Le origini dell'Italia contemporanea
eBook - ePub

Le origini dell'Italia contemporanea

L'età giolittiana

  1. 318 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Le origini dell'Italia contemporanea

L'età giolittiana

Informazioni su questo libro

Negli anni compresi fra la fine dell'Ottocento e la prima guerra mondiale, dominati dalla personalità politica di Giovanni Giolitti, l'Italia acquistò i caratteri essenziali di una nazione moderna. Un progresso accompagnato da ostacoli, carenze e insidie, che esplosero dopo la prima guerra mondiale e prepararono le condizioni per la nascita e il successo del fascismo. Il giolittismo favorì la modernizzazione e la democratizzazione del paese ma lasciò anche molti problemi irrisolti e si esaurì alla vigilia della Grande Guerra senza aver conseguito il suo scopo più ambizioso: conciliare le masse con lo Stato liberale.Emilio Gentile delinea in questo volume, divenuto un classico e aggiornato con nuovi riferimenti bibliografici, un quadro sintetico di quel complesso e ambivalente periodo storico e, con un'interpretazione originale, fornisce al lettore una guida chiara ed equilibrata alla comprensione delle origini dell'Italia contemporanea.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Le origini dell'Italia contemporanea di Emilio Gentile in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia del XXI secolo. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

X. Il tramonto del sistema giolittiano

La guerra contro la Turchia, come abbiamo visto, fu decisa da Giolitti in seguito a una realistica valutazione della situazione internazionale che aveva posto l’Italia di fronte alla necessità di procedere alla riscossione dell’ipoteca sulla Libia posta con lunghe e laboriose manovre diplomatiche negli anni precedenti. Le ragioni di politica estera prevalsero sulle pressioni di taluni gruppi economici e finanziari e delle correnti nazionaliste. Giolitti giustificò la sua decisione presentandola come una «fatalità storica» alla quale il governo non poteva sottrarsi: «Vi sono fatti – disse a Torino il 7 ottobre 1911 – che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità perché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli». Giolitti si rendeva conto che gli effetti della guerra avrebbero influito anche sulla vita politica interna e, per questo motivo, riteneva necessario conservare distinte, per quanto ciò fosse fattibile, la politica estera dalla politica interna: «la politica estera non deve influire in alcun modo, né direttamente né indirettamente, sulla politica interna, se non dal punto di vista di costituire una spinta a più rapido progresso». E in un discorso alla Camera il 23 febbraio 1912, che doveva servire a raffreddare le esaltazioni nazionaliste e a riconciliargli gli umori della sinistra riformista, Giolitti confessò di essere stato spinto alla grave decisione di intraprendere la guerra «senza entusiasmo ma unicamente per ragionamento», anche se egli non era per principio contrario alla conquista coloniale considerandola uno strumento per la «civilizzazione di popolazioni che in altro modo continuerebbero nella barbarie». Tuttavia la speranza di preservare la politica interna dagli effetti della politica estera era del tutto illusoria perché sottovalutava le implicazioni interne, economiche e politiche, del nuovo imperialismo italiano, del quale l’impresa era, nonostante le dichiarazioni di Giolitti, un momento significativo. Infatti la speranza di Giolitti fu presto smentita dai fatti. Dopo la guerra di Libia, i sintomi di crisi del sistema giolittiano diventarono più evidenti, mentre aumentava nel paese, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’ostilità verso il compromesso che aveva dato a Giolitti la possibilità di durare al vertice del potere parlamentare per un decennio.
Il quadro politico italiano, dopo il 1912, era molto mutato: nuove forze sociali e politiche si erano rafforzate, con la tendenza a rifiutare la mediazione giolittiana e a distruggere la stabilizzazione moderata sulla quale si fondava l’egemonia parlamentare dello statista piemontese. La guerra aveva galvanizzato il neonato nazionalismo italiano, verso il quale si rivolgevano le simpatie di alcuni settori del mondo cattolico e l’attenzione interessata di esponenti del mondo industriale. Il nazionalismo rinvigorì la sua azione ed estese la sua influenza sull’opinione pubblica, diventando un punto di riferimento per alcuni settori della borghesia antigiolittiana. Nello stesso tempo, le battaglie anticolonialiste avevano rafforzato la corrente dei socialisti rivoluzionari all’interno del partito, che si era opposto in modo debole e tardivo alla guerra coloniale, ponendo radicalmente in crisi l’egemonia riformista. Le conseguenze della guerra, con l’aumento delle spese e della pressione fiscale, la stagnazione economica seguita alla crisi del 1907 e la nuova crisi del 1913, il rincaro del costo della vita e l’aumento della disoccupazione diffusero fra le masse sentimenti di rivolta contro il regime liberale e inasprirono la lotta di classe, con una progressiva radicalizzazione dello scontro sociale e politico. La concessione del suffragio universale maschile, invece di conciliare le nuove masse elettorali con le istituzioni, contribuì alla crisi definitiva del giolittismo.

