. Infatti, il procedimento contro Girolamo Molè lo abbiamo denominato proprio così: «Cento anni di storia». Emerge da queste parole la rivendicazione di una storia secolare. Trapela l’orgoglio di un potere costruito su riti, relazioni e contatti che si tramandano da una generazione all’altra. Ma questa frase contiene anche la consapevolezza che questo valore è talmente alto da meritare il sacrificio di altri valori minori. Nel momento in cui cominciano a nascere tensioni tra i Piromalli e i Molè, due famiglie storicamente alleate, il senso della conversazione lascia intendere che bisogna sacrificare qualcosa perché cento anni di storia non si possono dimenticare e perché l’alleanza tra i due clan è il nodo e il fondamento di questa storia secolare.
Savatteri La rivendicazione di una storia secolare smentisce categoricamente quanto a metà degli anni Ottanta ripeteva il pentito di Cosa Nostra Tommaso Buscetta, quando sosteneva che camorra e ’ndrangheta di fatto non esistevano, se non sotto forma di declinazioni di Cosa Nostra. Per molto tempo questa lettura ha impedito di attribuire alla ’ndrangheta un proprio percorso criminale e sociale, autonomo dalle altre realtà mafiose.
Pignatone Nell’interpretazione di Buscetta esistevano solo i pezzi di camorra e ’ndrangheta alleati a Cosa Nostra e che da Cosa Nostra traevano regole e forza.
Savatteri Quella di don Masino era una semplice sottovalutazione della forza criminale della ’ndrangheta o una visione tradita dall’orgoglio, già espresso in altre occasioni da Buscetta, di appartenere a Cosa Nostra, considerata in quella fase l’organizzazione criminale più potente al mondo?
Pignatone Probabilmente c’erano entrambe le cose. I mafiosi siciliani, specialmente quelli storici come Provenzano, Riina e Buscetta, sono stati profondamente convinti del valore superiore della loro appartenenza, della loro organizzazione, della loro condotta.
Michele Prestipino E questo vale perfino dentro Cosa Nostra, dove i mafiosi palermitani si sentivano nettamente superiori ai catanesi. C’è una storia molto significativa che spiega queste dinamiche, vero?
Pignatone Sì. Nel novembre del 1993 si pente Gioacchino La Barbera, autista e guardaspalle di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, che allora facevano coppia fissa mantenendo il predominio corleonese su Cosa Nostra. Durante un interrogatorio, La Barbera racconta di avere accompagnato più volte l’uno o l’altro a Catania per incontrare Giuseppe Pulvirenti, detto ’u Malpassotu, che all’epoca era il numero due dell’organizzazione etnea. In una di queste occasioni, mentre i capi erano riuniti a discutere, La Barbera resta a chiacchierare con Maurizio Avola, guardaspalle di Pulvirenti. Aspettando fuori, come sempre avviene in questi casi, di cosa parlano i due autisti? Parlano dei loro capi e di quello che dicono e fanno. Così viene fuori la storia di un carabiniere di origini palermitane, ma in servizio a Catania, finito sul libro paga della mafia catanese. Il carabiniere, nonostante ricevesse uno stipendio mensile dalla famiglia mafiosa di Catania, ne approfittava: spesso andava in qualche autosalone legato al clan, prendeva un’auto e la pagava con assegni a vuoto. Malgrado le lamentele, i catanesi subivano. A un certo punto, il carabiniere viene trasferito da Catania a Palermo. Naturalmente, viene «trasferito» anche da Cosa Nostra: dalla famiglia di Pulvirenti passa a quella di Bagarella che lo prende in carico. Leoluca Bagarella continua a pagargli lo stesso stipendio, ma non gli permette più di ripetere il giochino delle auto pagate con assegni a vuoto. Anzi, Bagarella fa molto di più: una volta che il carabiniere deve tornare a Catania per testimoniare in qualche processo, gli dà l’incarico di trasportare piccoli quantitativi di cocaina. Non c’è trasporto più sicuro di quello affidato a un carabiniere, dice Bagarella. Quando il boss catanese viene a sapere che il carabiniere che li vessava e truffava era stato messo a stecchetto dai palermitani, ai quali addirittura forniva servizi aggiuntivi come il trasporto di droga, se ne esce con una battuta: «Non c’è niente da fare, i palermitani sono venti anni avanti». Nel riportare questa frase di Pulvirenti, che gli era stata riferita da Avola, Gioacchino La Barbera trasudava soddisfazione: era il riconoscimento, da parte di Pulvirenti, della superiorità dei palermitani.
Savatteri Questo può spiegare una certa supponenza di Buscetta quando parlava di camorra e ’ndrangheta. Ma è verosimile che la ’ndrangheta fino a una ventina di anni fa non avesse il peso, il radicamento e la diffusione che ha oggi?
Prestipino Nell’indagine «Crimine» abbiamo ricostruito la designazione a capocrimine, cioè massima figura della ’ndrangheta reggina, di Domenico Oppedisano, boss di Rosarno, ottantenne. La sua nomina è frutto di una serie di mediazioni, di scelte e di composizione di equilibri degne del manuale Cencelli, il vademecum che nella Prima Repubblica regolava minuziosamente i rapporti di forza tra i partiti di governo. Anzi essa può fare addirittura pensare alle strategie di governance di organismi molto complessi e conferma che certe regole di organizzazione ed esercizio del potere sono le stesse anche in settori molto diversi della società . Oppedisano viene scelto perché è una figura molto rappresentativa, anche se non ha un grande potere personale né una propria forza militare.
