Contro il decoro
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Contro il decoro

L'uso politico della pubblica decenza

  1. 96 pagine
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Contro il decoro

L'uso politico della pubblica decenza

Informazioni su questo libro

Hanno contrapposto libertà ed eguaglianza. Hanno fatto dell'eguaglianza l'ostacolo all'affermazione individuale e il freno alla crescita. Ma la libertà sempre meno persone se la possono permettere. E allora, accanto alla paura, ci vuole il decoro per tenere a bada chi non ce la fa.Decoro è termine che viene utilizzato per significare cose diverse. Un comportamento è 'decoroso' quando è adeguato al tipo di persona e al contesto in cui si dispiega: una casa è 'decorosa' quando è pulita e in ordine. Ma i ricchi e i potenti non hanno bisogno di imporsi regole di decoro. Anzi, il loro valore si manifesta in uno stile di vita che esibisce l'assoluta noncuranza verso i limiti imposti a tutti gli altri. Dove l''indecenza' è ciò che conviene ai molto ricchi, il decoro è ciò che viene proposto e imposto a un ceto medio impoverito e impaurito. Il decoro divide tra perbene e permale e funziona per ottenere consenso. Decoro, merito, disciplina sono le parole d'ordine e gli obiettivi di politiche che legittimano la paura contro ciò che è sporco, contaminante, eccessivo, minaccioso per l'ordine e la sicurezza. Decoro e paura richiamano la pulizia: chi sono i germi e i batteri che vanno dunque buttati fuori dalla casa comune dei cittadini perbene?

Domande frequenti

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Informazioni

Argomento
Economia

1. Per cominciare

«Anche fotografato a colori, il governo Monti esce fuori in bianco e nero» (Fiorello). Un bel contrasto con il governo Berlusconi, scollature, tacchi alti, cravatte verdi, occhiali rossi... Il decoro ha (momentaneamente) vinto sull’indecenza? Il bianco e nero è ciò che si addice a tempi di austerità e «rigore»? In questo breve saggio mi propongo di argomentare che, se la nuova messa in scena sembra proporre un nuovo corso (meglio, un nuovo discorso), viceversa decoro e indecenza non solo non si escludono a vicenda, ma si implicano, delineando modalità di controllo e disciplina orientate per un verso a tenere in riga un ceto medio impoverito e impaurito e per altro verso a contenere i giovani di ambo i sessi e di tutte le nazionalità.
Può darsi, naturalmente, che il mutamento di estetica segnali anche un mutamento di etica. Alcuni indizi già ci sarebbero, per esempio la crociata contro gli evasori fiscali (la prima di cui io mi ricordi in Italia), l’improvviso scatenarsi della messa sotto accusa del ricco che non paga le tasse o esibisce troppi privilegi (cosa di cui non a caso si lamentano molti appartenenti al centro-destra), ma non solo è presto per dirlo: per inaugurare un’etica nuova ci vogliono azioni significative che almeno comincino a invertire la rotta rispetto all’egemonia neoliberista, e per ora non se ne vedono. Anzi: ciò che si vede è proprio una dose massiccia di ideologia del «decoro» a rinforzo di questa egemonia stessa. Una nuova versione, si direbbe, dell’ideologia tedesca?
