1. America violata
Un’alba tranquilla
Era iniziata con l’abituale frenesia a New York, in una mattina serena, la giornata di martedì 11 settembre 2001. Sulla costa meridionale dell’isola di Manhattan le due torri gemelle del World Trade Center si stagliavano bianche e luminose, in un limpido cielo azzurro, mentre cominciavano ad affluire, nei rispettivi centodieci piani, le schiere delle cinquantamila persone che vi lavoravano quotidianamente. Le torri ospitavano quindici piani commerciali, gli uffici di duecentottantacinque compagnie, nove cappelle e due ristoranti. Circa settantamila persone al giorno visitavano i due edifici, che dal 1973 dominavano nel panorama della città, orgogliosi simboli della potenza economica e commerciale americana.
Anche nella capitale degli Stati Uniti, la giornata dell’11 settembre era iniziata col ritmo abituale. Al Pentagono, vasto e imperioso edificio costruito durante la seconda guerra mondiale, come sede del dipartimento della Difesa della più grande potenza militare della storia, inaccessibile come una fortezza, erano già al lavoro i suoi ventitremila impiegati. E lo stesso avveniva alla Casa Bianca, residenza del presidente degli Stati Uniti. Quella mattina, tuttavia, non era previsto il rapporto quotidiano al presidente da parte del direttore della Cia, l’organizzazione del controspionaggio americano, per informarlo sulle ultime notizie raccolte in tutto il mondo dalla sua rete informativa. George W. Bush, inquilino della Casa Bianca da appena otto mesi, era in Florida a far propaganda per la sua politica scolastica.
Il tempo era bello ovunque, sulla costa orientale degli Stati Uniti. Gli aerei di linea decollavano regolarmente. Alle 7 e 59 partiva da Boston l’American Airlines 11 diretto a Los Angeles; per la stessa destinazione decollava alle 8 e 14 lo United Airlines 175; a Los Angeles era diretto anche l’American Airlines 77, decollato da Washington alle 8 e 20, mentre alle 8 e 42, con mezz’ora di ritardo, si levava in volo da Newark per San Francisco lo United Airlines 93. Fra i passeggeri a bordo dei quattro aerei vi erano diciannove giovani arabi non americani. Erano negli Stati Uniti con un visto temporaneo. Sul volo AA11, in business class, viaggiava Mohammed Atta, un ingegnere egiziano di trentanove anni, che si era laureato al Cairo e aveva perfezionato i suoi studi ad Amburgo. Atta era da oltre un anno negli Stati Uniti, dove aveva frequentato una scuola di pilotaggio aereo in Florida. Su ciascuno degli altri voli vi era un giovane arabo che aveva imparato a pilotare un aereo commerciale in una scuola americana. Per tutti era previsto un viaggio tranquillo, la mattina dell’11 settembre nel primo anno del terzo millennio.
Il Ventunesimo secolo era iniziato come un «secolo americano»: gli Stati Uniti erano l’incontrastata superpotenza planetaria dopo il disfacimento dell’impero sovietico e la fine dell’Urss, decretata dagli stessi suoi dirigenti nel dicembre 1991. «Gli Stati Uniti – scriveva ‘The Economist’ il 23 ottobre 1999 – sovrastano il mondo come un colosso. Dominano negli affari, nel commercio, nelle comunicazioni. Hanno l’economia più forte del mondo e la loro forza militare non ha rivali»1. Oggi, affermava il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine alla fine del 1999, «la supremazia degli Stati Uniti abbraccia il settore economico, finanziario e militare, lo stile di vita, la lingua e i prodotti di massa, che sommergono il mondo, condizionando così il pensiero e affascinando persino i nemici»2.
All’inizio del terzo millennio, gli Stati Uniti erano un impero, il più grande che la storia abbia mai conosciuto: una «iperpotenza» che attraeva e impauriva, presente ovunque nel mondo con la sua bandiera, i suoi soldati, la sua economia e la sua cultura, l’«American way of life», dinamica e seducente, sofisticata e popolare, emulata e odiata, che esercitava il suo magnetismo su ogni popolo e in ogni continente, capace di insinuarsi in ogni cultura e società, per trasformarle con l’impronta del suo stile di vita. Anche chi odiava l’America ne subiva il fascino e la imitava per combatterla3.
L’impero della democrazia
L’idea di impero è associata generalmente alla conquista di territori e di popoli da parte di una singola potenza, che li assoggetta e li sfrutta. L’America si considera una nazione democratica, fondata sul principio della libertà, dell’eguaglianza e della felicità come diritti inalienabili degli esseri umani, donati dal Creatore a tutti fin dalla nascita. Per questo, gli americani rifiutano di definire il loro paese un impero e respingono con sdegno l’accusa di essere imperialisti, cioè di essere un popolo che conquista, assoggetta e sfrutta altri popoli. Alla fine del Diciannovesimo secolo, nell’era dell’imperialismo europeo, gli Stati Uniti imitarono le potenze coloniali del Vecchio Continente e conquistarono nuovi territori fuori dal loro continente, dopo la guerra contro la Spagna nel 1898-99, che procurò l’acquisizione delle Filippine, Cuba e Portorico, oltre le Hawaii, e parte delle isole Samoa, ma il loro colonialismo fu tuttavia limitato: Cuba divenne repubblica indipendente sotto protettorato americano nel 1899, le Filippine furono avviate all’indipendenza nel 1935, ottenuta definitivamente nel 1946, Hawaii divenne nel 1959 il cinquantesimo Stato.
