7 gennaio, ore 17.30
Ore 17.30. Sono passate quasi sei ore dall’attacco e la polizia francese non ha ancora bloccato i terroristi in fuga da questa mattina.
Con le televisioni di tutto il mondo siamo inchiodati a questo racconto da ore. L’attacco alla sede di «Charlie», i morti, gli uomini vestiti di nero che sparano, uccidono e si danno alla fuga. E ora questa corsa folle attraverso Parigi, l’Île-de-France e poi chissà dove. Sembra impossibile che questo stia accadendo in Francia. Quando interrompiamo per qualche minuto il nostro racconto da studio e seguiamo la diretta delle televisioni francesi, ci rendiamo conto che anche loro stanno facendo la nostra stessa fatica. Le ricostruzioni sono tutte basate su frammenti, brandelli di testimonianze.
Il commando in fuga avrebbe lasciato le ultime tracce del proprio passaggio a Porte de Pantin. Poi più nulla.
Stefano Ziantoni, corrispondente da Parigi: «Tutto il quartiere è bloccato: anche chi abita qui deve mostrare i documenti per rientrare a casa. C’è un particolare: proprio ventiquattr’ore fa era apparsa la notizia che il 14 gennaio il presidente Hollande sarebbe andato sulla portaerei Charles De Gaulle che è in partenza per l’Iraq, per intensificare la presenza francese contro l’Isis».
Per l’ennesima volta mi trovo faticosamente, ossessivamente, a riassumere quello che sta succedendo. Sento il bisogno di ripetere la descrizione della sequenza degli eventi di oggi. Penso che ora probabilmente inizieranno a guardarci persone che tornano a casa dal lavoro, che non hanno la minima idea di quel che è successo.
«I terroristi hanno abbandonato la Citroën nera con la quale hanno attaccato e ora sono su una Clio chiara, la polizia gli sta dando la caccia».
Sui monitor intravedo il segnale dal Quirinale. Federica Mango è pronta: «Napolitano esprime la sua ferma condanna. Ha inviato al presidente Hollande questo messaggio: ‘è un gesto vile ed esecrabile, che non colpisce soltanto un giornale ma uno dei pilastri della nostra civiltà , cioè la libertà di stampa’».
Anche il presidente Napolitano sente l’urgenza della distinzione per evitare la sovrapposizione fra tutti i musulmani e chi esercita una violenza terroristica e cerca di imporre una visione del mondo fanatica, arcaica e oscurantista. Bisogna impedire che tutto questo venga percepito come una contrapposizione tra Occidente e Islam.
Intanto chiedo alla regia di mandare in onda le immagini che arrivano dalla Francia. Mi sforzo di commentare questo crepuscolo parigino in cui la gente lentamente sta scendendo in piazza, in strada. A migliaia si dirigono verso Place de la République con l’unico scopo di essere lì, in mezzo a tanti altri, a testimoniare una resistenza pacifica, silenziosa, fatta di simboli, contro l’orrore che si è consumato.
È il valore dell’esserci, del sentirsi a fianco degli uomini, delle donne, dei giornalisti, dei disegnatori di «Charlie», che oggi hanno subito un attacco tanto violento. Sarà l’effetto del racconto continuo, o di quelle immagini che non mi abbandonano mai, sarà l’eco di quelle voci che in strada celebrano la vendetta, ma la sensazione di violenza sta attraversando tutti noi in queste ore. Lo vedo negli sguardi dei miei ospiti, dall’attenzione intensa con cui tutti nella newsroom stanno seguendo la diretta.
«Guardate quella matita alzata in aria. Una matita in un taschino».
Continuo a raccontare. Mi rendo conto che il nostro sguardo è lì, fisso sul centro di Parigi, ma quello che è accaduto mette in discussione molte cose: il percorso di convivenza tra le diverse comunità religiose, perfino i rapporti tra gli Stati. È venuto il momento di cercare di dar conto di quale sia la reazione del mondo arabo, o almeno quella dei media arabi.
Chiedo di far entrare in studio Saji che racconta, con il touchscreen, che cosa sta succedendo: «Molti tweet danno la reponsabilità dell’attentato agli uomini dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, ma lo vedono come una risposta per quello che ha fatto la Francia contro i musulmani in Mali, in Siria e in Iraq. Molti in Twitter condannano anche la reazione dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e della Lega Araba, che hanno preso le distanze dall’attacco e dalla violenza. Questo tweet è la conferma di quel che stiamo dicendo. Lo leggo: ‘Perché avete subito condannato quello che hanno fatto in Francia, e nessuno di voi ha mai condannato quello che sta facendo la Francia in Mali e anche in Iraq contro la popolazione irachena?’. Devo dirvi che questi tweet rispecchiano lo stato d’animo di molti nel mondo arabo. Ma poi ce ne sono anche tantissimi altri che condannano con fermezza quanto è avvenuto questa mattina e dicono che il terrorismo non ha religione. Questa non è la religione islamica e questi sono semplicemente dei criminali».