In ogni caso, sebbene questo saggio interroghi la peculiare modalità con cui la cultura neoliberista si è dispiegata in Italia nel ventennio berlusconiano, l’intrecciarsi tra «decoro» e ciò che ho convenuto chiamare «indecenza» non finisce d’un tratto e proietta la sua ombra sul nuovo corso, ammesso che di nuovo corso si possa parlare. Basta citare la famosa contrapposizione tra tailleur ministeriale e farfallina inguinale (ultimo festival di Sanremo) proposta dal leader del Partito democratico (dove il primo – il tailleur –, a suo dire, sarebbe sicuramente la scelta della sua ignara figlia). Cosa che contribuisce a mettere in luce come siano le donne, volenti o nolenti, e gli stereotipi del femminile a essere al centro di questo intreccio. I corpi delle donne come luogo della sessualità e del desiderio...
Decoro e dignità sono ricorse spesso nel lessico dell’opposizione politica e sociale al berlusconismo di questi ultimi anni. Non vogliono dire la stessa cosa, ma si sono in certo modo sovrapposte e coniugate fino ad acquisire, in alcuni contesti, un significato analogo. Decoro è tuttavia parola altrettanto usata per giustificare atti del governo passato e ancor più politiche e proposte dei governi locali, di tutti i colori.
Decoro e dignità sono risuonate per deprecare i bunga bunga e le barzellette sconce, l’abbondanza di «veline» e corpi femminili nudi sulle tv generaliste, le esibizioni dell’ex premier negli incontri internazionali e in generale l’atmosfera da «nani e ballerine» (non a caso espressione usata ai tempi di Craxi e ora riciclata) promossa ai massimi vertici delle istituzioni pubbliche. Ma di scarso decoro è stato, in fondo, accusato anche quel giudice dai calzini azzurri messo alla berlina in un video delle tv di proprietà dello stesso ex primo ministro. Anzi, quei calzini azzurri (o forse viola?) sono stati presi a indizio di latente follia, se non d’immoralità, del giudice medesimo (ai magistrati non si addice, essendo in fondo poveracci, alcuna stravaganza). Le crociate contro la prostituzione di strada, i lavavetri, gli accampamenti rom, i mendicanti sono state giustificate (anche) in nome del decoro, da destra non meno che da sinistra, come vedremo. Che c’è di nuovo, si dirà? Sul piano del discorso pubblico, dopotutto, sembrano ripetersi vecchie contrapposizioni, i nani e le ballerine da una parte e l’austerità dall’altra. La continuità c’è, ma i contesti sono diversi, e i significati di ambedue le metafore, conseguentemente, cambiano. Che la «sinistra» sia accusata di essere bacchettona e moralista non è una novità, ma una «destra» imputata di essere frivola e gaudente, nonché immorale, invece sì.
Al di là dei discorsi politici in senso stretto, tuttavia, ciò che vorrei fare, lo ripeto, è mostrare come decoro e indecenza non si contrappongano affatto sul piano delle politiche pubbliche nazionali e locali, e ancora più su quello delle loro giustificazioni e degli effetti culturali e simbolici che possono essergli imputati. E se a «sinistra» si depreca l’indecenza, si invoca invece il decoro da tutte e due le parti. E l’indecenza, come si vedrà, non implica soltanto il bunga bunga, ma anche la potenza del desiderio...

