Prima lezione di archeologia
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Prima lezione di archeologia

  1. 174 pagine
  2. Italian
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Prima lezione di archeologia

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Informazioni

Categoria
Archeologia

Parte terza

Archeologia ambientale, archeologia dei paesaggi

Le ‘archeologie’ storico-culturali si mescolano nell’ambito di branche specialistiche, che affrontano situazioni riferibili alle più diverse epoche storiche. Un terreno d’incontro delle scienze umane e delle scienze esatte e naturali è offerto dall’archeologia ambientale1, che, operando in un quadro ecologico finalizzato alla ricostruzione dei paesaggi storici, rappresenta appieno uno dei caratteri dell’archeologia contemporanea. Al centro del suo interesse è lo studio del contesto naturale nel quale si sviluppano le attività umane e delle relazioni che si sono instaurate fra gli individui e l’ambiente, con le conseguenti capacità di adattamento e di trasformazione della natura variamente espresse dalle società del passato.
L’ambiente costituisce infatti uno degli elementi che determinano i modi in cui si organizzano le comunità umane, i loro comportamenti economici, le forme della sussistenza, che risentono direttamente delle caratteristiche morfologiche del territorio, del clima, della qualità dei terreni e delle loro risorse (fauna, flora, cave e miniere) che favoriscono la nascita e lo sviluppo degli insediamenti. Nel passato, considerato il basso sviluppo tecnologico raggiunto anche dalle società più complesse, questo condizionamento si manifestava in forme ancor più decisive, poiché l’ambiente influenzava le scelte e la vita in genere più di quanto non ne venisse a sua volta influenzato.
L’archeologia ambientale può operare puntualmente sul sito che indaga, ma non può fare a meno di analizzare l’intero sistema di siti che costituisce il quadro di riferimento regionale. Il confronto, ad esempio, fra i diversi bacini di approvvigionamento delle materie prime necessarie alla sussistenza o fra le distanze dei diversi insediamenti dalle vie di comunicazione o dalle risorse idriche può mettere in luce differenze sostanziali tra culture e regioni per quanto riguarda il rapporto uomo/ambiente e illuminare le variabili più significative che possano aver influenzato il funzionamento di un sistema culturale.
Poiché l’ambiente è il prodotto dell’interazione tra l’uomo e la natura, il suo studio non può essere appannaggio solo delle scienze naturali (il concetto stesso di «ambiente naturale» può essere utilizzato il più delle volte solo nel caso di comunità umane particolarmente elementari), ma deve accompagnarsi a una analisi delle formazioni economiche e sociali. Questo legittima la posizione dell’archeologia ambientale nel quadro delle discipline storiche, anche quando il suo obiettivo sia puntato prevalentemente sulle componenti naturali del quadro indagato, sia geologiche che biologiche. La feracità dei suoli, l’abbondanza delle risorse, la posizione strategica possono fare di una regione la sede ideale di un insediamento, ma possono essere anche l’oggetto del desiderio da parte di altre comunità stanziate in territori meno generosi dal punto di vista ambientale. La storia dell’Italia, oggetto di continue invasioni e di continui apporti demografici, ne è una prova evidente. In ultima analisi, insomma, anche le guerre possono essere talora inquadrate e comprese in un’ottica di archeologia ambientale.
La geoarcheologia2 investe quegli aspetti delle scienze geologiche che hanno relazioni con lo sviluppo degli insediamenti umani. Con le analisi sedimentologiche e pedologiche opera anche nel microcosmo dello scavo, chiarendo modi e tempi di formazione delle stratificazioni (processi formativi) e le alterazioni post-deposizionali3.