1. Il quarto ministero Giolitti

Nel suo quarto ministero, Giolitti riuscì ancora a raccogliere alcuni importanti successi, oltre quello rappresentato dalla conquista della Libia e dalla soluzione diplomatica della guerra. Come è stato già detto, i punti principali del programma giolittiano erano il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e un progetto di riforma elettorale per l’allargamento del suffragio.
La Camera fu impegnata prima nel dibattito sul monopolio statale delle assicurazioni. Il progetto di legge, preparato dal ministro dell’Agricoltura Nitti, fu presentato alla Camera il 3 giugno 1911 ma incontrò forti opposizioni sia fra i deputati liberali, sia nella stampa legata alle tendenze liberiste, per gli interessi finanziari privati che il disegno di legge colpiva. Soprattutto contrari erano i conservatori che, in parlamento, facevano capo ad Antonio Salandra. Nel suo intervento alla Camera, Salandra definì il disegno di legge un attentato alla libertà di iniziativa, un colpo inferto al capitalismo che, in Italia, non aveva ancora sviluppato interamente le sue forze e le sue capacità, mentre il monopolio avrebbe contribuito ad ampliare l’area del capitalismo di Stato, «un ente mostruoso, il quale ci irretirà tutti nei suoi fili inestricabili e soffocherà la vita economica del paese. Tale è l’avviamento di cui il presente disegno di legge è l’indice». Giolitti intervenne alla Camera in difesa del progetto, l’8 luglio, dichiarando che il monopolio non era affatto contrario ai principi liberali, perché esso era proposto nell’interesse dello Stato, cioè della collettività: «lo Stato è l’universalità dei cittadini, quindi il fare l’interesse dell’universalità dei cittadini non è cosa che non sia liberale». Egli ribadì le ragioni della sua proposta, che era collegata al bisogno di reperire fonti di finanziamento a favore delle Casse per la vecchiaia e la invalidità dei lavoratori: «Poiché le condizioni del bilancio non consentirebbero ora maggiori assegnazioni a carico della finanza, noi proporremo di istituire un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita e di devolverne per intero i proventi alla Cassa per la vecchiaia e invalidità dei lavoratori. Per tal modo, mentre la garanzia sicura dello Stato provocherà un incremento della previdenza sotto forma di assicurazione sulla vita, i proventi delle assicurazioni delle classi più agiate accresceranno la misura delle pensioni agli operai». Più esplicitamente, Giolitti affermò il carattere politico del monopolio, che doveva ristabilire l’autorità dello Stato anche nel campo dell’economia. Egli riconosceva la necessità delle «grandi forze finanziarie» e delle concentrazioni industriali per la difesa verso la concorrenza straniera, ma voleva sottrarre lo Stato all’influenza politica di queste forze: per far ciò, disse Giolitti, «è necessario che lo Stato abbia nelle sue mani dei grandi istituti finanziari, che lo pongano in piena libertà di fronte a tutte le classi. Lo Stato, anche in materia economica, deve dirigere, ma non deve essere diretto. La forza finanziaria dello Stato, che si verrebbe creando con questi enti, che concentrino in sua mano dei grandissimi capitali, è elemento di solidità per le industrie e i commerci, perché uno Stato debole non può, nei momenti più difficili, trovar modo di evitare le grandi crisi».
