L'arte di annacarsi
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L'arte di annacarsi

Un viaggio in Sicilia

  1. 284 pagine
  2. Italian
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L'arte di annacarsi

Un viaggio in Sicilia

Informazioni su questo libro

«Enorme davvero: enorme, e unica, e inspiegabile è lossessione meteorologica dei siciliani. Se cè brutto tempo si sentono in colpa, si giustificano, come se avessero invitato qualcuno a casa propria facendogli trovare la tovaglia macchiata di sugo». Una stravaganza, ma non lunica. Se andate a Scicli troverete, per esempio, uninsolita raffigurazione della Grande Madre: in tutto il Mediterraneo è una figura archetipica soavemente benigna, mentre qui si trasforma nella Madonna delle Milizie, armata e a cavallo, parecchio minacciosa. Ma è tutta la Sicilia a essere, oltre che se stessa, anche il contrario di sé, capace di amori smisurati, che si esprimono nella fisicità degli incontri: è il tatto a prevalere fra i cinque sensi. I siciliani toccano. Ti toccano un braccio mentre cercano di capire di cosa hai bisogno e anche di cosa non sai ancora di avere bisogno. La sensazione di essere toccati può rivelarsi sgradevole, per il viaggiatore, ma anche lui a poco a poco si abitua, e alla fine qualcuno persino si dispiace quando poi nessuno lo tocca più. Apparenti contraddizioni e immobili mutamenti rendono lo spirito di una terra piena di angoli insospettabili. Marsala, Palermo, Ustica, Porto Palo, Favignana, Agrigento, Siracusa, Tindari, Catania, Gela, Taormina, Messina sono solo alcune delle tappe di Roberto Alajmo, un viaggiatore capace di raccontare riallacciando i fili di una trama antichissima e tormentata: in fondo lamore per la Sicilia è quello che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente.Roberto Alajmo a Le Storie di Corrado Augias: guarda il videoRoberto Alajmo a Fahrenheit: ascolta l'audio

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Informazioni

Premessa.
Le mani avanti

Circola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati. In ogni caso, però, a ogni passo di ragionamento si rischia di essere fraintesi, per cui meglio sgomberare il campo dai possibili equivoci. Non si tratta di una diversità rivendicativa. Non è la diversità della Catalogna o dei Paesi Baschi. O meglio: certe volte sì, ma solo nelle sue manifestazioni più esteriori e velleitarie. Nella casistica più interessante il sicilianismo non è orgoglio, ma rimorso. La Sicilia si sente diversa dal resto d’Italia, e nei suoi abitanti migliori questa diversità si trasforma in senso di colpa. Perché si tratta di una diversità contagiosa, che col tempo ha infettato il resto del paese. Nemmeno più tanto una diversità, quindi, ormai. Da quando Leonardo Sciascia aveva preconizzato lo spostamento verso nord dell’ideale linea della palma, la sicilianizzazione del paese ha proceduto speditamente, fino a raggiungere l’arco delle Alpi. E ancora procede: è in corso una seconda passata, destinata a rendere il paese più omogeneamente arretrato.
Il viaggio in Sicilia rappresenta allora una indagine sull’identità nazionale. Indagine metaforica, a cannocchiale rovesciato. Se è vero quel che diceva Goethe, che non si può capire l’Italia senza vedere la Sicilia («è qui la chiave di tutto»), attraversare il continente siciliano significa indagare il collasso di tutta la nazione. In questo senso, il viaggio può rappresentare una discesa agli inferi.
Anche per godere della bellezza più recondita è necessario immergersi in quell’abisso che è la Sicilia. Non si può fare a meno di ravvisare la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni. Viaggiare attraverso la Sicilia significa sporcarsene. E si tratta di uno sporco persistente, di quelli più difficili da trattare.
