Storia del commercio
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Storia del commercio

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Storia del commercio

Informazioni su questo libro

Comprendere la fisionomia e il ruolo degli scambi commerciali, approfondire il senso della loro regolamentazione, ma anche illustrare l'origine e il funzionamento dei principali meccanismi economici: questi gli obiettivi del volume che, seguendo un andamento cronologico, abbraccia l'intera storia umana, dalla rivoluzione neolitica alla libera circolazione degli uomini, delle merci e dei capitali nell'era della globalizzazione. Fare una storia del commercio vuoi dire, infatti, non solo studiare le forme che nel corso dei secoli il sistema degli scambi, e in generale il mercato, hanno assunto, ma soprattutto osservare uno dei più potenti strumenti di sviluppo economico che l'uomo abbia mai escogitato. Corredano il volume documenti storiografici puntualmente richiamati nel testo.

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Informazioni

Argomento
Storia

VII. L’età delle ideologie: crisi e sviluppo nella prima metà del Novecento

1. I «cicli economici» del capitalismo

Nel corso dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale la crescita del sistema del capitalismo nelle aree più evolute dell’emisfero settentrionale apparve inarrestabile; un imponente elemento di modernizzazione economica, sociale e culturale era apparso nella storia, e in poco più di un secolo aveva rivoluzionato in molti luoghi della terra modi di produrre e di consumare antichi di millenni. Ma già nello stesso secolo gli studiosi di economia politica [cfr. cap. IV, § 6], cominciarono ad accorgersi che l’affermazione del modello capitalistico della produzione e dello scambio, anche nelle situazioni più positive, presentava sempre e comunque alcune contraddizioni interne che impedivano al sistema di crescere in modo lineare e progressivo.
Queste contraddizioni, di cui abbiamo già osservato nelle pagine precedenti alcuni aspetti [cfr. cap. VI, § 8] erano anzitutto di natura politica e sociale. Esse dipendevano fondamentalmente da una crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, per cui all’interno di una nazione convivevano enormi ricchezze e miserie infinite così come a livello internazionale Stati ricchi e potenti avevano accanto a sé popoli poverissimi.
Tuttavia, al di là di queste situazioni che generavano scontri sociali e conflitti politici non nuovi nella storia dell’umanità (anche i sistemi economici preindustriali avevano presentato disparità nella distribuzione dei redditi, anche se non così forti ed eclatanti), gli economisti si accorsero che l’intero sistema del capitalismo mostrava altre contraddizioni di tipo propriamente economico, e che, anche nelle sue forme più avanzate e vincenti, esso sembrava funzionare in modo discontinuo: la storia dello sviluppo capitalistico e dell’espansione dei mercati era costituita da un susseguirsi di momenti di forte crescita della produzione e dei redditi, cui seguivano fasi di ripiegamento e di caduta dei profitti e degli investimenti. Questo sviluppo non lineare ma caratterizzato piuttosto da un andamento ad ondate aveva interessato tutti i paesi che si erano avviati alla modernizzazione e all’industrializzazione, compresa l’Italia.
L’osservazione di queste fasi di accelerazione e di rallentamento dello sviluppo e la ricerca delle ragioni che le producevano spinsero gli studiosi ad elaborare il concetto di ciclo economico [cfr. Introduzione, § 6]. Ci si accorse, cioè, che ogni fase di crescita degli investimenti, della produzione, del consumo e del volume degli scambi raggiungeva sempre e inevitabilmente un momento culminante, definito crisi, che segnava l’inversione della tendenza; la crisi era a sua volta seguita da una fase di caduta dei dati economici e quindi da un’altra ancora di ristagno. Il periodo di ristagno o di depressione preparava a sua volta una nuova fase di crescita, e il ciclo tendeva così a riprodursi continuamente, perché queste fasi non si succedevano semplicemente l’una dopo l’altra, ma erano l’una causa dell’altra. In altre parole, la fase di crescita aveva in sé le ragioni del sopraggiungere della crisi, e il periodo di ristagno aveva in sé le condizioni che preparavano la nuova fase di sviluppo.
Nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento questo andamento ciclico dell’economia fu oggetto di importanti dibattiti, nel tentativo di comprendere i meccanismi che agivano in esso, e con lo scopo di intervenire per attenuare gli aspetti dolorosi delle fasi di crisi. Il cambiamento della cultura economica, di cui parleremo più avanti, e soprattutto il sorgere di una mentalità statistica, ovvero l’idea che lo studio dell’economia potesse raggiungere livelli di maggiore scientificità mediante una raccolta organica e ordinata di dati economici, metteva inoltre gli economisti in condizione di misurare i livelli di questi continui ondeggiamenti del sistema. Si cominciò a calcolare, ad esempio, quanti beni venissero prodotti e quanti consumati in un dato periodo di tempo, e ciò costituiva già un buon criterio per stabilire il succedersi di fasi espansive e di altre recessive; ma lo strumento migliore di misurazione della realtà economica era certamente quello costituito dall’osservazione dei prezzi. L’andamento dei prezzi era, infatti, il segnale più evidente delle variazioni che intervenivano di volta in volta nel funzionamento del sistema: cominciarono ad essere presi in considerazione e misurati non solo i prezzi delle merci, ma anche quello del lavoro, cioè il salario, e il costo del denaro, cioè il tasso di interesse applicato alle operazioni di credito. Anche questi valori avevano un andamento oscillante e dai loro dati si poteva ugualmente dedurre l’esistenza di fasi alterne di sviluppo e di regresso.
Di fronte all’andamento ciclico dell’economia dei paesi industriali, gli studiosi presero posizioni assai diverse. Alcuni economisti che si richiamavano ai principi della scuola classica inglese, e che perciò vennero definiti neoclassici (tra questi gli inglesi Alfred Marshall e William Jevons, il francese Léon Walras, l’italiano Vilfredo Pareto), ignorarono in realtà quasi del tutto il concetto di ciclo e di crisi economica e affermarono che il sistema del capitalismo sarebbe riuscito a trovare spontaneamente un suo equilibrio; anche per questo motivo essi in politica economica predicavano quasi sempre il classico principio del laissez-faire (in francese, «lasciate fare»), riprendendo le idee di Adam Smith [cfr. cap. IV, § 6] sulla assoluta necessità e convenienza del non intervento dello Stato in materia economica.
Nella seconda metà dell’Ottocento, Karl Marx [cfr. cap. V, § 9] fu, invece, certamente tra i primi ad osservare e descrivere l’andamento ciclico dell’economia come un fatto normale e costante, presente non solo nel sistema del capitalismo ma anche in qualsiasi altro sistema economico, anche di tipo preindustriale. Secondo Marx, dunque, la presenza di una fase di crisi non rappresentava un’anomalia, ma piuttosto la normalità del funzionamento dell’economia; per di più la crisi risultava estremamente utile, perché spingeva a rinnovare il funzionamento del sistema. Da ciò deduceva che la crisi economica aveva anche una funzione politica, poiché proprio il continuo e inesorabile aggravarsi delle fasi critiche avrebbe reso incontrollabili le contraddizioni del sistema capitalistico e avrebbe condotto alla creazione del sistema socialista.
Dopo Marx, uno dei più acuti studiosi del ciclo economico fu certamente Joseph Schumpeter che nei primi anni del Novecento elaborò una teoria dello sviluppo economico che aveva il suo fondamento nel concetto di ciclo economico e nella funzione delle innovazioni. Semplificando il suo pensiero, si può dire che secondo Schumpeter quando un imprenditore riesce ad innovare la tecnologia produttiva, riesce di conseguenza a contrarre i costi di produzione e va incontro ad una fase di raccolta di profitti; tutto ciò accresce la propensione ad investire e spinge in avanti lo sviluppo economico. Ma quando la stessa tecnologia si è ormai diffusa e dunque non c’è più il vantaggio comparato (cioè il vantaggio di un imprenditore o di un settore produttivo rispetto agli altri) derivato dal saper produrre a costi minori, allora cadono i profitti e diminuisce la propensione ad investire. In questo caso il funzionamento del sistema entra in una fase di crisi; da questa si esce al sopraggiungere di un’ulteriore ondata di innovazioni che rechi nuovi profitti, e così via ciclicamente. Sia per Marx che per Schumpeter, dunque, le ragioni del continuo sopraggiungere delle crisi risiedevano non in qualcosa che dall’esterno veniva a turbare l’equilibrio economico, ma negli stessi meccanismi del funzionamento e nelle stesse modalità dello sviluppo del sistema capitalistico.