Giolitti, dunque, si proponeva di assicurare allo Stato una nuova fonte di finanziamento per le pensioni di invalidità e vecchiaia, ma il suo obiettivo era più generale e rappresentava certamente un mutamento significativo nell’orientamento della politica economica. Egli mirava, infatti, ad assegnare allo Stato il diritto di intervento nella vita economica, per prevenire e correggere le distorsioni derivate dall’iniziativa privata, conquistando una completa autonomia dalla pressione degli interessi privati e una maggiore capacità di azione di fronte alle congiunture sfavorevoli, come era accaduto nella crisi del 1907. Il progetto, se rappresentava una conferma della svolta a sinistra di Giolitti con il quarto ministero, contribuì a far emergere una nuova linea politica conservatrice, rappresentata da Salandra, che affermava senza mezzi termini l’identificazione del liberalismo col liberismo e l’intransigente difesa della libertà economica contro qualsiasi tentativo di statalismo.
Giolitti riuscì a vincere le opposizioni nel dibattito parlamentare e ottenne il passaggio in discussione degli articoli prima della chiusura estiva della Camera. La guerra di Libia fece interrompere e rinviare la discussione, che fu ripresa nel febbraio 1912, sulla base di alcune modifiche al disegno di legge, concordate in un compromesso fra Nitti e la commissione incaricata di esaminare il progetto, per andare incontro alle richieste di società assicurative straniere. La nuova legge, che creava l’Istituto nazionale assicurazioni fu, questa volta, approvata con larga maggioranza alla Camera e al Senato, ma alle società private fu tuttavia concesso di continuare la loro attività per dieci anni; alla scadenza, nel 1923, la concessione fu prorogata dal governo fascista. Il monopolio, quindi, non fu realizzato ma la creazione del nuovo istituto fu un fatto importante, perché era il primo ente pubblico con personalità giuridica, distinta dallo Stato, dotato di larga autonomia e organizzato con i criteri di un’azienda privata, che costituì un modello per gli enti pubblici creati successivamente.
Più importante, sia per il suo valore politico sia per le conseguenze che avrebbe avuto nella vita dello Stato italiano, fu l’attuazione della riforma elettorale secondo il disegno di legge proposto dal governo, che fu approvato rapidamente a larga maggioranza sia dalla Camera che dal Senato, mentre ancora il paese era impegnato nella guerra contro la Turchia.
Giolitti aveva sostenuto la necessità di superare le vecchie restrizioni per l’esercizio del diritto di voto. Per la concessione di questo diritto, aveva affermato il 6 aprile 1911 presentando il governo alla Camera, «più che ad una superficiale istruzione acquistata al solo fine di superare un facile esame, noi crediamo si debba guardare alla maturità della mente, la quale si acquista o nella scuola educativa o con l’esperienza della vita». Perciò, «noi proporremo che alle categorie di elettori stabilite dalle leggi vigenti siano aggiunti coloro che hanno prestato il servizio militare e coloro che hanno compiuto i trenta anni di età. Così l’educazione militare o una migliore esperienza della vita suppliranno l’educazione della scuola, senza togliere la spinta a frequentare la scuola per diventare elettori appena raggiunta la maggiore età». La nuova legge elettorale, emanata il 30 giugno 1912, estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi di età superiore a ventuno anni, capaci di leggere e scrivere, e a tutti i cittadini maschi di età superiore a trenta anni, anche analfabeti, che avessero fatto il servizio militare. Con questa riforma, l’elettorato saliva dal 9,50 per cento della popolazione nazionale al 24 per cento; gli elettori aumentavano, da 3 milioni e 300.000, a 8 milioni e 600.000. La legge, inoltre, stabiliva una indennità per i parlamentari, aprendo così le porte della Camera anche a deputati di modeste condizioni economiche, i quali avrebbero potuto esercitare liberamente, senza angustie finanziarie, il loro mandato. Rimase invariato, invece, il sistema uninominale e il numero delle circoscrizioni, ma fu abbassato il numero delle firme necessario per la presentazione del candidato.