Le indagini geomorfologiche possono descrivere le trasformazioni, subitanee o progressive, della superficie terrestre, da cui dipendono mutamenti anche epocali nella vita di una comunità. Se le conseguenze dell’eruzione di un vulcano (eccezionale il caso del Vesuvio nel 79 d.C.) o di un terremoto danno un’immagine immediata delle trasformazioni che i fenomeni geologici possono indurre in un paesaggio, in altri casi solo l’occhio del geomorfologo può cogliere gli esiti di fenomeni di minore portata, ma più frequenti, come gli apporti eolici, le modifiche degli alvei fluviali, la presenza di strati alluvionali che abbiano modificato l’assetto di una valle, o la formazione di un nuovo bacino idrografico in seguito a un vasto movimento di frana. In altri casi, le trasformazioni si verificano lentamente: si pensi al variare impercettibile delle linee di costa marine, che ha causato l’insabbiamento dei porti (come nel caso di Pisa) o lo sprofondamento in mare di intere porzioni di abitato (come è accaduto a Baiae e al porto antico di Pozzuoli, in seguito al bradisismo che caratterizza quella regione vulcanica).
Si pensi anche al progressivo impaludamento cui sono state soggette in età storica tante regioni precedentemente abitate, anche in conseguenza del venir meno di un regime di controllo del sistema idrico, con conseguenze anche sul piano epidemiologico; e, viceversa, al mutamento di paesaggio verificatosi in seguito a grandi lavori di bonifica dei suoli umidi o impaludati, che ha restituito all’agricoltura terre altrimenti destinate a tutt’altre forme di sfruttamento economico (esiste infatti, ed ebbe importanza nell’antichità, anche un’economia della palude4).
Anche il fuoco determina modifiche profonde del paesaggio. Un incendio può spazzar via un’intera città, specie se questa è costruita prevalentemente di legno. Ma infinitamente più numerosi degli incendi degli abitati furono nel corso dei millenni gli incendi dei boschi. Oggi, queste calamità sono per lo più il frutto di comportamenti colposi o dolosi e ci colpiscono negativamente per le distruzioni ambientali che provocano; in epoche passate, anche non troppo lontane, l’incendio dei boschi costituiva invece una pratica economica, sostenuta da una vera e propria tecnica (detta debbio), per acquisire nuove terre per il pascolo e le colture da parte di comunità di pastori e di agricoltori. Le tracce di queste trasformazioni dei suoli sono colte dal geomorfologo e dal pedologo con analisi a diversa scala, ma in alcuni casi anche lo studio della toponomastica aiuta a ricostruire un sistema ambientale ormai scomparso: si pensi, a proposito del debbio e della primitiva esistenza di vaste estensioni boschive via via conquistate dall’uomo, a toponimi assai diffusi, tra cui spiccano quelli della città lombarda di Busto Arsizio o della gallica Narbona5.
Anche la eliminazione di specie animali selvatiche da un territorio, come, ad esempio, nel caso del leone dalle terre rivierasche del Mediterraneo, può essere significativa per capirne il successivo sviluppo economico e demografico, così come – al contrario – l’immissione di specie addomesticate di animali e piante in aree che un tempo ne erano prive. La comparsa del cavallo o della vite nelle società protostoriche, o l’arrivo, nella tarda età romana, del ratto portatore della peste non sono che alcuni dei tanti esempi che ci possono dare un’idea dell’importanza di questo genere di osservazioni.
La nuova branca dell’archeologia che va sotto il nome di archeologia dei paesaggi, che mira a un approccio globale alle tracce lasciate dall’intervento dell’uomo sul territorio, ha trovato nelle procedure dell’archeologia ambientale una componente fondamentale per il suo sviluppo6. Sul campo, camminando su un maggese o tra i filari di un vigneto, si incontrano archeologi e naturalisti, si incrociano le analisi della aerofotointerpretazione archeologica con quelle tipologiche dei manufatti, le osservazioni geoarcheologiche con quelle epigrafiche e prosopografiche.
