
eBook - ePub
Materia e memoria
Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito
- 232 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro
In quest'opera, che anticipa il dibattito contemporaneo sul cosiddetto «mind-body problem», Bergson conferma il suo distacco dalle forme intellettualistiche del pensiero moderno e prospetta una concezione dinamica dell'identità dell'io e del reale.
Questa edizione italiana è stata condotta sul testo pubblicato in H. Bergson, Oeuvres, Edition du Centenaire, Presses Universitaires de France, Paris 1959.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Storia e teoria della filosofiaCapitolo secondo. Il riconoscimento delle immagini. La memoria e il cervello
Enunciamo immediatamente le conseguenze che deriverebbero dai nostri principi per la teoria della memoria. Dicevamo che il corpo, interposto tra gli oggetti che agiscono su di esso e quelli che influenza, è soltanto un conduttore, incaricato di raccogliere i movimenti e di trasmetterli, quando non li ferma, a certi meccanismi motòri, determinati se l’azione è riflessa, scelti se l’azione è volontaria. Tutto deve accadere, dunque, come se una memoria indipendente raccogliesse delle immagini lungo il tempo via via che si producono, e come se il nostro corpo, con ciò che lo circonda, fosse soltanto una certa immagine tra queste immagini, l’ultima, quella che otteniamo in ogni momento, praticando una cesura istantanea nel divenire in generale. In questa cesura, il nostro corpo occupa il centro. Le cose che lo circondano agiscono su di esso ed esso agisce su queste. Le sue reazioni sono più o meno complesse, più o meno diversificate, secondo il numero e la natura degli apparati che l’esperienza ha costruito all’interno della sua sostanza. È dunque sotto forma di dispositivi motòri, e di dispositivi motòri soltanto, che esso può immagazzinare l’azione del passato. Da ciò risulterebbe che le immagini passate propriamente dette si conservano diversamente e che dobbiamo, di conseguenza, formulare questa prima ipotesi:
I. Il passato si conserva sotto due forme distinte: 1° dentro dei meccanismi motòri; 2º dentro dei ricordi indipendenti.
Ma allora l’operazione pratica, e di conseguenza abituale, della memoria, l’utilizzo dell’esperienza passata per l’azione presente, il riconoscimento insomma, deve compiersi in due maniere. A volte si attuerà nell’azione stessa e con l’attivazione totalmente automatica del meccanismo appropriato alle circostanze; a volte implicherà un lavoro dello spirito, che andrà a cercare nel passato, per dirigerle sul presente, le rappresentazioni più atte ad inserirsi nella situazione attuale. Da qui la nostra seconda proposizione:
II. Il riconoscimento di un oggetto presente avviene per dei movimenti quando procede dall’oggetto, per delle rappresentazioni quando emana dal soggetto.
È vero che si pone un ulteriore problema, quello di sapere come si conservino queste rappresentazioni e quali rapporti intrattengano con i meccanismi motòri. Questo problema verrà approfondito soltanto nel nostro prossimo capitolo, quando avremo trattato dell’inconscio e mostrato in che cosa consista, in fondo, la distinzione tra il passato e il presente. Ma fin d’ora possiamo parlare del corpo come di un limite mobile tra il futuro ed il passato, come di una punta mobile che il nostro passato spingerebbe incessantemente nel nostro futuro. Mentre il mio corpo, considerato in un unico istante, è soltanto un conduttore interposto tra gli oggetti che l’influenzano e gli oggetti su cui agisce, in compenso, rimesso nel tempo che scorre, è sempre situato nel punto preciso in cui il mio passato terminerà in un’azione. E, di conseguenza, queste particolari immagini che chiamo meccanismi cerebrali, concludono in ogni momento la serie delle mie rappresentazioni passate, essendo l’ultimo prolungamento che queste rappresentazioni inviano nel presente, loro punto di contatto con il reale, cioè con l’azione. Spezzate questo contatto, forse l’immagine passata non viene distrutta, ma voi le togliete ogni mezzo per agire sul reale e, di conseguenza, come mostreremo, di realizzarsi. È in questo senso, e soltanto in questo senso, che una lesione del cervello potrà abolire qualcosa della memoria. Da qui la nostra terza ed ultima proposizione:
III. Si passa, per gradi impercettibili, dai ricordi disposti lungo il tempo ai movimenti che ne delineano l’azione nascente o possibile nello spazio. Le lesioni del cervello possono colpire questi movimenti, ma non questi ricordi.
Resta da vedere se l’esperienza verifica queste tre proposizioni.