Pignatone Precisiamo che Oppedisano non è il «capo dei capi» della ’ndrangheta, ma ha rappresentato in un preciso momento storico il punto di mediazione tra le diverse pretese e aspirazioni delle cosche. Non è un capo operativo, ma un «vecchio saggio» che gode del generale rispetto, garantisce l’applicazione delle regole e dei codici di ’ndrangheta e insieme assicura il tempo necessario per la transizione verso un nuovo e più stabile equilibrio. Equilibrio sul quale speriamo di avere inciso con le nostre indagini.
Prestipino Appena ratificata la sua elezione a capocrimine, durante la festa davanti al santuario della Madonna di Polsi, Oppedisano ricorda i tempi in cui ha ricevuto le sue credenziali mafiose, cioè la Santa e il Vangelo, due gradi elevati dentro la complessa gerarchia della ’ndrangheta. E dice: «Eravamo più di mille persone quella notte nelle montagne...».
Savatteri Vale la pena di leggerla tutta questa intercettazione di Oppedisano: «Eravamo più di mille persone quella notte nelle montagne. Io mi ricordo Peppe Nirta e ’Ntoni Nirta. I grandi dalla parte di là , mi chiamano: passo di qua, lui passa di là . Mi hanno messo in mezzo Peppe Nirta e ’Ntoni Nirta e lì mi hanno dato la carica della Santa, c’è pure una lettera firmata. La carica del Vangelo avevo, la carica del Vangelo che allora in giro non c’era... non c’era ancora in giro come il fatto del Vangelo non esisteva, gliela abbiamo data a compare Pasquale Napoli, sempre noi qua di Rosarno, compare Pasquale Napoli ha portato avanti Ciccio Alvaro... Ciccio Alvaro aveva portato compare Pasquale dalla Santa. Abbiamo fatto le cariche ed abbiamo cominciato a dare a uno per paese... abbiamo scelto noi uno... abbiamo fatto il giro della piana, poi abbiamo preso da Bagnara fino ad arrivare a Brancaleone». Cosa ci raccontano le parole del vecchio boss?
Prestipino Oppedisano, che ha ottant’anni, parla di fatti di almeno trent’anni prima. Pronuncia i nomi di Nirta e Alvaro, personaggi storici della ’ndrangheta. Parla di mille persone nelle montagne e ricorda di come avevano distribuito gli incarichi direttivi dell’organizzazione per tutta la provincia di Reggio Calabria, partendo dalla piana di Gioia Tauro, percorrendo la costa tirrenica fino a Bagnara, risalendo fino a Brancaleone, cioè lungo la costa ionica, paese per paese, città per città . Non c’è ragione di non credere a quello che Oppedisano racconta ad altri esponenti della ’ndrangheta: questo ci dà la portata di un fenomeno criminale che già trent’anni fa riusciva a radunare in una sola occasione un migliaio di affiliati e aveva ramificazioni in tutta la provincia di Reggio Calabria. Questo è un dato di fatto.
Savatteri Malgrado la sua forza e la sua diffusione, tuttavia non se ne avvertiva la pericolosità . E questa sottovalutazione è proseguita a lungo, possiamo dire fino all’altro ieri...
Pignatone La ’ndrangheta è sempre stata molto poco conosciuta. Eppure ci sono tracce processuali che Totò Riina è venuto in Calabria e che ci sono stati rapporti tra Cosa Nostra e cosche importanti della Calabria. Nel momento in cui la mafia siciliana, e in particolare quella corleonese, si è «suicidata» scegliendo la strategia stragista, la ’ndrangheta è stata pronta a subentrare, innanzitutto nel traffico di stupefacenti. Con una tale forza economica, accompagnata a quella militare e al controllo del territorio, la ’ndrangheta era già da tempo un’organizzazione molto pericolosa, anche se solo di recente è maturato il convincimento generalizzato che sia oggi la più ricca, potente e insidiosa tra le associazioni mafiose in Italia e probabilmente in Europa. Ma nello stesso tempo è la meno conosciuta.
Savatteri Sottovalutazione storica, giudiziaria e anche politica. Con la conseguenza che la ’ndrangheta ha potuto agire e crescere indisturbata, fino a diventare la più potente organizzazione criminale d’Italia...
Pignatone Lo Stato italiano negli scorsi decenni ovviamente non ha potuto fare a meno di concentrare la sua attenzione repressiva prima contro il terrorismo e poi sull’emergenza mafiosa siciliana. Dalle vittime dell’esplosione della Giulietta di Ciaculli nel 1963 alla stagione delle stragi di Capaci e via D’Amelio, passando per l’uccisione di politici, esponenti delle forze dell’ordine e magistrati, non si possono dimenticare le decine di uomini dello Stato uccisi in Sicilia. Di fronte a questa offensiva della mafia, esaurita l’emergenza terrorismo, lo Stato ha impiegato le sue migliori risorse in Sicilia e in particolare a Palermo.
Prestipino Basta leggere i nomi dei funzionari di polizia e degli ufficiali dei carabinieri e della guardia di finanza che si sono succeduti da un certo punto in poi in Sicilia e vedere quale è stato il punto di arrivo delle loro carriere. Non dobbiamo scordare, solo per citare un esempio, che l’attuale capo della polizia, Antonio Manganelli, è stato questore di Palermo.
Sa...