E in mezzo il fiume
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E in mezzo il fiume

A piedi nei due centri di Roma

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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E in mezzo il fiume

A piedi nei due centri di Roma

Informazioni su questo libro

È necessario innamorarsi profondamente di Roma per ricordarsi del Tevere, per riconoscerlo come il sangue nelle sue vene.«Rispetto alla città il Tevere va al contrario della Senna. La Senna si butta nella Manica, il Tevere nel mar Tirreno, e dunque luna si volge al nord, laltro procede da nord a sud. Per questo la rive gauche di Roma è geograficamente la rive droite. E Trastevere, che incarna il quartiere intellettuale, artistico e bohémien della capitale si trova sulla sponda destra». Su e giù per i ponti, in compagnia di artisti e clochards, Sandra Petrignani ascolta i racconti intimi portati dal fiume e si fa pellegrina della bellezza maestosa o discreta di Roma.

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Informazioni

Trastevere downtown

1. Vita scapigliata a San Cosimato

«Sei indolente a Roma, e a Trastevere ancora di più»: Beppe Sebaste è uno scrittore davvero bohémien, non sai di che vive e, quando non è a Parigi, lo incontri a tutte le ore a fare flanella in giro per Trastevere. Il suo quartier generale, però, è piazza San Cosimato, epicentro della popolazione trasteverina, autoctona e non: ci sono in mezzo alla piazza i giochi per i bambini, sul lato nord-est il mercato, e tutt’intorno bar e ristoranti fra i più quotati della zona e per tutte le tasche.
In primavera Beppe va a godersi il tramonto fra i tavolini di legno dell’enoteca di fianco alla chiesa, fa un salto nella libreria di fronte, Nero su bianco, la più piccola di tutto il quartiere, e si fa un bicchiere di vino da Enzo, che ha un banchetto di frutta e verdura sulla propria Ape parcheggiata in via Santini. Fino a qualche mese fa, prima che chiudesse come succede a tanti ritrovi storici, comprava «il pane azimo più buono della città» nel panificio accanto al ristorante Spaghettari, dove è difficile trovare un tavolo libero.
«C’è una rinnovata saldatura fra vecchi e nuovi trasteverini» mi spiega. «Al di là del caos che regna intorno a Santa Maria, con l’invasione serale di quelli che non sono del quartiere e vengono qui a mangiare o spesso solo a fare casino, Trastevere sta tornando a essere villaggio. Negli ultimi anni c’è stato un ritorno di figli e nipoti dei trasteverini che avevano venduto ai ricchi le loro case e molti giovani che fanno cinema, e scrittori e artisti sono venuti ad abitare nel quartiere, restituendogli lo spirito scapigliato e anticonformista degli anni ’70. Era la Roma dei poeti quella. Gli amici squattrinati trovavano casa al centro, perché si contentavano di appartamenti delabré, non sentivano il bisogno di restaurarli, e poi non avrebbero avuto i soldi per farlo! Io allora abitavo sulla Nomentana, ma ci si muoveva facilmente. Saltavo sul 60 e in pochi minuti ero a piazza Sonnino, nel cuore dei locali off, teatrini, cinema d’essai, cantine dove sentivi buona musica».
«Villaggio, sì, nel senso del village, un posto dove ti aggiri fra artisti e gente comune che è comunque molto artistica» dice Mario Fortunato, una sera che si va tutti insieme a cena da Corsetti, dall’altra parte della piazza. «Trastevere è stato un quartiere capace di costruire una mitologia di se stesso, come Saint-Germain a Parigi e il Greenwich Village a New York. Una mitologia costruita non sul denaro, né sul successo, ma sull’essere diversi, artisti o ladri, famosi o ignoti, poveri o ricchi che vivono da poveri, in un modo o nell’altro comunque anomali. Ha ragione Beppe, il momento d’oro è stato vent’anni fa, negli anni ’70. Si era in confidenza con tutti, senza differenze di classe sociale, e si frequentavano luoghi bizzarri, impensabili in altre zone della città».
