Libro e libertà
eBook - ePub

Libro e libertà

  1. 102 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Libro e libertà

Informazioni su questo libro

Censura, roghi, libri immaginari, bibliomania e criminalità: il potere del libro e la lotta tra libro e potere in un testo appassionato e sorprendente. Dalla lettura come passione morbosa alla biblioteca come specchio di chi la possiede o la inventa, dal 'furor d'aver libri' alla 'dotta ignoranza' del bibliotecario di professione.

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Informazioni

1. La biblioteca

Ci sono romanzi nella cui vicenda la biblioteca è un luogo determinante. Essa è ad esempio la fonte della follia di Don Chisciotte. È il luogo dove Ma­thilde de la Mole visita impunemente Julien Sorel. È il luogo dove il Gattopardo illustra al suo interlocutore piemontese Chevalley la propria visione del mondo e il conseguente rifiuto del seggio senatoriale. È nella biblioteca che Nicolaj Bolkonskij si congeda dal principe Andrea, e quel colloquio racchiude, in germe, gli sviluppi ulteriori della vita dello sfortunato principe.
L’autore approfitta di tali circostanze, dalla sua fantasia create, per dare corpo, non di rado, alla propria biblioteca ideale.
Stendhal isola un dettaglio: la superba edizione completa, in ottanta volumi, delle opere di Voltaire, dinanzi alla quale Julien Sorel si commuove. «Pochi minuti dopo Julien si trovò solo, in una magnifica biblioteca: fu un momento delizioso. Per non farsi sorprendere nella sua emozione, andò a rifugiarsi in un angolo buio; di là contemplò rapito i dorsi lucenti dei libri. ‘Potrò leggerli tutti’, si disse. ‘Come potrei trovarmi male qui?’». Julien si scuote subito dall’abbandono estatico in cui la vista dei libri lo ha messo, e si accinge ad eseguire il lavoro di copia affidatogli dal marchese de la Mole, nella cui casa è appena entrato e dove la sua vicenda giungerà alla catastrofe.
Finito il lavoro, Julien osò avvicinarsi ai libri: poco mancò che divenisse pazzo di gioia vedendo un’edizione completa di Voltaire. Corse ad aprire la porta della biblioteca per non farsi sorprendere. Poi si concesse il piacere di sfogliare ciascuno degli ottanta volumi. Magnificamente rilegati, erano il capolavoro del miglior artigiano di Londra. Sarebbe bastato assai meno per portare al colmo l’ammirazione di Julien (Il rosso e il nero, parte seconda, capitolo 2).
La vista dei libri ha preso Julien in modo tale da indurlo ad accogliere quasi distrattamente il rimprovero del marchese per gli errori di ortografia. «Un’ora dopo il marchese entrò, guardò le copie e si accorse con stupore che Julien scriveva cela con due l: cella. Il marchese, molto scoraggiato, gli disse con dolcezza: ‘Non siete molto sicuro in ortografia?’ ‘È vero’, disse Julien senza pensare affatto al torto che si faceva».
Siamo al principio della seconda parte del romanzo: l’ingresso in quella biblioteca è il momento di svolta. È in biblioteca che si compiono i «primi passi» (capitolo 3) dell’incontro con Mathilde, e Mathilde è a sua volta una clandestina e avida frequentatrice della biblioteca paterna ben prima che Julien appaia in quell’universo familiare.
Il giorno dopo, di buon mattino, Julien stava copiando alcune lettere in biblioteca, quando entrò Mathilde attraverso una porticina segreta, nascosta molto bene dietro i libri. Mentre Julien ammirava quella trovata, Mathilde appariva molto stupita e abbastanza contrariata di vederlo lì. [...] Mathilde de la Mole conosceva il segreto di sottrarre dei libri nella biblioteca di suo padre senza che nessuno se ne accorgesse. Quella mattina la presenza di Julien rendeva inutile la sua manovra, ed ella ne fu tanto più contrariata in quanto era venuta a prendere il secondo volume della Princesse de Babylone di Voltaire: degno complemento di una educazione eminentemente monarchica e religiosa, capolavoro del collegio del Sacro Cuore! Perché un romanzo la interessasse quella povera ragazza di diciannove anni aveva bisogno che fosse scabroso.