2. Il mercato monopolistico e le «crisi economiche» del capitalismo

L’andamento ciclico dell’economia, caratterizzato a scadenze abbastanza costanti e prevedibili da fasi di crisi, accompagnò dunque il sistema del capitalismo fin dal suo sorgere e interessò tutti i paesi che si avviarono alla modernizzazione. Il segnale dell’insorgere della crisi era quasi sempre dato dal cattivo funzionamento del mercato, sia interno che internazionale: in esso si verificava una forte caduta della domanda, che portava al blocco della produzione e al conseguente licenziamento degli operai. Il fenomeno della disoccupazione di massa fece, dunque, il suo ingresso nella storia già nel corso del XIX secolo e si rafforzò ancora di più nel corso del Novecento, quando divenne il simbolo stesso del sopraggiungere di una fase di crisi. In una società preindustriale di tipo ancora prevalentemente agricolo, la disoccupazione era un fatto ignoto o assai marginale: la popolazione era sempre scarsa e il lavoro agricolo richiedeva le braccia di intere e numerose famiglie insediate sulla terra. Nella società industriale di massa dei paesi più avanzati, con la popolazione crescente di numero e sempre più concentrata nelle città, la caduta della produzione, la chiusura delle fabbriche o degli uffici, la cessazione delle attività commerciali o artigianali, erano tutti fenomeni che avevano ripercussioni immediate sui redditi degli individui: cadevano certo i profitti, ma le conseguenze più disastrose si riversavano soprattutto sui lavoratori dipendenti, i quali, venendo licenziati, perdevano il salario, che rappresentava quasi sempre la loro unica forma di reddito disponibile. E quando le crisi economiche erano di una certa gravità, il fenomeno della disoccupazione andava a colpire masse sempre più numerose di lavoratori.
Quali erano le ragioni del fatto che la produzione si bloccava a scadenze cicliche abbastanza costanti, creando crisi economica e disoccupazione? Riprendendo alcuni elementi già individuati da David Ricardo [cfr. cap. IV, § 6], e in seguito ripresi dallo stesso Marx e poi da Schumpeter, gli economisti si accorsero che in un mercato concorrenziale, cioè in un mercato caratterizzato dal fatto che molti imprenditori offrono i propri beni in una situazione di rivalità reciproca, il saggio del profitto, cioè la resa del capitale investito, tende inesorabilmente a diminuire, e ciò accade perché ogni imprenditore per vendere di più deve presentare prodotti di qualità crescente a prezzi più bassi possibili. I prezzi bassi limitano il profitto cosicché sopraggiunge un momento in cui non è più conveniente allargare gli investimenti perché il rendimento atteso sarebbe troppo basso. Per investire sempre di più e mantenere il più possibile inalterati i livelli del loro profitto, gli imprenditori possono allora ricorrere a tre meccanismi economici fondamentali: a) possono investire in tecnologie e macchinari, che contraggano i costi della produzione, potenziando la produttività del lavoro degli operai, e permettano così di ottenere gli stessi risultati utilizzando una minore quantità di forza lavoro; b) possono cercare di far scendere direttamente il costo del lavoro, tentando di mantenere più bassi possibili i livelli dei salari; c) possono creare aziende sempre più grandi o accorpare varie aziende in un unico sistema produttivo; in altre parole, possono cercare di dominare il mercato creando un monopolio dell’offerta di un determinato bene: in tal modo risparmiano sui costi generali di produzione [cfr. il sorgere del­la grande impresa: cap. V, § 8] e impongono ad un mercato monopolistico, cioè totalmente controllato da un unico produttore, i prezzi per loro più convenienti. Ma questi rimedi sono in qualche misura peggiori del male che vogliono curare; ed infatti essi provocano i seguenti fenomeni: a) gli investimenti in nuove tecnologie accrescono la capacità produttiva e fanno aumentare il numero dei beni prodotti e offerti al mercato; b) la diminuzione dei salari e la conseguente stagnazione della loro capacità di acquisto, in assenza di una significativa esportazione di beni verso l’estero, rende, al contrario, impossibile la crescita parallela della domanda di beni di consumo; c) la creazione di un monopolio produttivo, eliminando la libera concorrenza, spinge a sua volta a mantenere alti i livelli dei profitti quasi esclusivamente tenendo alti i livelli dei prezzi. Si viene a creare, dunque, una situazione in cui l’offerta è sempre più potenziata, e la domanda è sempre più indebolita, e i prezzi di conseguenza tendono a cadere; tutto ciò spinge gli imprenditori, e soprattutto i monopolisti, a bloccare la produzione e a licenziare la forza lavoro. Da ciò si deduce che in un sistema di tipo capitalistico la fase critica è destinata a insorgere ciclicamente come conseguenza dello squilibrio che inesorabilmente si crea tra la capacità crescente di produrre e di offrire beni al mercato (sostenuta dall’espansione degli investimenti e della tecnologia) e la capacità stagnante di domandare e consumare gli stessi beni da parte di salariati le cui capacità di acquisto restano minime. Si tratta, dunque, in linea di massima, di una crisi da sovrapproduzione, cioè dovuta ad una capacità di produrre troppo forte e ad una produzione effettiva troppo abbondante rispetto alla domanda di beni di consumo; e quando l’offerta è troppo più alta della domanda, i prezzi cadono, i profitti scompaiono e gli imprenditori smettono di investire. Naturalmente quando diminuiscono gli investimenti, la produzione si ferma e non vengono più distribuiti salari, con conseguenti licenziamenti e disoccupazione.
Nel corso dell’Ottocento gravi crisi di sovrapproduzione si realizzarono ciclicamente in tutti i paesi industrializzati o avviati all’industrializzazione, ma i ritmi di crescita complessiva del sistema erano talmente forti che il mercato da solo quasi sempre riusciva prima o poi ad assorbire la disoccupazione che si veniva a creare, in modo tale che il numero dei senza lavoro restava ragionevole, cioè non pericoloso per il funzionamento del sistema. Quando, ad esempio, gli operai inglesi nei primi decenni del XIX secolo distruggevano i nuovi macchinari (fenomeno che prese il nome di luddismo, dal nome del tessitore inglese Ned Ludd che nel 1799 aveva distrutto un telaio meccanico), lo facevano perché ritenevano che essi togliessero posti di lavoro a numerosi individui; ma in quell’epoca i loro timori non erano giustificati perché i ritmi dell’espansione degli investimenti erano talmente forti che coloro che venivano licenziati in un settore trovavano quasi subito lavoro in un altro. Se questo non accadeva, subentrava il fenomeno dell’emigrazione di massa (si pensi ai milioni di italiani che, come abbiamo visto, si trasferirono nelle Americhe) a raffreddare la pressione dei disoccupati. Si può dire, insomma, che nel corso del XIX secolo per molti decenni la dinamicità dell’economia industriale è stata tale da consentire al mercato di assorbire gli squilibri, talora anche forti, che pure di volta in volta si producevano nelle nazioni più avanzate, e di rilanciare la crescita degli investimenti.
Ma tra la fine del XIX secolo e l’inizio del primo conflitto mondiale, durante la cosiddetta belle époque – l’«epoca bella», appellativo giustificato dal benessere di cui godeva solo la florida borghesia europea e americana –, il livello delle contraddizioni sia sociali che economiche cominciò pericolosamente a crescere e l’intervento dello Stato in economia cominciò ad apparire sempre più un elemento indispensabile di ricostituzione dell’equilibrio messo in crisi.