Parte una gara del ricordo. Mario evoca lo Stardust, un bar vicino alla libreria americana di vicolo del Moro, che ora si è trasferito dietro piazza Navona. «La proprietaria era una vecchia radicale che aveva instaurato nel locale un andazzo allegro, molto alcolico. Era frequentato, forse grazie alla prossimità con la libreria, soprattutto da inglesi e americani e dagli studenti della John Cabot University di via della Lungara. Dove c’è oggi il cinema Alcazar c’era un locale gay, uno dei primi della città. Si chiamava L’angelo azzurro, e poi ricordo il Max and You, che siccome era sempre deserto pensavi che Max fosse il proprietario e You eri tu!»
Mimmo Rafele, che fa lo sceneggiatore e ha anche scritto un thriller con De Cataldo, in quegli anni voleva diventare regista e stava effettivamente per girare un film. «Trastevere, soprattutto per un ragazzo che veniva dal profondo sud, come me, era simbolo di libertà e anticonformismo» racconta mentre in tavola arrivano le tartares di tonno che abbiamo ordinato. «Trovai casa, inizialmente, a quattordicimila lire mensili, puoi immaginare cosa fosse: cadeva a pezzi! Lavoravo con Gianni Amelio, che abitava nel quartiere già dal ’65 in una casa di Peter Del Monte. Frequentavo la sezione del Pci in via della Penitenza e passavo la maggior parte del tempo al Filmstudio, in via degli Orti d’Alibert, che aveva aperto nel ’67, inaugurando una grande stagione cinematografica. Nanni Moretti si è formato lì. Ricordo la serata d’inaugurazione con Umberto Eco e uno spettacolo di cartoni animati eccezionali. Ci incontravi i Bertolucci, Giuseppe e Bernardo, Liliana Cavani, Antonioni, Bellocchio, Dario Argento...»
Il Filmstudio era uno dei poli nevralgici del ’68, colto e cinéphile – l’altro era il Politecnico di via Tiepolo, sulla rive droite con orientamento fortemente politico, e i due gruppi si guardavano in cagnesco – e poi c’era L’Occhio l’Orecchio la Bocca, in via del Mattonato, pensato come centro polivalente. Oggi non esiste più. Continuano il Politecnico, diventato proprietà della casa di produzione Fandango, e il Filmstudio che ha riaperto nel 2000 dopo varie traversie. Ma lo spirito non è, e non può essere, quello del passato. Finito il senso di scoperta, l’orgoglio di essere minoranza coesa pur nelle interminabili discussioni e divisioni, e finito quel clima catacombale e alternativo, che rendeva eroica la vita, e il cinema un fantastico surrogato della stessa vita poi non così eroica come la si sognava.
«Non era eroica, no» dice Ferzan Ozpetek. «Era anche dura e i sogni ce li tenevamo nel cassetto. Io trent’anni fa, arrivato dalla Turchia, stavo sempre a Trastevere per avvicinarmi al mondo del cinema. Il cinema era qui, non a Cinecittà. Perché qui c’erano gli attori, i registi, le sale cinematografiche che davano i film che non volevamo perdere. La prima volta in assoluto che ci misi piede fu per ritrovare i posti felliniani. Scrivevo per una rivista specialistica e intervistai Bernardo Bertolucci, conobbi Amelio e Maurizio Ponzi. Ti sedevi al bar e Angela Molina veniva a sedersi accanto a te, mentre le comari pulivano la verdura davanti al portone di casa e ti guardavano con commiserazione, ma poi ti accettavano perché ti riconoscevano strano come loro, anche se in un modo diverso».
«Loro erano il popolo e noi eravamo pop» dico io.
«Appunto, uno la filiazione dell’altro, no?»
«Per me il simbolo della Trastevere popolare di quegli anni era un bellissimo zingaro che si portava dietro tutta casa su una specie di carriola, masserizie e bambini» evoca Silvia Ronchey. «Come i clochard di oggi con i loro cani al seguito, conviveva tranquillamente con i matti americani, i cileni in esilio e quel mondo libertario fatto di comuni e case aperte, che era la sinistra sessantottesca, quella della contestazione studentesca, del nuovo cinema italiano e del teatro underground, una Roma diversa, contrapposta all’altra Roma artistica e altrettanto sballata, ma dove circolavano i soldi, che si aggirava al Pantheon proseguendo i fasti di via Veneto nel clima di Fellini 8 e mezzo...»