I. Le due forme della memoria. Studio una lezione e, per impararla a memoria, dapprima la leggo scandendo ogni verso; in seguito la ripeto un certo numero di volte. Ad ogni nuova lettura si compie un progresso; le parole si legano sempre meglio; finiscono con l’organizzarsi insieme. In questo preciso momento io so la mia lezione a memoria; si dice che è diventata ricordo, che si è impressa nella mia memoria.
Ora cerco come sia stata imparata la lezione e mi raffiguro le fasi attraverso cui sono passato di volta in volta. Ciascuna delle successive letture mi ritorna allora alla mente con la sua propria individualità; la rivedo con le circostanze che l’accompagnavano e che ancora l’inquadrano; essa si distingue da quelle che la precedono e da quelle che la seguono per il posto stesso che ha occupato nel tem-po; in breve, ciascuna di queste letture ripassa davanti a me come un avvenimento determinato della mia storia. Si dirà ancora che queste immagini sono dei ricordi, che si sono impresse nella mia memoria. Si usano le stesse parole nei due casi. Si tratta proprio della stessa cosa?
Il ricordo della lezione, in quanto imparata a memoria, ha tutte le caratteristiche di un’abitudine. Come l’abitudine, si acquisisce attraverso la ripetizione di uno stesso sforzo. Come l’abitudine, ha richiesto dapprima la scomposizione, poi la ricomposizione dell’azione totale. Come ogni esercizio abituale del corpo, infine, si è immagazzinato in un meccanismo che mette interamente in moto un impulso iniziale, in un sistema chiuso di movimenti automatici che si susseguono nello stesso ordine e occupano lo stesso tempo.
Al contrario, il ricordo di tale particolare lettura, per esempio la seconda o la terza, non ha nessuna delle caratteristiche dell’abitudine. La sua immagine si è necessariamente impressa nella memoria al primo colpo, visto che le altre letture costituiscono, per definizione stessa, dei ricordi differenti. È come un avvenimento della mia vita; la sua essenza è di avere una data e, di conseguenza, di non potersi ripetere. Tutto ciò che ad esso aggiungerebbero le ulteriori letture non farebbe che alterarne la natura originaria; e se il mio sforzo per evocare questa immagine diventa sempre più facile via via che lo ripeto più di sovente, l’immagine stessa, considerata in sé, era necessariamente all’inizio ciò che essa sarà sempre.
Si dirà che questi due ricordi, quello della lettura e quello della lezione, differiscono soltanto dal più al meno, che le immagini sviluppate successivamente da ogni lettura si ricoprono tra loro, e che la lezione, una volta imparata, non è che l’immagine composta, risultante dalla sovrapposizione di tutte le altre? È incontestabile che ciascuna delle successive letture differisca dalla precedente soprattutto per il fatto che la lezione sia meglio conosciuta. Ma è anche certo che ciascuna di esse, considerata come una lettura sempre rinnovata, e non come una lezione sempre meglio appresa, basta assolutamente a se stessa, sussiste così come si è prodotta e costituisce, con tutte le percezioni concomitanti, un momento irriducibile della mia storia. Si può anche andare più lontano, e dire che la coscienza ci rivela, tra questi due generi di ricordi, una differenza profonda, una differenza di natura. Il ricordo di tale determinata lettura è una rappresentazione e soltanto una rappresentazione, sta in un’intuizione dello spirito che posso, a mio piacimento, allungare o accorciare; io gli assegno una durata arbitraria: niente mi impedisce di abbracciarlo repentinamente, come in un quadro. Al contrario, il ricordo della lezione imparata, anche quando mi limito a ripetere questa lezione interiormente, esige un tempo ben determinato, lo stesso che è necessario per sviluppare uno ad uno, anche solo con l’immaginazione, tutti i movimenti d’articolazione necessari: non è più dunque una rappresentazione, è un’azione. E, di fatto, la lezione, una volta imparata, non porta su di sé alcun segno che tradisca le sue origini e la archivi nel passato; fa parte del mio presente come la mia abitudine di camminare o di scrivere; è vissuta, è «agita» piuttosto che rappresentata; – potrei crederla innata, se non mi andasse di evocare nello stesso tempo, come altrettante rappresentazioni, le successive letture che mi sono servite per impararla. Queste rappresentazioni sono dunque indipendenti da quella, e come hanno preceduto la lezione imparata e recitata, così la lezione, una volta imparata, può fare a meno di esse.