C’è tuttavia un’altra idea di impero, associata alla politica di espansione di una potenza, che esercita la sua egemonia senza conquiste territoriali, proponendosi come un modello superiore di civiltà e di sistema politico, sociale ed economico, da trapiantare in altri paesi per una missione civilizzatrice a beneficio dell’umanità. Ci sono oggi americani meno recalcitranti a definire la loro potenza un impero, nella seconda accezione del termine, un «impero benevolo»4, perché si adatta a definire la visione che essi hanno del ruolo e del destino degli Stati Uniti nel Ventunesimo secolo. Questa visione ha le sue radici nelle origini degli Stati Uniti, sorti con la convinzione di essere una nazione scelta da Dio per essere un modello nel mondo e redimere il genere umano5. I Padri fondatori usavano la parola «impero» per definire l’autorità e la vocazione missionaria della nuova repubblica. All’insegna di questo mito avvenne l’espansione continentale degli Stati Uniti durante il Diciannovesimo secolo, dall’Atlantico al Pacifico, dai confini del Canada britannico al Mar dei Caraibi6. La conquista del continente, realizzata attraverso trattati, acquisti, guerre e sterminio di indiani americani, fu giustificata con diversi motivi, fra di loro intrecciati: la necessità di garantire sicurezza al «sacro esperimento» della democrazia, per renderla invulnerabile alla cupidigia della dispotica e corrotta Europa; l’esigenza di alimentare la fame di terra di una nazione sempre più numerosa; l’attuazione di un «destino manifesto», cioè la missione civilizzatrice affidata da Dio al popolo americano7.
La religione accompagnò e benedisse l’espansione degli Stati Uniti sul continente, e continuò a benedirla quando attraversò gli oceani8. I missionari americani precedevano o seguivano i mercanti e i soldati, lo spirito di evangelizzazione si coniugava con l’interesse capitalista e la strategia geopolitica. L’incitamento alla crociata in nome di Dio, per rendere il mondo sicuro per la democrazia, animò l’intervento americano nelle due guerre mondiali e nel periodo della Guerra fredda9. Le voci religiose contro le imprese belliche furono per molto tempo rare e fioche negli Stati Uniti; solo durante la guerra del Vietnam furono più frequenti10.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti divennero una superpotenza in stato di «guerra fredda» con l’Unione Sovietica, l’altra superpotenza, per contendersi l’egemonia militare, politica, economica e culturale nel pianeta. Gli Stati Uniti furono definiti allora un «impero senza imperialisti»11 perché rifiutavano di riconoscere il loro ruolo imperiale e continuavano a considerarsi una potenza benefica, non contagiata dalle ambizioni imperialiste e dalle aberrazioni totalitarie dei comunisti senza Dio. Eppure, durante mezzo secolo di Guerra fredda, gli Stati Uniti assomigliarono sempre più ad un impero, sia pure un impero della democrazia. «Chi potrebbe dubitare che esiste un impero americano», scriveva nel 1986 lo storico Arthur M. Schlesinger Jr., già consigliere del presidente John Kennedy: un impero «informale», precisava lo storico, «politicamente non coloniale, ma tuttavia abbondantemente dotato di parafernalia imperiali: eserciti, navi, basi, proconsoli, collaboratori locali, sparsi dovunque sullo sfortunato pianeta»12.
Alla fine del Novecento, sembrava che fosse veramente giunta la «fine della storia», cioè «l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale ultima forma di governo dell’umanità», come affermò nel 1989 il politologo americano Francis Fukuyama13. Ma un altro politologo americano, Samuel P. Huntington, osservò quattro anni dopo che la possibilità di instaurare un nuovo ordine mondiale, fondato sulla democrazia liberale occidentale, era minacciato dal pericolo di uno «scontro di civiltà» fra culture e religioni diverse, che avrebbe potuto provocare una guerra globale14.
Nell’ultimo decennio del Ventesimo secolo il futuro dell’America sembrava dipendere unicamente dalle sue scelte. Gli ultimi due presidenti degli Stati Uniti prima del nuovo millennio, il repubblicano George H.W. Bush (1989-1993) e il democratico William J. Clinton (1993-2001), non avevano nulla in comune, tranne la visione di un mondo fatto a immagine e somiglianza della democrazia di Dio. Dopo la fine dell’Unione Sovietica, Bush vagheggiò un «nuovo ordine mondiale» fondato sulla pace e l’armonia fra le nazioni. Clinton sognò un mondo di democrazie cooperanti. Tuttavia, in un mondo dove erano ancora numerosi i regimi che negavano la libertà e i diritti umani, entrambi i presidenti dovettero decidere interventi militari15. Nel febbraio 1991, col consenso delle Nazioni Unite, Bush guidò una coalizione di forze militari occidentali, giapponesi e arabe in una guerra nel Golfo Persico per liberare il Kuwait occupato l’anno precedente da Saddam Hussein, ambizioso dittatore dell’Iraq che aspirava alla supremazia nel Medio Oriente. In quattro giorni le forze della coalizione scacciarono l’invasore dal Kuwait e invasero l’Iraq, ma conclusero la guerra lasciando al potere il despota iracheno, che nei dieci anni successivi continuò a sfidare gli Stati Uniti e le Nazioni Unite con bellicosa protervia. Otto anni dopo, nel 1999, Clinton fece intervenire la forza aerea americana, sotto l’egida dell’Alleanza Atlantica, per bombardare la Serbia e costri...