Per chi in Sicilia ci è nato e ci vive, intraprendere un viaggio attraverso la propria terra è un modo di fare autoanalisi. Di scoprire tutta una serie di cose che già sapeva senza saperlo. Persino il viaggiatore interno ha sentito molto parlare di quest’isola, i luoghi comuni agiscono anche sul suo modo di vedere le cose. Ciò che rivede, in un certo senso, è come se lo rivedesse per la terza volta; le prime due attraverso i propri occhi e attraverso gli occhi del mondo.
Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.
Raccontare l’esperienza di un viaggio in Sicilia è una responsabilità che nei secoli si sono assunti in parecchi, ognuno a modo suo, con risultati che ognuno è libero di giudicare in autonomia. Al-Idrisi, il geografo. Ibn Giubair, il funzionario. Gregorovius, lo storico. Houël, il pittore. Brydone, lo scienziato. Swinburne, il poeta. Goethe, Maupassant e Dumas, gli scrittori. Questi solo per citare quanti hanno lasciato tracce nelle opere del loro viaggio nell’estremo lembo meridionale d’Europa. Anche alla luce di questi precedenti, è inutile provare a essere oggettivi; e velleitario risulta provare a essere soggettivi. Bisogna tenere conto dell’occhio di chi legge, che in cambio dell’attenzione si aspetta qualcosa. Giusto. Questo però rende ancora più tormentoso il compito di chi viaggia e racconta la Sicilia essendoci nato. Perché i siciliani hanno la tendenza a diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora.
Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci. Per esempio, quelli che vanno sotto l’etichetta di invenzione della tradizione. È comodo per lo straniero credere, e per i siciliani lasciargli credere, una serie di cose. E la natura dà il suo contributo al consolidamento dei luoghi comuni più infondati: il paesaggio siciliano è ovunque contraddistinto da una pianta, il ficodindia. In ogni angolo, in ogni connessione fra roccia e roccia si trova un ficodindia. Non esiste una pianta più caratteristica. Eppure non è endemica, non è neppure di origini mediterranee, visto che l’importarono gli spagnoli dal Centro America. E se la natura si permette queste integrazioni della realtà, perché gli uomini non dovrebbero travisare a loro volta? Ecco allora l’astuzia del fotografo che durante la mattanza mafiosa dei primi anni Ottanta correva da un posto all’altro per documentare i morti ammazzati nelle strade. Per spostarsi più rapidamente si muoveva in vespa, e sul predellino trasportava un vaso con un piccolo ficodindia. Arrivato sul luogo del delitto, disponeva il vaso in modo che almeno una pala della pianta entrasse nell’inquadratura. Sosteneva che i giornali del Nord in quel modo comprassero le foto più volentieri.
Altro equivoco che viene assecondato: il carretto siciliano. Ormai in giro se ne vedono pochissimi, e quelli che si vedono o sono in un museo o vengono adoperati come attrazione turistica: una foto sul carretto, sulla piazza di Monreale, vale cinque euro. Modica cifra per qualcosa che siamo portati a immaginare come genericamente antico. Eppure il carretto siciliano, così colorato e impennacchiato, è un’invenzione che ha poco più di cento anni. Più che antico, al massimo può essere considerato vecchio. E nemmeno significativo, dato che il temperamento dei siciliani prevede pochi colori e ancor meno impennacchiamenti: quelli estroversi sono i napoletani.