Spingendo fino all’estremo questa distinzione fondamentale, potremmo raffigurarci due memorie teoricamente indipendenti. La prima registrerebbe, sotto forma di immagini-ricordo, tutti gli avvenimenti della nostra vita quotidiana via via che si svolgono; non trascurerebbe alcun particolare; ad ogni fatto, ad ogni gesto, lascerebbe il suo posto e la sua data. Senza secondi fini di utilità o di applicazione pratica, immagazzinerebbe il passato soltanto per effetto di una necessità naturale. Per essa diventerebbe possibile il riconoscimento intelligente, o piuttosto intellettuale, di una percezione già provata; in essa ci rifugeremmo tutte le volte che, per cercarvi una determinata immagine, risaliamo il pendio della nostra vita passata. Ma ogni percezione si prolunga in azione nascente; e via via che le immagini, una volta percepite, si fissano e si allineano in questa memoria, i movimenti che le continuavano modificano l’organismo, creano nel corpo delle nuove disposizioni ad agire. Così si forma un’esperienza di altro genere e che si deposita nel corpo, una serie di meccanismi totalmente costruiti, con delle reazioni sempre più numerose e diversificate alle eccitazioni esterne, con delle risposte già pronte ad un numero incessantemente crescente di possibili richieste. Noi prendiamo coscienza di questi meccanismi nel momento in cui essi entrano in atto, e questa coscienza di tutto un passato di sforzi immagazzinato nel presente è certamente ancora una memoria, ma una memoria profondamente differente dalla prima, sempre tesa verso l’azione, posta nel presente e rivolta soltanto al futuro. Del passato ha conservato soltanto i movimenti intelligentemente coordinati che ne rappresentano lo sforzo accumulato; essa non ritrova questi sforzi passati nelle immagini-ricordo che li richiamano, ma nell’ordine rigoroso e nel carattere sistematico con cui si compiono gli attuali movimenti. A dire il vero, essa non ci raffigura più il nostro passato, ma lo mette in atto; e se merita ancora il nome di memoria, non è più perché conserva delle vecchie immagini, ma perché ne prolunga l’effetto utile fino al momento presente.
Di queste due memorie, di cui l’una immagina e l’altra ripete, la seconda può supplire la prima e spesso darne anche l’illusione. Quando il cane accoglie il suo padrone con dei guaiti gioiosi e con delle moine, lo riconosce, senza alcun dubbio; ma questo riconoscimento implica l’evocazione di un’immagine passata e il confronto di quest’immagine con la percezione presente? Non consiste piuttosto nel fatto che l’animale prende coscienza di un certo atteggiamento speciale assunto dal suo corpo, atteggiamento che i suoi rapporti familiari con il suo padrone gli hanno poco a poco formato, e che adesso la sola percezione del padrone provoca in esso meccanicamente? Non andiamo troppo in là! nell’animale stesso delle vaghe immagini del passato oltrepassano forse la percezione presente; si potrebbe persino pensare che il suo passato intero sia virtualmente delineato nella sua coscienza; ma questo passato non lo interessa abbastanza da distaccarlo dal presente che lo affascina, e il suo riconoscimento deve essere più vissuto che pensato. Per evocare il passato sotto forma d’immagine bisogna potersi astrarre dall’azione presente, bisogna saper dare valore all’inutile, bisogna voler sognare. Forse solo l’uomo è capace di uno sforzo di questo genere. Inoltre il passato a cui noi risaliamo così è sfuggente, sempre sul punto di scapparci, come se questa memoria regressiva fosse contrastata dall’altra memoria, più naturale, il cui movimento in avanti ci porta ad agire e a vivere.