Riprendo il filo della cronaca. Ma la povertà di informazioni a nostra disposizione fa impressione. In tanti anni non mi è mai capitato di reggere una diretta tanto lunga con così poche notizie. Eppure quel che è successo ci spinge ad andare avanti, comunque.
«In questo pomeriggio i media francesi hanno deciso di dare pochissimi dettagli su quelle che sono le mosse dei terroristi attraverso Parigi, per cercare di non intralciare il lavoro della polizia».
L’identità degli attentatori viene tenuta ancora coperta dagli investigatori che comunque si muovono sulle loro tracce. Per noi, sono solo due sagome nere in mezzo alla strada, due uomini che hanno gridato «Allahu Akbar», hanno detto di aver vendicato il Profeta e ucciso «Charlie». Ma non sappiamo ancora chi sono. Non possiamo nemmeno escludere che, per assurdo, tutti gli indizi facciano parte di una montatura orchestrata ad arte. Ogni volta che accade qualcosa di tanto drammatico, la complottologia si scatena. Invece temo che non sia così, che ci sia una logica precisa nel colpire «Charlie». Mentre parlo mi chiedo quanto oltre potrò spingermi nell’analisi senza avere altri elementi.
So per certo che da mesi i servizi segreti, francesi e non solo, stanno tenendo d’occhio la galassia jihadista che si muove in Francia. È quella storicamente più strutturata, con radici lontane.
Chiedo a Saji di farci vedere che cosa ha trovato nel Web. Lui spiega: «La comunità francese di religione araba conta quasi cinque milioni di persone. Alcuni di questi ragazzi di seconda e terza generazione sono andati in Siria a combattere. Sul sito di Al-Jazeera ci sono alcune immagini di combattenti dello Stato Islamico, di nazionalità francese, che hanno deciso di bruciare i propri passaporti. Dicono: ‘Non torneremo indietro. Siamo qui per combattere e per morire per la nascita di questo Stato Islamico’. Poi lanciano un messaggio ai francesi di religione musulmana: ‘Chi non ce la fa a compiere il viaggio verso lo Stato Islamico per ragioni economiche, cominci a terrorizzare la Francia, a far vivere la guerra dello Stato Islamico proprio nel cuore del paese’».
È un messaggio che si ripete da tempo sui siti jihadisti, nei tweet dei combattenti della guerra santa di ultima generazione. Così, nel Web si diffonde il messaggio radicale che arriva da chi in questo momento combatte e controlla parte dell’Iraq e della Siria.
Ore 18.10. C’è una informazione nuova. Il poliziotto freddato dal terrorista mentre, a terra, chiedeva aiuto, si chiamava Ahmed, aveva 42 anni.
«Pensate la follia. C’è un poliziotto che di nome si chiamava Ahmed, è stato ucciso da qualcuno che affermava di voler vendicare il Profeta con il suo gesto. In questo cortocircuito si racchiude la complessità di questo nostro tempo che stiamo vivendo e raccontando. Ci sono dei folli che vogliono uccidere per vendicare le vignette che prendevano in giro il Profeta e, nell’azione, uccidono un poliziotto, francese, che però si chiamava Ahmed».
E poi Ahmed è uno dei nomi più comuni nel mondo musulmano, viene dalla stessa radice del nome del Profeta; secondo un hadith, «I più bei nomi sono quelli che contengono le nozioni di lode e di adorazione», e Ahmed significa «il più lodato». Non riuscirei a contare quanti Ahmed ho incontrato in questi anni. Il primo però era proprio lì, a Parigi.
A metà anni Ottanta, la Cité Universitaire era letteralmente invasa dagli stranieri, in particolare dagli studenti maghrebini e mediorientali. I miei amici tunisini erano considerati la comunità dei cattivi ragazzi, quelli più spregiudicati, del tutto occidentalizzati. Avevano un rapporto blando, per non dire quasi inesistente, con il loro essere musulmani. Con Mehdi e suo fratello ogni giorno era una festa, un party, una cena. Eppure, per molti che avevano la stanza proprio dentro la Cité, la storia era diversa.
Ahmed lo vedevo in classe, ogni mattina. Veniva da Damasco, e per me allora solo questo nome, Damasco, evocava un esotismo inarrivabile, luoghi che sognavo di vedere, sabbie e civiltà antiche. Me lo ricordo, ancora oggi, con quella sua aria severa interrompere qualsiasi attività , qualsiasi conversazione, perché era arrivata l’ora della preghiera. E rivedo lì, appeso al muro bianco della sua stanzetta minuscola, il piatto dorato con inciso un versetto del Corano. Fu lui a spiegarmelo un pomeriggio che lo accompagnai fin sulla porta e lo vidi srotolare il piccolo tappeto: per la preghiera, appunto.
Nel nostro essere una comunità eterogenea, di studenti venuti da tutto il mondo, le divisioni si sentivano davvero poco e potevano tranquillamente coesistere la scanzonata trasgressione dei due fratelli tunisini specializzandi in medicina e l’esistenza austera e misurata di Ahmed, il siriano.