Lo stesso discorso vale per il dolce più siciliano che ci sia, la cassata: un’invenzione pure quella. Ecco come nascono le leggende. C’era un pasticcere palermitano, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decise di specializzarsi. Nel suo laboratorio di corso Vittorio Emanuele si mise a produrre quasi esclusivamente frutta candita. Come molti siciliani di tenace concetto, aveva deciso di contraddire l’opinione più radicata. Allora come oggi, tutto il mondo nutriva nei confronti della frutta candita un sentimento comune: la ripugnanza. Non la voleva nessuno. Se c’era, veniva scartata accuratamente. Non si conosce il motivo per cui Gulì si convinse del contrario, che ci fosse all’orizzonte un boom di richieste per la frutta candita. Sta di fatto che il suo laboratorio si ritrovò in breve tempo intasato di zuccata e mandarini imbalsamati. Col magazzino pieno e sull’orlo della bancarotta, ebbe un’intuizione che gli consentì di riciclare tutto quel ben di dio. Prese spunto da un dolce di origini molto più antiche, la cassata, quella che oggi viene chiamata cassata al forno: un involucro di pasta frolla ricoperto di cannella e zucchero a velo che custodisce il cuore di ricotta e cioccolato. Su questa base lavorò di fantasia, imbarocchendo il tutto con glassa di zucchero, pasta di mandorle e naturalmente montagnole di frutta candita a fare da guarnizione. Libero ognuno, poi, di scartare la decorazione e assaporare il resto. Il risultato venne prontamente denominato cassata siciliana in modo da sbaragliare anche l’ombra della concorrenza da parte dell’umilissima cassata originale, che si tro-
vò da un momento all’altro privata della propria identità.
La fortuna del nuovo dolce e del suo inventore fu quella di trovare subito un formidabile veicolo promozionale. La facoltosa famiglia dei Florio, che a Palermo ospitava regnanti e aristocratici di tutta Europa, fece della nuova cassata il suo dono di rappresentanza. Questi ospiti partivano da Palermo come altrettanti involontari testimonial, convinti che quel coloratissimo coacervo di zuccheri rappresentasse la Sicilia più vera. E ne incarnava, invece, soltanto la facciata.
Tutta questa premessa sui luoghi comuni serve a introdurre il luogo comune per eccellenza. Meglio affrontarlo subito, però, prima che cominci a impestare l’aria: la mafia. Il resto del mondo tende a credere che in Sicilia i mafiosi se ne vadano in giro col cartellino di riconoscimento o con la lupara a tracolla. Al contrario, quasi sempre tengono un profilo basso, confidando in un genere di riconoscibilità più sottile. Si palesano se questo si rende necessario, confidando che chi deve sapere chi sono lo sa già. Per il resto, la mafia è un odore. Una puzza. Qualcosa che avverti senza necessariamente sapere da dove proviene. È come la puzza di qualcosa che uno dei tuoi ospiti ha calpestato. Tu non sai esattamente chi, ma sai che qualcuno l’ha calpestata. Magari per discrezione non sollevi il problema, perché pare scortese. Ma dovresti, invece, perché altrimenti sarai costretto a subire quell’odore per tutto il tempo che i tuoi ospiti si tratterranno. Quel che succede nella realtà di tutti i giorni.
Se si sforza un po’, tuttavia, anche l’osservatore più superficiale in certe situazioni può riconoscere la puzza che a zaffate ogni tanto gli capiterà di avvertire. È l’odore di un’apocalisse che è italiana e siciliana al tempo stesso. Quello che si profila come il Grande Collasso Nazionale è destinato a cominciare dal Sud. O forse è già cominciato. Rimane da stabilire se sarà un’apocalisse climatica o sanitaria, un’ondata anomala di spazzatura o un’escalation criminale. E rimane da stabilire pure esattamente da dove comincerà: Campania o Sicilia. Le due regioni guardano alle rispettive piaghe con una torva, reciproca forma di consolazione, che confina con l’insidiosa formula del tanto peggio, tanto meglio. Tempo fa successe che a Napoli le casalinghe presero a pietrate i poliziotti che tentavano di arrestare alcuni rapinatori, e il questore commentò: Scene del genere non le ho viste nemmeno a Palermo. Questo smosse un bel po’ di suscettibilità fra la popolazione isolana, dove pure circostanze del genere si ripetono di frequente: Come si permette questo signore di adoperare la Sicilia come parametro del peggio? Ma il questore aveva ragione: fra Napoli e Palermo si disputa una corsa al male maggiore.