Si potrebbe andare avanti ore così, ognuno con le sue memorie e altri amici che passando – i tavolini del ristorante sono all’aperto – si fermano a fare due chiacchiere, a bere un bicchiere fumando una sigaretta, a dire la loro nella bella serata tranquilla non di fine settimana, perché dal venerdì alla domenica gli abitanti del villaggio si nascondono in casa o partono per il week-end, dal venerdì alla domenica Trastevere è ostaggio della movida e percorsa dagli inni guerreschi di un esercito forestiero. La «giungla tiepida» – così Mastroianni definisce Roma nella Dolce vita – trema e si camuffa, diventando irriconoscibile, territorio di caccia in cui, però, ben poco di autentico può essere scovato e distrutto, solo la pelle più superficiale, la coda di una lucertola che si stacca ogni volta per tornare a rinnovarsi sempre nuova e sempre la stessa. Perché davvero Roma continua a essere come la volle Fellini: «...una specie di giungla tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene».
E la domenica mattina, un campo dopo la battaglia, restano gli avanzi del baccanale del fine settimana, proprio la domenica mattina, che è invece il momento delle famiglie, delle processioni dentro al suono delle campane, dei canti religiosi intonati in tutto il quartiere. I pellegrini che vengono a visitare le chiese devono fare lo slalom fra le immondizie.
C’è movida e movida. Quella che si abbatte regolarmente sul centro di Roma il sabato sera non ha niente di allegro e di trasgressivo che richiami in qualche modo lo sfrenato movimento spagnolo esploso nel 1975, alla fine del franchismo, e che trasformò le notti in baldoria e la vita artistica in una sarabanda di improvvisazioni, invenzioni, colori. «Non c’è nulla di artistico in chi viene a Trastevere per ubriacarsi, schiamazzare, pisciare e vomitare nei portoni, compiere qualche atto vandalico, tipo rigare le macchine, storcerne i tergicristalli, insozzare i vicoli con lattine e cartacce» protesta Valeria Viganò che per non assistere a quello sfregio rituale ogni settimana, estate e inverno, il venerdì, come tanti, cerca di scapparsene al mare. Nell’indispettirsi i trasteverini ancora una volta sono uniti, quelli d’importazione e quelli antichi, sono clan, sono villaggio. Quando la signora Rina si lamenta: «Mo’ nun se dorme più», pensa a un’epoca in cui non si dormiva solo durante i quindici giorni della Festa de Noantri, quando si portava in processione «a spalla» la Madonna dei cicoriari. «Qua ‘ntorno ce stavano li prati e ce s’annava a fà la cicoria. La statua fu trovata in mezzo ar prato e sistemata a Sant’Agata».
Era quando due famiglie dividevano un appartamento di due stanze, una stanza per famiglia, e gli abitanti del quartiere erano quarantamila non diciannovemila come oggi. «Capito? Quarantamila votanti, bambini esclusi» sottolinea. Lei lo sa, lei è entrata nel partito nel ’46 a ventidue anni. «Ero la più giovane, me facevano trottà come ’n somaro. Tutta ’sta folla, ’sta confusione de li giorni de festa, ’sta movida come la chiamate mo’, è fasulla. Gente forestiera. Il quartiere s’è svotato. Non dico ch’è male. Prima ce stava la miseria nera, la fame vera e propia. Però mo’ ce sta la solitudine. E più gente vedi in giro de sabbato, più solo te senti e te n’accorgi che sò tutti soli pure loro, ’sti ragazzi che vengono qui a sballasse».
Anche negli anni ’70 si veniva qui a sballarsi. Ma si era in pochi, seduti sugli scalini della fontana di Santa Maria, in notti quiete, disturbate solo dalle chitarre e da qualche schiamazzo nei vicoletti. E qualche volta una finestra si apriva e un catino rovesciato sulle nostre teste ci inondava d’acqua, o qualcosa di peggio.
Con Stefania Scateni, capo del servizio cultura e spettacoli all’«Unità», ma soprattutto trasteverina trentennale, mi ritrovo fianco a fianco, in via Sacchi, a guardare il portoncino chiuso del Folkstudio. Mi racconta che lei quando Giancarlo Cesaroni ne trasferì qui la sede da via Garibaldi abitava nello stesso edificio. «Sotto si suonava, sopra, dietro questa finestra, c’era il mio letto!»