L’archeologia del paesaggio applica i metodi dell’archeologia ambientale per la ricostruzione degli ecosistemi e delle loro trasformazioni, ma si avvale anche delle fonti storiche (quali i documenti catastali), spesso decisive – in un’ottica di ‘storia agraria’ – per comprendere le forme di organizzazione del territorio in relazione alla viabilità, alle divisioni agrarie, alle tecniche di coltivazione dei campi, alle tipologie degli insediamenti e alle consuetudini agricole, ma anche alle fonti di approvvigionamento delle materie prime, alla natura dei consumi e degli scambi e perfino dei regimi fiscali e degli assetti della proprietà fondiaria e del potere politico.
Fonti storiche tradizionali e dati di natura scientifica costituiscono le due ali di una procedura di indagine che ha nella diagnostica archeologica e nella ricognizione topografica7 i suoi bracci operativi.
Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche, sia al suolo che da telerilevamento, ha ampliato a dismisura le capacità di scoprire la presenza dei manufatti sepolti e talora di comprenderne natura e qualità all’interno di una visione complessiva del paesaggio storico. L’orizzonte dell’indagine si è andato così allargando – grazie anche a procedure di campionamento sempre più raffinate – dal singolo sito a interi comprensori, che offrono il contesto di riferimento per analisi più selettive che possono in seguito essere condotte con procedure più intensive, prevalentemente di carattere geofisico.
L’approccio archeologico ai territori ha alle spalle l’esperienza delle peregrinazioni antiquarie e romantiche, che puntavano a individuare i centri più significativi di una regione o i resti più monumentali, e i successivi tentativi di costruzioni di cartografie archeologiche sistematiche (avviati in Italia alla fine del XIX secolo), ma i nuovi metodi riflettono le nuove domande. L’archeologia dei paesaggi infatti ha nel suo DNA l’ottica contestuale, ambientale e stratigrafica.
È questo tipo di approccio che consente di riformulare le premesse teoriche e culturali per la gestione della tutela dei beni archeologici nell’ambito di una pianificazione dell’uso dei suoli. La conoscenza della profondità storica dello spazio geografico non è mai stata così ampia come in quest’ultima generazione. Eppure proprio questi ultimi decenni – in Europa in seguito allo sviluppo economico post-bellico e a cinquanta anni di pace, in tante altre parti del mondo in seguito alla decolonizzazione e a situazioni endemiche di conflitto – hanno visto la distruzione di una quantità di vestigia archeologiche assai maggiore di quella verificatasi nel corso di tutti i secoli precedenti8.
Un drammatico paradosso vede la capacità di produrre conoscenza crescere di pari passo con l’effettiva perdita di informazioni storiche, e avvicina l’archeologia all’antropologia culturale, che ha visto ancor più rapidamente sparire sotto i suoi occhi l’oggetto del proprio studio. Questo fenomeno non può essere affrontato solo in sede archeologica (le soluzioni stanno evidentemente altrove), ma ha comunque stimolato l’incremento qualitativo degli strumenti di intervento sul terreno e le premesse teoriche che li guidano, orientando una archeologia di emergenza, che mette a frutto i progressi avvenuti nell’ambito dell’indagine stratigrafica del terreno.
La focalizzazione della ricerca archeologica su di una scala territoriale è andata avanti a mano a mano che perdeva vigore un’ottica idealistica, che potremmo definire di matrice crociana, tesa piuttosto a individuare emergenze monumentali e artistiche gerarchicamente intese. Ma la descrizione archeologica di un territorio non può essere paragonata a quelle cartine turistiche che disegnano una regione costellata di monumenti e prodotti caratteristici, una torre medievale, un teatro romano, una gondola veneziana, un grappolo d’uva..., dipinti su di uno sfondo indifferenziato. L’archeologia dei paesaggi ha tra i suoi compiti proprio quello di dipingere lo sfondo che l’attività umana ha creato e nel quale si è sviluppata la sua esistenza.