3. La prima guerra mondiale e la crisi del 1929

Ai primi del Novecento e durante la prima guerra mondiale (1914-18), un importante elemento intervenne a bilanciare lo squilibrio crescente tra offerta e domanda: il bisogno che i governi avevano di potenziare e armare gli immensi eserciti che si preparavano a scontrarsi su...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione. Un protagonista della storia: il sistema economico
  2. I. Produzione e mercato nel mondo antico
  3. Documenti
  4. II. Nel Medioevo: dal declino degli scambi alla rivoluzione commerciale
  5. Documenti
  6. III. Agli inizi dell’età moderna: l’espansione europea
  7. Documenti
  8. IV. Dal mercantilismo al libero scambio
  9. Documenti
  10. V. Produzione industriale e mercati internazionali nel XIX secolo
  11. Documenti
  12. VI. La formazione del sistema economico italiano
  13. Documenti
  14. VII. L’età delle ideologie: crisi e sviluppo nella prima metà del Novecento
  15. Documenti
  16. VIII. I mercati internazionali e la guerra fredda
  17. Documenti
  18. IX. Mercati e commercio alla fine del Novecento
  19. Documenti
  20. X. L’economia italiana e i mercati internazionali nel secondo Novecento
  21. Documenti
  22. XI. Il mercato globale nel mondo contemporaneo
  23. Documenti