Le ‘autonomie contrattuali’ tra mercato e persona
di Guido Alpa
1. Nuovi aspetti del dibattito sulla autonomia contrattuale
Nel dibattito sulla autonomia privata inaugurato da Stefano Rodotà con la prolusione maceratese su Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile (1964, rist. 2007) e con il libro su Le fonti di integrazione del contratto (1969) è emerso un nuovo indirizzo interpretativo che configura un settore speciale dell’autonomia, denominandolo ‘autonomia privata d’impresa’. Questa operazione concettuale non è meramente descrittiva, perché vorrebbe tendere a considerare i contratti classificati in termini di contratti d’impresa come disciplinati da regole divergenti rispetto a quelle a cui sono assoggettati gli altri contratti – o le altre categorie di contratti – ai quali si applicherebbero solo le regole di natura generale previste dal Codice civile, oltre che, ciascuno di essi considerato, le regole speciali che eventualmente fossero loro destinate. Che ai contratti conclusi dalle imprese, occasionalmente in quanto contraenti secondo modelli accessibili a tutti, oppure necessariamente in quanto modelli riservati ad esse, si applicasse una disciplina articolata in diversi livelli – il livello costituzionale, il livello della legge ordinaria, cioè del Codice civile, il livello della legge speciale, il livello della normativa secondaria o subprimaria, comprensivo del livello delle regole delle autorità amministrative indipendenti – è constatazione scontata, che non merita un particolare approfondimento, se non, eventualmente, sotto il profilo del coordinamento della disciplina. Altro discorso è invece pensare a una biforcazione della disciplina, l’una riservata ai rapporti tra privati, l’altra riservata ai rapporti tra imprese o con le imprese. In questo senso, ne sarebbe inficiata la disciplina generale del contratto, che si applicherebbe solo in quanto la categoria dei contratti d’impresa già non prevedesse regole generali che si porrebbero a pari grado di quelle riservate ai privati.
La dottrina civilistica tendenzialmente segue la tesi tradizionale, e cioè che l’autonomia privata, considerata sotto il profilo della autonomia negoziale o contrattuale, possa sì presentare limitazioni e particolari curvature per i contratti conclusi dalle, o per le imprese, e tuttavia insiste per una nozione unitaria.
Inoltre, quando si fa riferimento ai contratti d’impresa occorre storicizzare la distinzione. L’evoluzione della dottrina al riguardo segna notevoli passaggi che sono descritti nella storia della interpretazione del Codice civile in materia di contratti dal 1942 ad oggi.
Si può infatti distinguere la fase appena anteriore alla redazione del Codice civile e alla unificazione dei due codici, con le opere di Redenti e Dalmartello, rivolte ad esplicitare il sostrato civilistico delle regole del Codice di commercio dedicate agli atti di commercio e all’attività del commerciante; la fase degli anni Settanta e il dibattito tra Massimo Severo Giannini, Giorgio Oppo, Vincenzo Buonocore, Franco Galgano sugli ordinamenti sezionali, sulla tutela del consumatore e sulla contrattazione d’impresa, i diversi convegni organizzati a Siena da Pietro Sirena e a Messina da Vincenzo Scalisi per definire i limiti dell’autonomia privata, le finalità sociali a cui può essere piegato il contratto, l’influenza del diritto comunitario sulle categorie generali e sulla classificazione dei contratti.
In questo contesto val la pena di esaminare gli argomenti utilizzati dai fautori della categoria intesa come categoria non descrittiva ma normativa.
La prima argomentazione riposa sulla distinzione tra diritto civile e diritto commerciale, e fa rivivere una separazione normativa che in realtà, dopo il 1942, era destinata a dissolversi. Sia che si propenda per la diluizione dei contratti commerciali nel Codice civile, sia che si propenda per la ‘commercializzazione’ del diritto civile, il risultato è che le due branche del diritto, suscettibili di distinzione finché furono affidate a codici separati, oggi non sono più distinguibili, se non dottrinariamente e accademicamente. Sotto questo profilo dunque la tesi non ha pregio.
Anche se si può accedere all’idea dell’avvenuta ‘commercializzazione’ del diritto privato (e non del fenomeno opposto), la normativa qualificata come diritto commerciale fa parte del diritto privato generale, anche se il primo, quanto meno nel Codice civile e nella disciplina dei singoli contratti speciali (con norme di codice o con norme ad hoc) si preoccupa della disciplina dell’atto mentre il secondo si preoccupa della disciplina dell’attività.
Si può anche aggiungere che, per un certo periodo di tempo, negli anni Settanta e Ottanta, si è parlato di ‘microsistemi’ – secondo la teoria di Natalino Irti, che è stata condivisa non solo dalla nostra cultura giuridica ma ha avuto enorme successo anche nei paesi dell’America Latina – e quindi di aggregazioni di norme rispetto agli interessi protetti in cui le categorie generali e la normativa del codice appariva superata, all’unità con il tempo si era sostituita la frammentazione, essendo questa non solo inclusiva dei contratti conclusi dalle imprese, ma anche dai consumatori, dai lavoratori, dagli inquilini, ecc.
E pure si può aggiungere che la applicazione del diritto comunitario non sorregge la distinzione: perché è vero che determinate regole sono destinate solo ai contratti o agli accordi tra imprese – si pensi alle intese anticoncorrenziali – ma è anche vero che in materia di contratti in generale ormai la tendenza è di assecondare l’estensione delle tutele accordate ai consumatori anche alle piccole e medie imprese.