Stratificazione, stratigrafia, scavo

La terra è depositaria di infiniti racconti, che l’archeologia trascrive mediante l’applicazione del metodo di scavo stratigrafico. Non è dunque un caso se il più celebre manuale del secolo scorso, l’Archaeology from the Earth di Sir Mortimer Wheeler9, abbia ispirato ad Andrea Carandini il titolo per Storie dalla terra10, il primo manuale di scavo italiano, che è un omaggio al grande archeologo inglese e una argomentazione culturale della lettura stratigrafica della realtà. La stratigrafia descrive infatti la disposizione degli strati secondo la loro forma, organizzazione e successione nel tempo. Ma l’uso di questo strumento, che richiede sapienza tecnica, esprime anche una cultura, perché è la chiave di accesso alla complessità delle combinazioni contestuali in cui si articola il divenire storico, e segna il superamento dell’eredità meno viva dell’erudizione antiquaria, tanto dotta quanto arretrata nella raccolta dei dati sul terreno11.
Se oggi sempre più si parla di ‘archeologia senza scavo’ e si opera di conseguenza nella diagnostica territoriale, questa nuova frontiera dell’archeologia non si pone come un superamento dello scavo quanto piuttosto come un’estensione delle sue premesse e delle sue procedure contestuali al campo della valutazione archeologica, figlia legittima della stratigrafia12.
La finalità storica della ricerca archeologica era già presente nel programma che Wheeler aveva dettato con una celebre definizione spesso ripetuta: «l’archeologo non scava oggetti, ma esseri umani»13. Quella frase riprendeva indirettamente l’invito dell’archeologo finlandese Aarne Tallgren a evitare che la pratica archeologica considerasse «le forme e i tipi, cioè i manufatti [...] più vivi e reali delle società che li avevano prodotti per fare fronte alle loro esigenze»14: un invito, insomma, a studiare sì le cose, ma per tornare attraverso queste agli uomini, e da questi ancora alle cose e ai paesaggi delle loro vite15.
Il territorio in cui operiamo è il prodotto di un divenire continuo16, e anche la piccola porzione di terreno che l’archeologo si appresta a scavare può essere analizzata come un microcosmo nel quale i fenomeni naturali e le attività umane si intrecciano a volte inestricabilmente.
L’archeologia e la geologia hanno diversi punti di contatto occupandosi entrambe del terreno e delle sue trasformazioni, che sono il prodotto di due fenomeni concomitanti, e cioè la distruzione (o erosione) e la costruzione (o accumulo). La loro azione combinata modifica il paesaggio attraverso il temporaneo raggiungimento di una serie di equilibri successivi, periodicamente sconvolti da momenti di attività, cui seguono nuovi momenti di pausa, in cui il paesaggio formatosi viene frequentato, lungo un processo in continuo divenire.
La stratificazione archeologica, essendo principalmente frutto dell’attività dell’uomo, risulta assai più ricca e articolata di quella geologica e deve essere osservata a una scala assai più ravvicinata, per cogliere gli eventi che costituiscono le fasi di vita e di trasformazione di un paesaggio, in cui l’uomo (oggetto dell’indagine archeologica) ha utilizzato lo spazio (campo dell’indagine stessa), lasciandovi le sue tracce. Sono questi i «fossili guida», che permettono di datare gli strati e di interpretarli nella loro funzione, per collocare nel divenire storico le vicende di un insediamento.
La stratificazione archeologica17 è composta dalla sovrapposizione di diverse componenti, che vengono definite unità stratigrafiche e costituiscono il risultato di singole azioni umane o naturali effettivamente identificabili. Le unità stratigrafiche possono essere positive, testimonianza concreta di attività di accumulo e costruzione (strati di terra, mucchi, pavimenti, muri, riempimenti di fosse, ecc.), o negative, segno impalpabile, ma riconoscibile e storicamente determinante delle attività di uso e di distruzione di strutture o strati (usure di strade, scavo di fosse, rasature di muri...).
Le unità stratigrafiche positive sono dotate di una interfaccia, che ne rappresenta il limite superficiale (il termine è mutuato dalla geologia, dove indica il momento di discontinuità tra due formazioni); quelle negative, essendo invece il prodotto di un’attività di asporto di materia, sono entità immateriali e coincidono con l’interfaccia negativa (o superficie in sé). Le unità stratigrafiche positive e negative possono trovarsi tra di loro in tre termini di relazioni fisiche: a) sovrapposizione; b) uguaglianza; c) assenza di rapporti diretti.
L’insieme delle unità stratigrafiche analizzate nei loro rapporti reciproci costituisce la sequenza stratigrafica, visualizzata in un apposito diagramma (matrix); essa è il risultato dell’analisi della stratificazione, basata sull’osservazione di alcune leggi, teorizzate da Edward Harris (continuità originaria, orizzontalità originaria, sovrapposizione, successione stratigrafica)18.
Il pensiero di Harris ha riscosso grande successo anche in Italia19, ma negli ambienti più vicini all’archeologia processuale – su cui torneremo – l’accoglienza non è stata entusiasta. Gli si riconosce la capacità di tenere sotto controllo la consequenzialità delle relazioni tra le unità stratigrafiche, così come emergono dallo scavo, ma non si è altrettanto generosi rispetto alla sua efficacia sul piano dell’interpretazione. Le critiche riguardano un certo margine di arbitrarietà nell’individuazione delle unità stratigrafiche in fase di scavo, con conseguente eccessiva semplificazione della articolazione stratigrafica, e soprattutto una presunta separazione dell’archeologia dalla geologia. Anche se appare comunque evidente che la stratificazione archeologica, pur rientrando nelle leggi generali della sedimentazione, ne rappresenti un aspetto particolare e ben più complicato20.
La critica dei processualisti si è appuntata anche sul carattere ancora fortemente intuitivo dell’i...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Parte prima
  3. Parte seconda
  4. Parte terza
  5. Note