La concessione del suffragio universale era una riforma democratica, che stimolava la partecipazione delle masse alla vita politica, ma creava problemi nuovi per la gestione dello Stato liberale, che ancora conservava una struttura oligarchica, e per lo stesso sistema giolittiano di governo. Nuove masse entravano nella vita politica e gran parte di esse appartenevano al mondo contadino meridionale, che era in gran parte privo di una sia pur rudimentale esperienza politica ed era rimasto estraneo, se non addirittura ostile, ai processi politici di formazione e di trasformazione dello Stato unitario. Nel disegno politico giolittiano, che aveva portato alla concessione del suffragio universale maschile, vi era il proposito di prevenire l’azione del partito socialista nella richiesta della riforma e, nello stesso tempo, vi era la speranza dell’adesione delle nuove masse di elettori alle forze politiche tradizionali. L’interpretazione conservatrice appariva chiara anche alla parte cattolica, che non a caso era stata calda sostenitrice della riforma, convinta di avvantaggiarsi del voto moderato e conservatore delle masse contadine cattoliche o influenzabili dal clero: «Giolitti – ha scritto Carlo Ghisalberti – forse comprendeva il pericolo di questa soluzione ma vedeva chiaramente come non fosse più possibile sottrarsi alla scelta democratica implicita nell’universalizzazione del suffragio senza essere scavalcato da una Sinistra e-stremamente combattiva. Da fine politico qual era intuiva le difficoltà che sarebbero sorte per lo Stato liberale dall’immissione totale delle masse nella vita pubblica in un momento in cui né il benessere né l’istruzione erano tanto diffusi da garantire la piena riuscita dell’operazione agli effetti della conservazione dell’assetto istituzionale consolidato. Tuttavia si rendeva conto dell’assoluta necessità per la classe dirigente liberale di guidare la grande trasformazione che ne sarebbe scaturita fatalmente, a pena di veder finita quella egemonia borghese sulla società italiana di cui il liberalismo giolittiano era al tempo stesso l’ultima espressione e il più moderno garante. Probabilmente egli era fiducioso che quei metodi di governo che aveva utilizzato con una spregiudicatezza assolutamente sconosciuta ai suoi predecessori si sarebbero ancora rivelati utili a contenere le spinte eversive per un sistema provocate dall’incrementata pressione delle masse da quel momento non più escluse dal voto, e soprattutto a rendere i loro rappresentanti in parlamento, con una sagace operazione trasformistica, meno ostili alle istituzioni caratterizzanti lo Stato liberale».
L’ottimismo giolittiano sulla capacità mediatrice del governo non trovò conferma nella realtà sociale e politica del paese dopo la guerra di Libia. Tanto a destra quanto a sinistra era in corso un processo di trasformazione in senso più radicale degli orientamenti politici, sul quale influirono anche gli effetti dei nuovi avvenimenti internazionali, politici ed economici che contribuirono ad aggravare la tensione fra le potenze europee e a porre le condizioni dalle quali, quasi inevitabilmente, sarebbe scaturito un nuovo conflitto armato di proporzioni continentali.