Sia Julien che Mathilde sono attratti da Voltaire, dal fastoso Voltaire della biblioteca del marchese. Ovviamente la coincidenza è intenzionale e, visto il commento ironico di Stendhal sull’educazione subìta da Mathilde, quanto mai eloquente.
Nel romanzo, la biblioteca è luogo ambìto. «Il conte Norbert fece la sua apparizione in biblioteca verso le tre: veniva a studiare un giornale per poter discutere di politica la sera. E si mostrò molto contento di incontrare Julien, di cui aveva dimenticato l’esistenza». C’è addirittura chi tenta, giocando sull’equivoco, di installarsi nella biblioteca. È Tanbeau, di cui Stendhal così descrive la disfatta:
Julien trovò sistemato accanto a lui, in biblioteca, un giovane vestito con molta cura: ma il suo portamento era meschino, ed egli sprizzava invidia da tutti i pori.
Entrò il marchese.
– Che fate qui, Tanbeau? – disse al nuovo venuto, in tono severo.
– Io credevo... – ribatté il giovane con un sorriso untuoso.
– No, signore, voi non credevate. È stato un tentativo, ma poco felice.
Il giovane Tanbeau si alzò furibondo e scomparve. Era un nipote dell’accademico amico della signora de la Mole, e voleva dedicarsi alle lettere. L’accademico aveva ottenuto che il marchese lo prendesse come segretario. Tanbeau, che lavorava in una stanza appartata, essendo venuto a conoscenza del favore di cui godeva Julien, aveva voluto condividerlo, e quella mattina aveva trasferito il suo scrittoio in biblioteca» (capitolo 3).
Quando descrive la biblioteca di Don Chisciotte, Cervantes si diverte ad includere anche un suo libro tra «i libri autori del malanno», cioè della follia del protagonista:
– La Galatea di Miguel de Cervantes – disse il barbiere.
– Son molti anni che è mio grande amico [è il commento del curato] quel Cervantes, e so che è più versato in rovesci che in versi. Il suo libro ha qualcosa di buono come immaginazione; promette molto e non conclude nulla; è necessario aspettare la seconda parte che egli annunzia [e che invece non fu mai stampata]; forse emendandosi otterrà completamente l’indulgenza che ora come ora gli si nega; e in attesa che ciò si possa vedere, tenetelo recluso in casa vostra (parte prima, capitolo sesto).
La scena, però, è molto seria. È un vero e proprio tribunale dell’Inquisizione, dove imputati sono i libri, giudici il curato e il barbiere, «braccio secolare» la governante. «Braccio secolare» è espressione intenzionalmente adoperata da Cervantes ad un certo punto della lunga scena. Quando si giunge al Pastore di Iberia, alle Ninfe di Henares e al Disinganno della gelosia, il curato taglia corto: «Allora non c’è altro da fare – dice – che consegnarli al braccio secolare della governante, e non mi se ne chieda il motivo, o non la finiremo più». Gli argomenti con cui si decide la sorte dei volumi sono i più vari e sgangherati: «Aperto un altro libro, videro che aveva per titolo Il Cavaliere della Croce», e il curato sentenzia: «Dato il nome così santo che ha questo libro, gli se ne potrebbe perdonare l’ignoranza; ma poiché si suol dire ‘Dietro la croce si nasconde il diavolo’, vada al fuoco». E Ariosto si salva perché scritto in italiano. Il barbiere, stimolato dall’osservazione del curato sulla possibilità di salvare dal rogo l’Orlando furioso, osserva: «Io ce l’ho in italiano; ma non lo capisco». E il curato: «E non sarebbe affatto un bene che lo capiste!».
Come si sa, l’improvviso risveglio di Don Chisciotte accelera l’operazione; s’interrompe lo scrutinio e tutto il resto della biblioteca va al rogo in blocco. «Quella notte la governante arse e bruciò tutti i libri che c’erano nel cortile, e ne bruciarono alcuni che avrebbero meritato d’esser custoditi in archivi perpetui». Parole, d’improvviso, serissime e dolenti, come non di rado accade in Cervantes, nel bel mezzo del sorriso. «Ma non lo volle la loro sorte – séguita il narratore – e l’indolenza dello scrutinatore, e così si compì in essi il detto che a volte pagano i giusti per i peccatori» (capitolo settimo). Commentando questa scena, lo scrittore cinese Lu Hsün ha scritto:
Miguel de Cervantes racconta che Don Chisciotte impazzì a leggere i romanzi di cavalleria, e andò egli stesso a fare il cavaliere errante, a proteggere gli oppressi. I suoi familiari, sapendo che la colpa era dei libri, pregarono il barbiere vicino di casa di esaminarli; il barbiere ne mise da parte alcuni buoni e bruciò tutti gli altri. Quali fossero bruciati, non ricordo bene; e ho dimenticato anche quanti fossero. C’è da pensare che gli autori dei pochi buoni libri scelti, leggendo allora questo elenco di romanzi, dovessero arrossire e ridere amaro (Rose senza fiori, 1926, trad. it. in La falsa libertà, Einaudi, Torino 1968, p. 115).
Lu Hsün coglie, da un osservatorio lontanissimo, il senso del cruciale capitolo del Don Chisciotte sul rogo dei libri, e commenta: in Cina «non riusciamo neppure a ridere amaro». Egli non è certo immemore del più celebre rogo di libri della storia cinese, quello – di cui diremo più oltre – voluto dall’imperatore che creò la Grande Muraglia.
Il rapporto di Don Chisciotte coi libri è totalizzante. Tutto parte da loro: è attraverso quel filtro immaginario che il cavaliere della Mancia guarda, con occhio stralunato, il reale. Caduto per terra e incapace di rialzarsi, appesantito e indolenzito – è la scena con cui si apre il capitolo quinto – Don Chisciotte ha nei suoi libri la sua risorsa:
Vedendo dunque che proprio non ce la faceva a muoversi, stabilì di ricorrere al suo consueto rimedio, che era di pensare a qualche passo dei suoi libri; e la sua pazzia gli fece venire in mente quello di Baldovino e del Marchese di Mantova, quando Carlotto lo lasciò ferito sulla montagna, storiella nota ai bambini, non ignorata dai giovani, ed esaltata e persino creduta dai vecchi, ma con tutto ciò, non più vera dei miracoli di Maometto. Quest’episodio gli parve che calzasse perfettamente con la situazione in cui si trovava e così, con segni di gran dolore, cominciò a rotolarsi per terra e a dire con flebile voce quello che diceva, a quanto dicono, il cavaliere ferito nel bosco: «Dove sei signora mia, / che non ti duole il mio mal? [...]». E continuò in questo modo la romanza fino a quei versi che dicono «O gran Marchese di Mantova, / mio zio e signore carnal!». E volle la sorte che proprio quando arrivò a questo verso si trovasse a passare di lì un contadino del suo stesso paese e suo vicino, che se ne stava tornando dopo aver portato al mulino un carico di grano. Questi, vedendo un uomo steso in terra, gli si avvicinò e gli domandò chi era e che male avesse, che si lamentava con tanto affanno. Don Chisciotte credette senza dubbio che colui fosse il Marchese di Mantova, suo zio, e così non gli rispose altrimenti che col continuare il suo romance, con cui lo metteva al corrente della sua disgrazia, e degli amori del figlio dell’Imperatore con la sua sposa, tutto per filo e per segno com’è cantato nel romance.
Notare come maliziosamente Cervantes dica senz’altro «il Marchese di Mantova suo zio», ponendosi per un momento dalla parte della follia di Don Chisciotte, consistente appunto nella proiezione del suo mondo libresco sul reale (se stesso compreso). Il contadino lo riconosce, lo issa sulla giumenta e lo riporta verso casa. Ma, appunto, «pare che il diavolo si divertisse proprio a fargli venire in mente i racconti che si applicavano ai casi suoi, perché a questo punto, ...

Indice dei contenuti

  1. Libri in cattività
  2. 1. La biblioteca
  3. 2. «Timeo hominem unius libri»
  4. 3. Bibliomania
  5. 4. Il libro-biblioteca
  6. 5. Libro e libertà
  7. 6. «Liber»
  8. Referenze bibliografiche