Quando gli psicologi parlano del ricordo come di una piega contratta, come di un’impressione che, ripetendosi, si incide sempre più profondamente, dimenticano che la stragrande maggioranza dei nostri ricordi riguarda gli avvenimenti e i particolari della nostra vita, la cui essenza è quella di avere una data e di conseguenza di non riprodursi mai. I ricordi che si acquistano volontariamente, per ripetizione, sono rari, eccezionali. Al contrario, la registrazione, grazie alla memoria, di fatti e immagini uniche nel loro genere, si perpetua in tutti i momenti della durata. Ma siccome i ricordi imparati sono i più utili, li si nota maggiormente. E siccome l’acquisizione di questi ricordi per la ripetizione dello stesso sforzo assomiglia al processo già conosciuto dell’abitudine, si preferisce spingere in primo piano questo tipo di ricordo, ergerlo a ricordo modello, e vedere nel ricordo spontaneo soltanto questo stesso fenomeno allo stato nascente, l’inizio di una lezione imparata a memoria. Ma come non riconoscere che è radicale la differenza tra ciò che deve costituirsi per la ripetizione e ciò che, per essenza, non può ripetersi? Il ricordo spontaneo è immediatamente perfetto; il tempo non potrà aggiungere nulla alla sua immagine senza snaturarla; esso conserverà, per la memoria, il suo posto e la sua data. Al contrario, il ricordo imparato uscirà dal tempo via via che la lezione sarà meglio saputa; diventerà sempre più impersonale, sempre più estraneo alla nostra vita passata. La ripetizione, dunque, non ha affatto come effetto quello di convertire il primo nel secondo; la sua funzione è semplicemente quella di utilizzare sempre meglio i movimenti attraverso i quali il primo si prolunga, per organizzarli tra loro e, costruendo un meccanismo, creare un’abitudine del corpo. Del resto quest’abitudine è un ricordo soltanto perché mi rammento di averla acquisita: e io mi rammento di averla acquisita soltanto perché faccio appello alla memoria spontanea, quella che data gli avvenimenti e li registra soltanto una volta. Delle due memorie che abbiamo appena distinto, la prima sembra dunque essere proprio la memoria per eccellenza. La seconda, quella che gli psicologi studiano di solito, è l’abitudine illuminata dalla memoria piuttosto che la memoria stessa.
È vero che l’esempio di una lezione imparata a memoria è abbastanza artificiale. Tuttavia la nostra esistenza scorre in mezzo ad un numero ristretto di oggetti, che ripassano più o meno sovente davanti a noi: ciascuno di questi, nello stesso tempo in cui è percepito, provoca da parte nostra dei movimenti almeno nascenti tramite i quali ci adattiamo ad esso. Questi movimenti, ripetendosi, si creano un meccanismo, passano allo stato di abitudine, e determinano in noi degli atteggiamenti che seguono automaticamente la nostra percezione delle cose. Il nostro sistema nervoso sarebbe destinato, come dicevamo, quasi soltanto a questo uso. I nervi afferenti portano al cervello un’eccitazione che, dopo aver scelto intelligentemente la sua via, si trasmette a dei meccanismi motòri creati dalla ripetizione. Così si produce la reazione appropriata, l’equilibrio con l’ambiente, l’adattamento, in una parola, che è il fine generale della vita. E un essere vivente che si accontentasse di vivere non avrebbe bisogno d’altro. Ma, nello stesso tempo in cui si attua questo processo di percezione e di adattamento, che si conclude con la registrazione del passato sotto forma di abitudini motòrie, la coscienza, al contrario, come vedremo, trattiene l’immagine delle situazioni attraverso le quali è passata di volta in volta, e le allinea nell’ordine in cui si sono succedute. A cosa serviranno queste immagini-ricordo? Conservandosi nella memoria, riproducendosi nella coscienza, non giungono a snaturare il carattere pratico della vita, mischiando il sogno con la realtà? Sarebbe così, senza dubbio, se la nostra coscienza attuale, coscienza che riflette precisamente l’esatto adattamento del nostro sistema nervoso alla situazione presente, non scartasse, delle immagini passate, tutte quelle che non possono coordinarsi con l’attuale percezione e che non possono formare con essa un insieme utile. Tutt’al più alcuni ricordi confusi, senza attinenza con la situazione presente, oltrepassano le immagini utilmente associate, delineando attorno a queste una frangia meno rischiarata che si perderà in un’immensa zona oscura. Ma capita un incidente che turba l’equilibrio mantenuto dal cervello tra l’eccitazione esterna e la reazione motòria: rilassate per un istante la tensione dei fili che vanno dalla periferia alla periferia passando per il centro, subito le immagini oscurate si spingeranno in piena luce; è quest’ultima condizione che si realizza senza dubbio durante il sonno in cui si sogna. Delle due memorie che abbiamo distinto, la seconda, che è attiva o motò...
Indice dei contenuti
- Prefazione
- Prefazione alla prima edizione (1896)
- Prefazione alla settima edizione (1911)
- Capitolo primo. La selezione delle immagini per la rappresentazione. La funzione del corpo
- Capitolo secondo. Il riconoscimento delle immagini. La memoria e il cervello
- Capitolo terzo. La sopravvivenza delle immagini. La memoria e lo spirito
- Capitolo quarto. La delimitazione e la fissazione delle immagini. Percezione e materia. Anima e corpo
- Riassunto e conclusione