2. Le guerre balcaniche e la crisi economica del 1913

Con la guerra di Libia, l’Europa entrò in un periodo di conflitti che vanificarono del tutto le possibilità di conservare una forma di convivenza pacifica, anche se agitata da continue tensioni, come quella che i maggiori paesi europei erano riusciti a contenere conformandosi ai concetti direttivi della balance of power, fondata soprattutto sulla capacità di impedire la radicalizzazione degli antagonismi di potenza e di evitare una contrapposizione irriducibile fra diversi sistemi di alleanza. Tuttavia, già la modificazione dei rapporti avvenuta con la formazione dell’Entente cordiale (1904) fra Francia e Inghilterra, allargata con il successivo accordo fra Inghilterra e Russia, nel 1907, costituiva un passo decisivo verso la formazione di due blocchi, dominati da interessi e aspirazioni egemoniche tendenzialmente inconciliabili, con la scomparsa definitiva del ruolo di una potenza intermedia – come era stato quello della Germania bismarckiana – capace di garantire la permanenza dell’equilibrio. A partire dal 1906, sul continente europeo si erano accumulate tensioni gravissime, generate da vari motivi. In primo luogo, l’espansione industriale della Germania alimentava le ambizioni imperiali di Guglielmo II e la rivalità economica e militare fra Germania e Inghilterra, lanciate in una pericolosa corsa agli armamenti; poi, la sconfitta subita in Estremo Oriente aveva respinto la Russia verso l’Europa orientale e, in particolare, verso i Balcani, dove incontrava la resistenza rivale dell’Austria; infine, la Triplice Alleanza era tutt’altro che un blocco solido, perché minacciato dalle continue frizioni interne fra Austria e Italia per la questione delle terre irredente, il problema dell’Adriatico e le contrastanti aspirazioni sull’assetto politico della penisola balcanica. Le tendenze aggressive dell’imperialismo europeo, che fino agli anni Dieci avevano trovato sfogo nei continenti africano e asiatico, tornavano ora a gravare sul continente europeo, creando una situazione esplosiva che le arti tradizionali della diplomazia, educata all’ideale del «concerto europeo», non furono più in grado di contenere e di sanare.
Il campo dei nuovi conflitti armati, prima della conflagrazione europea, fu la penisola balcanica. La guerra italiana contro l’impero turco indusse gli Stati balcanici – Serbia, Grecia, Bulgaria e Montenegro – a coalizzarsi contro la Turchia per distruggere gli ultimi resti del suo impero in Occidente. Dietro le nazioni balcaniche, vi era il sostegno della Russia, che indirettamente cercava di contrastare l’egemonia austriaca trovando il consenso della Francia e dell’Inghilterra. La guerra contro la Turchia, infatti, era un mezzo per colpire la Germania, che aveva allargato la sfera dei suoi interessi nell’impero ottomano. La guerra, iniziata nell’ottobre 1912, si concluse con la sconfitta della Turchia. La pace, firmata nel maggio 1913, prevedeva la spartizione della Macedonia fra gli Stati vincitori, l’assegnazione della Tracia alla Bulgaria e dell’isola di Creta alla Grecia. La Serbia, tuttavia, fu delusa nella sua aspirazione ad avere uno sbocco al mare, in seguito a un intervento austro-italiano che favorì la nascita di uno Stato indipendente d’Albania, con a capo un principe tedesco. La Turchia conservava, nel continente europeo, soltanto Costantinopoli e una piccola parte della Tracia. La spartizione della Macedonia suscitò però nuovi contrasti fra gli alleati, perché la Serbia non riuscì a raggiungere un accordo con la Bulgaria che, nel giugno 1913, le dichiarò guerra. La speranza di ottenere parte della Macedonia spinse la Romania a intervenire a sua volta contro la Bulgaria, contro cui scesero in campo anche la Grecia, alleata della Serbia, e la Turchia, che sperava di recuperare ai danni della Bulgaria i territori che aveva perso nella guerra precedente. La Bulgaria fu sconfitta e, con la pace di Bucarest nel luglio 1913, fu costretta a cedere quel che aveva guadagnato nella prima guerra balcanica: Adrianopoli e gran parte della Tracia tornarono alla Turchia, la Macedonia fu divisa fra Serbia e Grecia, la Romania ottenne la Dobrugia meridionale. In complesso, le guerre balcaniche furono una ferita molto dura per il prestigio e gli interessi dell’Austria e della Germania, che videro un ulteriore indebolimento dell’impero turco e l’espansione della Serbia, la quale mostrava di voler imporsi come Stato guida nei Balcani in funzione antiaustriaca.