Paura, sicurezza, controllo sociale

Dice Jonathan Simon (2008) che in Usa si governa dalla fine degli anni Sessanta «through crime», attraverso la (paura della) criminalità (di strada, ovviamente). La data è significativa: è il momento in cui va in crisi il consenso keynesiano e con esso il welfare. In questi ultimi dieci anni la letteratura su questo argomento si è moltiplicata. Io stessa ne ho scritto più volte (1989; 2001; 2006) sostenendo, in estrema sintesi, che il modello culturale neoliberista dominante insiste per un verso sul rischio e per altro verso sulla prevenzione, due facce della stessa medaglia che hanno al centro l’enfasi sulla responsabilità individuale. Il e la buona cittadina sono coloro che corrono rischi (sul mercato del lavoro) e fanno di tutto per prevenirli (per quanto riguarda la salute, ad esempio, e il rimanere vittima della criminalità di strada) da soli, ossia senza ricorrere a risorse pubbliche. Certo, per le donne la questione è un po’ diversa, perché l’insistenza sulla prevenzione è molto più forte per loro, sollecitate piuttosto a essere caute e prudenti che a correre rischi. Di qui la centralità della nozione di vittima, estesa a tutti noi ed essenziale oggi per avere una qualche voice. Di qui, anche, l’esclusione dalla buona cittadinanza, o dalla cittadinanza tout court, di chi non può permettersi di correre rischi perché non ha le risorse necessarie per prevenirli. Società dell’insicurezza, comunità dell’ansia, così Bauman (tra gli altri) chiama le nostre società attuali, alla perenne ricerca di capri espiatori e tendenti alla chiusura in «comunità di complici».
Oggi, le culture del controllo sociale si distinguerebbero tra una criminologia della vita quotidiana e una criminologia dell’Altro (cfr. ad es. Garland, 2004). Per la prima, la criminalità è «normale», si tratta semplicemente di individuare i modi migliori per evitare che la gente perbene ne rimanga vittima. Per la seconda, il criminale è un mostro, un alieno, che va neutralizzato. Ancora, Wacquant (2000) e De Giorgi (2002) parlano di una criminalizzazione della povertà, di uno Stato penale che si sostituisce ad uno Stato sociale nel mutamento del modo di produzione dal fordismo al post-fordismo. Al di là della correttezza o meno di queste diverse letture, e dell’appropriatezza di esportarle in contesti differenti, si può dire, in generale, che il pervasivo sentimento di insicurezza, riscontrabile facilmente in buona parte dell’Europa occidentale e negli Usa, viene dirottato verso minacce e pericoli che con questo sentimento hanno poco a che fare, ma che sono invece apparentemente aggredibili con i (pochi) strumenti adesso disponibili per i governi nazionali e locali. In Italia, la Lega è stata forse la protagonista maggiore di un discorso pubblico teso a orientare questo sentimento nei confronti del pericolo rappresentato dai migranti, un pericolo criminale e insieme un attentato all’«identità» (padana? nazionale? cristiana? celtica?). Ma non la sola: basti ricordare l’appello alla cacciata dei romeni dell’ex sindaco di Roma Veltroni. Ogni paese ha però le sue caratteristiche peculiari. E non si ottiene consenso soltanto attraverso la paura. In una democrazia sottesa dal principio di eguaglianza, ci deve essere anche qualcosa cui aspirare, qualcosa cui agganciare il desiderio. La speranza è oggi risorsa scarsa (come lo è la fiducia), ma senza di essa governare è difficile, se non impossibile. La questione allora è, da un lato, come si coniugano paura e speranza, paura e desiderio; e, dall’altro, come essi si declinano e vengono interpretati in contesti sociali e politici diversi.
Controllo sociale è concetto che è stato definito in molti modi. Per ciò che mi interessa qui, lo utilizzo nella sua interpretazione più vasta, ossia come una molteplicità di processi volti da una parte a produrre motivazioni all’agire e dall’altra a reprimere motivazioni e comportamenti considerati devianti, inappropriati, illegittimi. Nella letteratura oggi troviamo, a seconda dell’orientamento di chi scrive, concetti in parte sovrapponibili a questa definizione di controllo sociale, e in parte divergenti: disciplina, governamentalità e biopolitica, dove gli ultimi due implicano il controllo sociale, inserendo i processi cui questa nozione fa riferimento dentro un quadro teorico di ascendenza foucaultiana. La definizione che ho dato qui, però, è sufficiente per lo scopo che mi prefiggo, e dunque è quella che userò.