Se anzi in tutto il Meridione scene come quella delle pietrate ai poliziotti avvengono di rado, è solo perché lo Stato ha rinunciato a esercitare il proprio controllo su zone di territorio sempre più vaste, dove la polizia non prova manco a intervenire. In Sicilia se viene rubato un ciclomotore ci si fa una croce sopra, oppure si paga il riscatto per averlo restituito dalla stessa persona che l’ha rubato. La denuncia viene considerata un’usanza desueta perché c’è stata, nel corso del tempo, una tacita cernita dei reati perseguibili. L’azione repressiva viene esercitata quasi solo se è destinata a ottenere il consenso generalizzato della popolazione. Quando in passato si sono fatte spettacolari retate di posteggiatori abusivi di colore, lavavetri o prostitute extracomunitarie, è successo che la gente abbia persino applaudito allo spiegamento delle forze dell’ordine. Diverso è se si tratta di uno spacciatore indigeno. In questo caso scatta, per la morale comune, l’attenuante generica di sempre: Mischino, è patrifamigghia.
In fondo Sicilia e Campania sono figlie entrambe dello stesso Stato assistenziale, caratterizzato dall’essere allo stesso tempo troppo e troppo poco presente. Lo Stato si comporta col Meridione come quel genitore che per farsi perdonare le proprie assenze compra un sacco di regali al figlio. In questo modo pensa di essersi lavato la coscienza, e si sorprende quando poi scopre che il figlio è cresciuto male, diventando un delinquente. Allora gli dà uno schiaffo, e si sorprende ancora di più quando il figlio glielo restituisce, lo schiaffo. Ecco, Palermo e Napoli sono figlie dello stesso padre. Solo che questo padre ormai ha rinunciato a provarci, coi ceffoni. Un trattamento che riserva solo ai figli degli altri.
Non molto tempo fa i giornali si sono occupati di una ricerchina universitaria condotta nelle scuole di Palermo, un sondaggio dal quale risultava che per la maggior parte degli alunni, interrogati in forma anonima, la mafia era tutto sommato un male, se non necessario, almeno accettabile. L’opinione diffusa che veniva fuori era un luogo comune più radicato di quanto si creda, almeno in Sicilia: la mafia dà lavoro. Non appena i dati vennero resi noti, si scatenò una tempesta di indignazione. Si andava dall’accusa di poca significatività del campione sondato, a un’altra più generica di scarsa sensibilità antimafia. In sostanza: gli autori della ricerca erano colpevoli quantomeno di aver lasciato agli studenti la possibilità di esprimere un’opinione del genere senza dar loro nemmeno una sculacciata. I titolari dell’indignazione erano intellettuali, magistrati, deputati, parenti di vittime della criminalità organizzata, e il risultato fu che il sondaggio venne seppellito dallo sdegno generale.
Era stato toccato un nervo scoperto. La coscienza delle persone perbene si rifiutava di accettare un’opinione tanto politicamente scorretta. Fu l’occasione mancata per avviare una discussione su questo semplicissimo argomento: oltre che spiacevole, è anche vero o no che la mafia dà lavoro? Forse era l’occasione per ammettere che l’opinione maggioritaria emersa da quel sondaggio non era poi tanto inverosimile. Per chi in Sicilia ci vive, basta guardare alla realtà con disincanto per accorgersi che è proprio vero: è la mafia che distribuisce il poco lavoro che c’è. Durante le conversazioni in Sicilia capita di sentirselo dire nelle più svariate circostanze, soprattutto dalle persone culturalmente meno avvertite, che di questa affermazione non colgono anche la grossolanità e la superficialità. Il riflesso condizionato è di liquidare chi esprime un’opinione del genere con una dose di civile insofferenza. Ma, a pensarci bene, non hanno torto. Anche quando materialmente è lo Stato ad assumere, paramafioso è il sistema di reclutamento: a meno che non si creda che la mafia sia solo il braccio affiliato della mafia stessa. La condizione in cui l’aspirante lavoratore viene tenuto è di oppressione mafiosa. E la diffusione delle forme di lavoro a garanzia diminuita, con il lavoratore tenuto sulla corda praticamente in eterno, non fa altro che incrementare lo spirito di sudditanza: ciò che maggiormente fa il gioco della mafia, trasformando in favori quelli che veramente dovrebbero essere diritti. Applicate in terra di Sicilia – in assenza di una cultura d’impresa che sia veramente radicata, e veramente cultura – le regole del liberismo attengono sì alla sfera economica, ma vengono alterate da quella antropologica.