Io ho ricordi confusi, perché sono i più lontani delle mie frequentazioni trasteverine. Si scendevano dei gradini e ci si ritrovava in un’affollata cantina. C’era un lungo bar se non sbaglio e, dietro una tenda, la saletta col palcoscenico minuscolo. Là sopra i musicisti stavano uno addosso all’altro, Antonello Venditti al pianoforte, Francesco De Gregori alla chitarra. Là sopra dicono che si fosse esibito anche un giovanissimo Bob Dylan ancora sconosciuto. Ma è leggenda.
«Veramente» precisa Stefania «Dylan si esibì a via Garibaldi».
«Ma allora è vero?»
«È stato detto così tante volte che è come se lo fosse».
Cesaroni me lo ricordo. Riceveva gli habitués sulla porta, diceva due parole sugli artisti che si dovevano esibire nella serata. Era un chimico con la passione della musica. Aveva aperto il locale di via Garibaldi con un amico americano, un musicista nero, Harold Bradley, che poi era tornato negli States facendo perdere le tracce. Erano anni così. Qualcuno inventava qualcosa di geniale che aveva anche successo, ma mollava per inseguire altre avventure o anche solo la propria autodistruzione. Erano anni pieni di entusiasmo e di disperazione. Al Folkstudio si andava a sentire il jazz e i cantautori, De Gregori, Venditti, Rino Gaetano, Francesco Guccini che pochi conoscevano e già veneravano. Oppure musica folk, italiana e straniera, tutto quello che non era televisivo. Eppure il kitsch televisivo era costituito al massimo dalle gemelle Kessler. C’era il senso forte dell’alternativo, il contrario del patinato che piace oggi. Uno prendeva la chitarra e si met­teva a suonare e, se era bravo, dai gradini di Santa Maria scendeva nella cantina del Folkstudio per risalirne alonato di fama, ma solo fra iniziati. E chi frequentava il Folkstudio, te lo ritrovavi nei teatri e nei locali off. Alla fine, almeno di vista, ci si conosceva tutti.
Dico a Stefania che è la prima volta che vedo il Folkstudio di giorno e con la porta chiusa. Infatti stento a riconoscerlo. Non mi ero resa conto, nel passato, che si trattasse di un qualsiasi scantinato in un anonimo vecchio palazzo.
«Proprio così» ride lei. «È sempre lo stesso, ma solo in apparenza. Cesaroni a un certo punto fu sfrattato. Riuscì a riaprire il locale dalle parti del Colosseo, ma durò poco. È morto improvvisamente nel ’98, a sessantacinque anni. E qui c’è stata una ristrutturazione, vedo delle luci ogni tanto, quando passo davanti alle finestre. Dicono che ne faranno l’ennesimo ristorante o un qualche negozio per vendere vestiti di cui proprio non si sentiva il bisogno».
Mi ritorna in mente il logo del vecchio locale: Black&White Together, come cantava Joan Baez, con il disegno, rudimentale, di una chitarra sostenuta da due mani, una nera, una bianca, quelle dei due amici, Harold e Giancarlo. «Chissà che fine ha fatto Bradley» ci siamo domandate. Lo avremmo scoperto pochi mesi dopo, quando il 24 ottobre 2009 magicamente Harold Bradley si è materializzato a Roma, al Caffè Latino di Testaccio, per festeggiare i suoi ottant’anni e mettersi a cantare con la sua band. Ce n’è una traccia su Second Life, nel “Virtual Folkstudio” che qualcuno ha aperto, ricostruendolo tale e quale – virtualmente parlando – perché l’avventura del locale trasteverino potesse tramandarsi e continuare a esistere in qualche modo.
Seguo Stefania in un passaggio “segreto” che ci porterà in via Garibaldi. Ha la chiave di un condominio inerpicato sulla collina che sale da una pressoché invisibile via Tiburzi verso il Gianicolo. Un angolo di Trastevere nascosto e meraviglioso, appartamenti celati nel verde di alberi secolari. Saliamo un bel numero di scalette fermandoci di pianerottolo in pianerottolo ad ammirare terrazze e giardinetti.
«Ma qui possono abitare solo persone sportiv...

Indice dei contenuti

  1. Sul Tevere
  2. «Rive droite»
  3. Piccolo cuore
  4. «Rive gauche»
  5. Rive e derive
  6. Trastevere downtown
  7. Simmetrie
  8. Personaggi e interpreti (nel ruolo di se stessi)