Le metafore del decoro

Decoro è termine utilizzato per significare cose diverse. Un comportamento è «decoroso» quando è adeguato al tipo di persona e al contesto in cui si dispiega; una casa è «decorosa» quando è (abbastanza) pulita e in ordine, magari a dispetto della posizione sociale di chi la abita. E già qui si può osservare che questo aggettivo viene usato di solito per persone e luoghi che si situano ai livelli medio-bassi della società. A chi verrebbe in mente di chiamare decorosa l’abitazione di un ricco? Nel dizionario, la prima accezione di decoro è «complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti ad una vita dignitosa, riservata, corretta», ma anche «dignità che si manifesta nell’aspetto e nel contegno». È sinonimo, appunto, di «dignità, contegno, convenienza, discrezione»... Ma se i ricchi possono essere «discreti», forse «dignitosi», ben difficilmente saranno definiti «decorosi». Decoroso è chi sta nei limiti, e i limiti devono almeno sembrare, se non essere, autoimposti. I limiti cambiano a seconda di molte variabili (sesso, età, posizione sociale, per esempio) e della situazione, e dunque un’analisi dei limiti può dire molto riguardo ai processi di controllo sociale. Ma resta il fatto che nel senso comune prevalente il sostantivo «decoro» e l’aggettivo «decoroso» non si applicano a tutte le posizioni sociali. Come a dire che i ricchi e i potenti non hanno bisogno di imporsi limiti e non devono essere «decorosi».
Nel lontano 1899, Thorstein Veblen (2007) sosteneva che la classe agiata improduttiva, ossia i capitalisti dediti alla speculazione, per i quali il possesso e l’esibizione di beni costosi è segno di distinzione e valore sociale, sarebbero stati sostituiti, come classe dirigente, dagli «industriali» e dagli «ingegneri». Negli ultimi trent’anni del secolo scorso, viceversa, la speculazione finanziaria si è imposta sulla produzione industriale e la distinzione e il valore sociale della classe agiata si sono manifestati nell’ostentazione non solo di beni costosi, ma di uno stile di vita che a sua volta esibisce l’assoluta noncuranza verso i limiti imposti a tutti gli altri. Ostentazione della ricchezza e assenza dei limiti sono altresì proposte all’ammirazione e, poiché viviamo in società più o meno democratiche, dove è ancora necessario ottenere consenso, mostrate come raggiungibili. Esse rappresentano l’oggetto del desiderio. L’abnorme crescita del divario tra i più ricchi e i più poveri, dentro la stessa società e tra le società, è stata sostenuta dall’egemonia di un discorso pubblico che enfatizza la possibilità di emergere solo a condizione che ciascuno e ciascuna di noi si renda disponibile a correre rischi individualmente, rinunciando alle protezioni dello Stato di welfare e a quelle derivanti dall’appartenenza alle collettività di scelta (i sindacati, per esempio). In più, il mercato offre a costi contenuti beni simili a quelli posseduti dalla classe agiata: abbigliamento, gadget tecnologici, divertimenti, viaggi, e via dicendo.
Insomma, l’egemonia neoliberale si afferma attraverso due discorsi complementari, che hanno in comune l’enfasi sulla responsabilità individuale e il rischio: il buon cittadino è contemporaneamente quello che rischia (sul mercato del lavoro, da cui l’elogio della flessibilità e della precarietà) e quello che si mette al riparo dai rischi (comprando assicurazioni private, stando attento a ciò che mangia, sottoponendosi a check-up sulla salute, blindando la sua casa contro i ladri). Tutto, beninteso, da solo, poiché la dipendenza dalle risorse statali, sempre più magre, non è più nemmeno una fatalità, ma una colpa. E infatti chi non può correre rischi nemmeno può evitarli: sono i cattivi cittadini, cui fare la carità e/o tenere a bada. Sono quelli che «invidiano» e dunque minacciano ciò che gli altri si sono conquistati da soli.
Non è solo la paura, allora, a produrre consenso. Ci vuole anche un valore forte e positivo: la libertà. La libertà, individuale, di desiderare e rischiare. Gli ultimi trent’anni hanno contrapposto libertà ed eguaglianza, facendo dell’eguaglianza l’ostacolo all’affermazione individuale, il freno alla crescita, il simbolo dell’invadenza statale e del primato del pubblico, la parola d’ordine dei fannulloni, dei senza merito e degli invidiosi, l’obiettivo e la giustificazione della barbarie comunista. Questa libertà, però, è solo di chi se la può permettere, e negli anni recenti sempre meno persone se la possono permettere. E allora, accanto alla paura, ci vuole qualcos’altro per tenere a bada chi non ce la fa: appunto, l’appello al decoro.
Ma il decoro non riguarda solo le persone. Come dicevo, si applica anche alle case e ai luoghi, per esempio le città. Qui, il confine tra paura e decoro si fa molto sottile. L’analogia con la casa può essere illuminante. Una casa decorosa è in primo luogo una casa «in ordine» e pulita. Ordine e pulizia a loro volta evocano il lavoro indefesso e invisibile della casalinga ...

Indice dei contenuti

  1. 1. Per cominciare
  2. 2. Sul piano nazionale
  3. 3. Sul piano locale
  4. 4. Per finire
  5. Riferimenti bibliografici