Per non parlare poi delle iniziative volte ad armonizzare e a unificare il diritto privato europeo, in cui la distinzione è superata anche da parte dei giuristi che provengono da esperienze (e sono le più numerose) in cui le due codificazioni sono ancora separate. Mentre in common law della distinzione si tiene sì conto – ad es. in materia di interpretazione del contratto –, ma solo per effetto della presenza di circostanze particolari (l’essere entrambe le parti operatori economici, piuttosto che semplici privati), senza pretese di una configurazione dogmatica.
Anche l’altra argomentazione a cui si ricorre per giustificare l’autonoma rilevanza della libertà contrattuale d’impresa rispetto alla libertà contrattuale tout court (assumendo che libertà e autonomia siano sinonimi) non sembra calzante: essa va alla ricerca di aspetti tipici dell’attività economica, che giustificherebbero una autonoma disciplina. È il caso ad es. della legittimazione di operazioni in cui la causa non è tipizzata, come il contratto autonomo di garanzia, e occorre quindi individuare una causa ad hoc per legittimarlo nell’ordinamento, oppure la previsione di rimedi riequilibratori del rapporto, come l’abuso di dipendenza economica, e così via. Ma il fatto che vi siano nella legislazione speciale regole particolari per determinate operazioni economiche o per determinati rapporti non implica che l’autonomia contrattuale abbia una coloritura o delle finalità diverse rispetto a quelle proprie dell’autonomia contrattuale generale.
Credo che sia più corretta la tesi che teorizza i contratti d’impresa come categoria euristica, piuttosto che non come categoria normativa.
Il problema però si è riproposto di recente, con riguardo a una diversa classificazione, che raggruppa i contratti per l’impresa e con riguardo a una diversa prospettiva coerente e onnicomprensiva, in cui l’autonomia contrattuale è esaminata alla luce della disciplina, e dei paradigmi, della concorrenza economica.
Ad evitare il pericolo di suscitare nuove polemiche sulla classificazione dei contratti e sulla correttezza dogmatica della ascrizione di un contratto a una nuova categoria, alcuni autori hanno tentato di ammodernare l’interpretazione dei contratti che sono conclusi dalle imprese tra loro, dalle imprese con i consumatori, in modo diretto o mediato, includendo nella categoria sia i contratti B2C, sia i contratti B2B, sia i contratti B2b, cioè il gruppo che riguarda i contratti conclusi tra imprese di diverso potere contrattuale, normalmente tra grandi e piccole/medie imprese.
Gli autori raccolgono, seguendo un criterio sistematico orientato a individuare i diversi settori di mercato (merci, servizi, capitali) e le tecniche di aggregazione di imprese, molteplici modelli contrattuali in una categoria generale nuova e meno implicante di quelle correnti, intitolata appunto ai ‘contratti per l’impresa’.
L’esigenza avvertita però non è quella sistematica, bensì quella funzionale. E il metodo seguito è quello di proporre le soluzioni più praticabili, atteso che è la norma che deve agevolare il mercato piuttosto che ostacolarlo. Non si tratta tuttavia di una ricerca afferente all’analisi economica del diritto, anche se questa tecnica interpretativa è ben presente nella cultura degli autori, né vi si sostiene (come facevano i fautori della prima fase della Scuola di Chicago) che la norma debba ‘mimare’ il mercato. Piuttosto, si consuma il tentativo di ammodernare la dottrina, di segnalare le aporie della giurisprudenza, di stimolare il legislatore neghittoso là dove si registrano ritardi dell’ordinamento nell’adeguarsi alle nuove esigenze economiche e agli orientamenti provenienti da altre esperienze, quando esse siano più mature e funzionali ai bisogni dello sviluppo economico.
Questo progetto di rinnovamento culturale è stato accompagnato dalla costituzione di una associazione (Orizzonti del diritto commerciale) e dalla pubblicazione di una rivista che ne riprende finalità e obiettivi.
Incontriamo qui contributi sul contratto alieno, cioè sui contratti scritti tra imprese di diversa nazionalità o tra imprese italiane ma in lingua inglese, o con l’uso di moduli e clausole contrattuali provenienti da altre esperienze; e contributi sull’autonomia d’impresa, distinta dall’autonomia privata in quanto tale, avendo i rapporti istituiti tra le imprese una specificità che è loro propria e che non può essere considerata semplicisticamente come derogatoria di quella dell’autonomia privata generale; sulla razionalità del contraente, che è il presupposto, peraltro discutibile, normalmente considerato quando l’operatore è un professionista; e sui modelli contrattuali di per sé valutati alla luce dei tentativi di armonizzazione e uniformazione del diritto privato europeo.
Come si è anticipato, le operazioni economiche concluse nell’ambito di questa categoria, che non è né concettuale né dogmatica – anche se nel futuro potrebbe diventarlo – ma solo descrittiva, sono le più varie, riguardando la circolazione e la gestione di beni e servizi, i contratti di garanzia, le operazioni societarie, i tipi legali disciplinati dal Codice civile ma rimodellati secondo le esigenze della prassi, i contratti estesi a tutte le categorie di contraenti ma curvati secondo le finalità dell’impresa, e così via.
Vi sono anche i nuovi tipi contrattuali (come i contratti di rete), e gran parte delle operazioni bancarie e societarie che, nella loro sofisticata elaborazione, spesso precludono all’investitore occasi...