1915. Interventismo e cannoni
di Antonio Gibelli
1. Le premesse
Inoltrandosi nel Novecento, questa raccolta di studi sulla storia di Genova, cominciata con una crociata (la prima, nell’XI secolo), termina con un’altra crociata che inaugura un’epoca di ferro e di fuoco: la Grande guerra. Cosa è una crociata? Un atto di guerra sorretto, anzi potentemente sospinto da ragioni religiose (non importa che poi gli storici discutano a ragione su quali altre, eventualmente più sostanziali, ne siano le motivazioni e i risvolti). E la Prima guerra mondiale ebbe certamente una dimensione in senso lato religiosa, come hanno sottolineato con forza due storici francesi dell’ultima generazione, in un libro intitolato appunto La violenza, la crociata, il lutto. Una dimensione che riguardò entrambe le parti in conflitto: la guerra fu vissuta, da una parte almeno dei combattenti, come una lotta fra il bene e il male, come uno scontro di civiltà senza possibili compromessi, schierò in più di un caso le religioni e le Chiese a sostegno dell’un campo e dell’altro, escluse esiti diversi da quello dell’annientamento del nemico, mobilitò energie emotive totali, arruolò in termini parossistici l’immaginario collettivo di intere popolazioni. E, come spesso accade, anche quella crociata – combinazione esplosiva fra tecnologie distruttive e sentimenti estremi – finì in una spaventosa carneficina.
Di questa guerra affronteremo qui essenzialmente la premessa, per così dire l’innesco relativo all’Italia (com’è noto il conflitto divampava in Europa ormai da quasi un anno), una premessa e un innesco che videro Genova nel ruolo di epicentro e di protagonista: parliamo delle celebrazioni garibaldine svoltesi allo scoglio di Quarto il 5 maggio del 1915, in occasione dell’inaugurazione del monumento ai Mille, che rientrano in un ciclo passato alla storia come «maggio radioso» e che sono l’oggetto specifico di questo contributo.
Fu quello un giorno fatale per l’Italia e non meno fatale per Genova. Per l’Italia che, ancora sospesa nell’incertezza, precipitò da quel momento in modo accelerato e inesorabile verso una guerra che l’avrebbe condotta alla fine di un intero ciclo della propria storia unitaria. Sappiamo bene che le premesse dell’intervento italiano erano già state tutte poste prima, ma sappiamo anche che fino alle giornate di maggio l’esito non era interamente scritto. Il 5 maggio del 1915 si pone a cavallo tra il 26 aprile, quando fu firmato il patto di Londra con clausole rimaste a lungo segrete, che prevedevano l’ingresso dell’Italia in guerra a fianco dell’Intesa, e il 24 maggio, quando l’evento arrivò a compimento. Una parte significativa della classe dirigente, sebbene non tutta, aveva fatto la sua scelta e premeva per l’ingresso nella contesa, ma il paese era in prevalenza refrattario all’idea dell’intervento. Le forze politiche e culturali maggiori, dal settore giolittiano del Parlamento (ancora maggioritario) alla Chiesa cattolica al Partito socialista, erano nettamente contrarie. Per far sì che un paese a maggioranza neutralista scegliesse la guerra erano necessari una forzatura, un azzardo (come l’ha chiamato Gian Enrico Rusconi), che a loro volta avevano bisogno di essere propiziati da una grande operazione mediatica e politica di coinvolgimento delle masse, con modalità che erano estranee alla vecchia destra parlamentare italiana e che infatti il capo del governo Salandra non apprezzava. Le celebrazioni del maggio 1915 a Quarto costituirono l’avvio e la parte più cospicua di questa operazione. Esse gettarono sul piatto della bilancia, ancora in bilico tra neutralità e intervento, il peso di una grande manifestazione di popolo fondata sulla saldatura fra le tradizioni garibaldine e il nuovo orizzonte della grandezza italiana nella competizione mondiale fra le nazioni. Da quel momento la scelta, apparentemente sottratta ai calcoli delle cancellerie e alle manovre delle vecchie élites di governo e consegnata nelle mani delle emozioni collettive, sembrò divenuta irreversibile. E quando, di lì a pochi giorni, apparve nuovamente minacciata dalle controspinte pacifiste e dagli «intrighi» romani del giolittismo, ciò suscitò una reazione ancora maggiore, prefigurazione della futura guerra civile, che impresse agli eventi un’ulteriore accelerazione.
1. P. Nomellini, Garibaldi, 1917 circa. Novara, Galleria d’Arte Moderna Paolo e Adele Giannoni.
Ma l’appuntamento fu fatale anche e soprattutto per Genova, una città che aveva incarnato nel Risorgimento soprattutto l’opzione repubblicana, che aveva dato i natali a Mazzini e che considerava Garibaldi come suo figlio, in cui la tradizione democratica era fortissima e aveva preso corpo un moderno movimento operaio di impronta riformista dimostratosi capace di grandi progetti e di altrettanto grandi realizzazioni. Capitale della democrazia e del socialismo riformista (che aveva visto qui la sua nascita formale nel 1892), Genova divenne ora una delle capitali dell’interventismo, certo la capitale dell’interventismo democratico che pensava alla guerra come ultimo atto di liberazione dalle tirannidi dell’antico regime e che invece dov...