L’Italia, dal canto suo, dopo la guerra contro la Turchia si era mossa con prudenza nelle acque agitate della politica balcanica, con lo scopo di consolidare la sua posizione nell’Egeo e favorire la formazione di Stati balcanici indipendenti, verso i quali orientare i propri progetti di penetrazione economica e politica ai danni dell’Austria. Il problema dell’Adriatico assumeva, in questo modo, un’importanza capitale nella politica estera dell’Italia e avrebbe condizionato in modo decisivo la scelta di campo durante la guerra europea. Tutto ciò non aveva impedito, comunque, il rinnovo della Triplice Alleanza nel dicembre 1912. San Giuliano aveva anticipato il rinnovo del trattato, che scadeva nel luglio 1914, in seguito ai contrasti fra l’Italia e la Francia dopo gli incidenti avvenuti durante la guerra di Libia. Il nuovo trattato riproduceva il testo del 1902: Austria e Germania rifiutarono di accogliere le modifiche proposte dall’Italia, che riuscì soltanto a ottenere l’inserimento di un protocollo aggiuntivo in cui veniva implicitamente riconosciuta la sovranità italiana sulla Libia e venivano riconfermati gli accordi italo-austriaci sull’Albania e il Sangiaccato di Novi Bazar. Tuttavia, le conseguenze delle guerre balcaniche e la crescente tensione fra i due blocchi resero più difficili i rapporti fra Austria e Italia, e sempre più irrequieta la posizione dell’Italia nella Triplice Alleanza.
L’Italia entrava nella nuova fase dei conflitti di potenza con una situazione interna turbata, oltre che dalle difficoltà e dai rischi della politica estera, dagli effetti della nuova crisi economica mondiale di sovrapproduzione, con ribasso dei prezzi, diminuzione degli investimenti, aumento della disoccupazione. La crisi del 1913 era analoga a quella del 1907, anche se le sue conseguenze furono meno gravi per lo sviluppo economico dei paesi capitalisti più avanzati. In Italia, tuttavia, essa fu il momento più critico del «malessere economico» che aveva colpito l’economia italiana dopo il 1907, aggravato dallo sforzo sostenuto per la conquista della Libia. Nel suo bilancio annuale, Bachi così riassumeva le condizioni dell’economia italiana nel 1913: «Dopo gli anni di baldanzosa ascesa e quelli di discesa artificialmente rallentata, seguono gli anni di raccoglimento preparatorio. Può accadere che questa fase sia alquanto più breve che altra volta; a differenza di quanto si presentava vent’anni fa, il meccanismo economico dell’Italia è fondamentalmente irrobustito, resistente: l’intensa attività economica degli anni 1899-1907 ha lasciato tracce rovinose, ma ha anche lasciato una impalcatura più complessa, un organismo meglio atto a una futura ripresa, e, soprattutto, una schiera di uomini fatti esperti dagli errori; gli istituti di emissione e alcune fra le grandi banche presentano una situazione salda, bene garantita, che non troppo risente della minacciosa condizione di alcune industrie; le finanze dello Stato – per quanto assai scosse – sono in una posizione per nulla comparabile a quella di venti anni fa. L’agricoltura – la più seria e vitale tra le forme di attività economiche in Italia – per quanto insufficientemente curata dal capitale privato e, nei riguardi del progresso tecnico, dallo Stato – è sensibilmente più redditizia che in passato, e ha visto in molte zone corrispondentemente elevarsi il valore del terreno, sebbene il suo progresso non possa paragonarsi a quello avvenuto nell’industria manifatturiera».
Il rallentamento del ritmo di sviluppo fu particolarmente sensibile nell’industria tessile e nella meccanica, minore invece nelle industrie estrattive, chimiche, alimentari e metallurgiche. Queste ultime furono favorite, per quanto riguarda il settore della produzi...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. I. Il fallimento della reazione
  3. II. Giolitti e la nuova politica liberale
  4. III. Sviluppo economico e mobilitazione sociale
  5. IV. Riformisti e rivoluzionari nel movimento socialista
  6. V. I cattolici nello Stato liberale
  7. VI. Da Giolitti a Giolitti
  8. VII. La “dittatura” giolittiana
  9. VIII. La politica estera, la guerra di Libia e lo sviluppo del nazionalismo
  10. IX. L’antigiolittismo e il mito dello Stato nuovo
  11. X. Il tramonto del sistema giolittiano
  12. Bibliografia