In Sicilia e nelle regioni del Meridione d’Italia lo Stato ha deciso, più o meno consapevolmente, di delegare la funzione dell’ufficio di collocamento. Cercare un lavoro significa chiederlo agli amici, e tenerselo stretto significa tenersi cari gli amici. Per questo il precariato è un’arma nelle mani di chi altera il mercato del lavoro: rappresenta una garanzia di fedeltà. Gli amici contano. È sempre un amico quello che si cerca quando un parente viene ricoverato in ospedale, quando si vuole comprare un’automobile, quando si cerca un prestito e in cento altre occasioni quotidiane, dalle più innocenti in giù.
Anziché spiegare alle scolaresche che la mafia è brutta e cattiva, allora, sarebbe il caso di spiegare come davvero stanno le cose: la mafia dà lavoro, sì, ma lo fa pagare a un prezzo estremamente alto. Il prezzo da pagare è il sottosviluppo. Bisognerebbe spiegare una volta per tutte che l’arretratezza del Meridione d’Italia è un’arretratezza creata artificialmente, che si nutre della secolare pioggia di finanziamenti regionali, statali ed europei. Spieghiamo che la mafia dà lavoro dopo aver personalmente creato la mancanza di lavoro. Spieghiamo che se non si spezza questo circolo vizioso la mafia continuerà a detenere il monopolio del mercato dell’occupazione. Spieghiamo che la mafia, ai siciliani, in un certo senso piace. Piace ai commercianti e agli imprenditori, che in cambio del pizzo ottengono dal racket servizi migliori di quelli offerti dallo Stato, e inoltre temono i costi e i tempi lunghi di un’insurrezione morale. Piace a tutti i siciliani, che, assuefatti ai favori concessi alla loro sudditanza, sono disposti a rinunciare ai diritti della cittadinanza, ne hanno anzi persino dimenticato l’esistenza. Spieghiamo, infine, perché mai lo Stato ha ritenuto di cedere alla mafia la gestione del diritto al lavoro. E chiediamoci se per caso ha voglia di riprenderselo, prima o poi, questo famoso diritto.
Che la mafia dia lavoro è, in Sicilia, un luogo comune. Ma di una sottospecie particolarmente insidiosa: un luogo comune fondato. E di una sotto-sottospecie ancora più insidiosa: un luogo comune fondato su convinzioni superficiali. Nelle vignette del disegnatore Gianni Allegra, l’idea-immagine più forte è rappresentata da un omino appeso a un filo. È una specie di acrobata disperato: forse c’è stato un tempo in cui camminava sul filo, anziché aggrapparcisi. Magari in passato quell’omino è stato un’attrazione circense, capace di arrivare da un capo all’altro del suo filo con brillantezza e spavalderia. Ora l’omino a quel filo rimane appeso con una sola mano, a stento riesce a restare immobile senza precipitare di sotto.
L’omino appeso al filo è uno dei simboli più azzeccati della condizione di chi vive in Sicilia. L’omino si sforza di rimanere aggrappato al filo, di arrivare da un capo all’altro della sua esistenza, ma di nulla può essere certo. Deve stare attento pure alle risposte che dà al suo interlocutore, il grosso topo che nelle vignette rimane sul ciglio del burrone. L’omino si quartìa, come si dice: tende a tutelarsi. Istintivamente si sarebbe indotti a parteggiare per lui, se non altro per ripulsa nei confronti del topone. Ma colui che osserva farebbe bene a non scegliere, fra i due antagonisti. Di certo non può piacergli il topone, ma anche la condiscendenza nei confronti dell’omino appeso al filo non ha una vera rag...