Nei quartieri attorno a Porte d’Orléans, non ancora periferia ma lontani dal lusso del centro, scorrazzavamo come dentro la casbah di Tunisi o Algeri. Salutavano tutti, conoscevano tutti: c’era un senso di familiarità assoluta per ognuno di loro nelle viuzze dai nomi francesi e le vetrine dei boulangers alternate a quelle delle macellerie halal. E io pensavo che, in fondo, era quella la bellezza di un posto così. Un angolo di Parigi nato da un dialogo con l’altrove mi sembrava una grande ricchezza.
Un giorno però, mentre andavamo a prenderci il nostro solito kebab, Mehdi mi fece un discorso di quelli che non si scordano: «Noi siamo i ricchi. Per noi, qui o a casa nostra, la differenza è minima, possiamo scegliere la nostra vita. Loro, invece, quelli che vedi da queste parti, sono venuti fin qui magari da illegali, e ora cominciano a sentire la rabbia. Sanno che rimarranno per sempre cittadini di serie B. Così si inventano una vita qui, nei vicoli, ma hanno la certezza che Parigi, quella che conosciamo io e te, per loro non ci sarà mai. Non per la maggioranza, almeno. Per loro c’è, al massimo, la banlieue e la sua fatica». Ho sempre saputo che Mehdi, in fondo, aveva ragione. In quelle periferie per decenni si è annidata la rabbia, si è costruito il vuoto che forse ha fatto sembrare il jihad un’avventura invidiabile ad alcuni di quei ragazzi che si fanno riprendere mentre bruciano i passaporti.
Eppure in quelle periferie è cresciuto anche Ahmed Merabet, algerino di origine, poliziotto di quartiere, morto lì sul marciapiede di Boulevard Richard Lenoir, sul retro della redazione di «Charlie Hebdo». Suo padre Kaddour era arrivato in Francia nel 1955, raggiunto poco dopo da Houria, sua moglie. Trovano un alloggio a Livry-Gargan, nell’area di Seine-Saint-Denis, Île-de-France. I Merabet lavorano duro. Ogni mattina, mentre va a scuola, Ahmed guarda un casermone vicino casa dei suoi e dice: «Un giorno avrò casa lì». E quella casa se la compra proprio nel 2011; lavora da McDonald’s per pagarsi gli studi, sta alla larga dai piccoli delinquenti di quartiere; costruisce mattone dopo mattone la sua storia di integrazione. Pilastro della famiglia, quando muore il padre è per tutti il saggio del gruppo. Quello che ce la farà . Il 31 luglio 2008, il giorno del diploma alla Scuola nazionale di polizia, sua madre guarda commossa quel ragazzo con la camicia bianca e la divisa.
Insaziabile nel suo percorso di crescita, Ahmed stava studiando per diventare ufficiale di polizia giudiziaria. E, quasi inconfessato, c’era poi il sogno più grande, la magistratura. Il suo cammino si è interrotto perché Ahmed, «il più lodato», è stato freddato sul marciapiede da qualcuno che proclamava di agire nel nome del Profeta. Qualcuno che forse, di fronte esattamente agli stessi bivi e alle stesse durezze della vita di Ahmed, aveva scelto un’altra strada.
Migliaia di persone ormai riempiono le strade di Parigi. Sono silenziose, c’è solo un brusio sommesso. Un rumore di fondo appena accennato.
«Lei oggi si è sentita costantemente con i suoi colleghi a Parigi, che cosa ci può dire di quello che sta accadendo?».
Lo chiedo ad Ariel Dumont, corrispondente di «Marianne», rivista francese, che ci ha raggiunto in studio. Lei risponde: «Credo che in una sola parola posso riassumere quello che si sente lì, l’orrore».
«Gli attentatori, nel video, dicono di aver ucciso ‘Charlie Hebdo’».
Dumont: «Forse bisognerebbe rassicurarli: non hanno ucciso ‘Charlie Hebdo’. Perché ‘Charlie Hebdo’ continuerà e tutta la stampa a livello mondiale diventerà ‘Charlie Hebdo’. Forse loro hanno ottenuto l’esatto contrario di quello che volevano. Loro volevano dividere, hanno unito la gente. C’è comunque da interrogarsi sulla loro preparazione, tutto è stato fatto con una tale precisione che sembra uno di quei vecchi film francesi o americani in cui, quando rapinano la banca, tutto procede alla perfezione. Sapevano che c’era la riunione di redazione, sapevano come entrare, sapevano tutto».
Ore 18.00. Mandiamo in onda, in diretta, l’incontro tra Angela Merkel e David Cameron. La cancelliera tedesca: «Al popolo francese e a tutti coloro che hanno perso i propri cari nel terribile attacco, dico che faremo tutto ciò che è in nostro possesso per aiutare i francesi».
Ore 18.08. A Parigi comincia la conferenza stampa del procuratore François Molins: «È stata immediatamente aperta un’indagine dalla sezione antiterrorismo, per omicidio e tentato omicidio. Si tratta di violazioni gravi al d...