Indice dei contenuti

  1. — epigrafe
  2. — ringraziamenti
  3. — cartina della Sicilia
  4. Premessa. Le mani avanti
  5. Marsala e Calatafimi. Visto che da qualche parte bisogna cominciare
  6. Palermo. Teoria e tecniche dell’annacamento
  7. Ustica. L’isola che mette in scena la rappresentazione di se stessa
  8. Lampedusa. L’evoluzione non esclude che gli uomini possano comportarsi come certe razze animali, e segnatamente le testuggini
  9. Mazara del Vallo. In attesa del meglio, forse conviene accontentarsi del meno peggio
  10. Portopalo. La ubris non era un’invenzione dei tragici greci
  11. La Scala dei Turchi. Ogni popolo ha il suo scheletro nell’armadio
  12. San Vito Lo Capo. Il destino di trovarsi accanto al posto più bello del mondo
  13. Intermezzo. Vita sentimentale e vicissitudini postume di Federico II
  14. Favignana. Forse il cubismo esisteva già in natura
  15. Selinunte. Certi posti si capiscono meglio andando da un’altra parte
  16. Segesta. Il malinteso teatro, i teatri malintesi
  17. Agrigento. Elementi di pirandellismo applicati all’idraulica e alla meteorologia
  18. Sciacca. Ogni testa è tribunale
  19. Polizzi Generosa. Sfortuna è scoprire la propria felicità quando è troppo tardi
  20. Intermezzo. Don Chisciotte e gli altri. L’habitat ideale dei personaggi romanzeschi
  21. Pantelleria. L’invenzione dell’invenzione
  22. Gibellina. Le buone intenzioni quasi mai riescono a bastare
  23. Noto e Avola. Esistono città cicala e città formica, e di solito non vanno per niente d’accordo fra loro
  24. Siracusa. La variante siciliana della madre ebrea
  25. Scicli. La Madonna bellicosa e suo figlio che manco scherza
  26. Tindari. Del resto chi l’ha detto che una Madonna non possa essere suscettibile?
  27. Intermezzo. A una festa non bisogna chiedere troppa coerenza, né politica né religiosa
  28. Enna, Nicosia, Niscemi, Caltagirone, Palazzo Adriano. C’è sempre un cuore che batte al centro
  29. Castelbuono. Un’eccezione che conferma le peggiori regole
  30. Intermezzo. Il viaggio in Sicilia come genere artistico a sé stante
  31. Catania. A un certo punto qualcuno deve aver dato il segnale di immersione rapida
  32. Le Gole dell’Alcantara. Non è che bellezza e perversione siano incompatibili, anzi
  33. Le Eolie. Persino la bellezza più pacificata nasconde un’inquietudine latente
  34. Mozia. Bisogna sì volare alto, ma certe volte la bellezza si trova in un dettaglio
  35. Castel di Tusa. Antonio Presti, ovvero la strategia del dono
  36. Mineo. I sogni fatti in Sicilia non durano mai troppo
  37. Cefalù. L’osmosi della somiglianza prende il sopravvento
  38. Intermezzo. Breve storia del vino siciliano, dove si capisce che la fortuna conosce solo strade tortuose
  39. Taormina. Elogio delle strade traverse e del vivere nascostamente
  40. Trapani. I sensi sono cinque, ma certe popolazioni ne sviluppano alcuni meglio di altri
  41. Erice. Nella lotta dell’uomo contro l’omologazione il fronte passa dal sonno pomeridiano
  42. Modica. Il vantaggio di trovarsi lontano da ovunque
  43. Ragusa. Un’isola nell’isola nell’isola
  44. Messina. Prima o poi, in un modo o nell’altro, i viaggi trovano comunque una conclusione possibile