Un maestro
Il gioco degli altri
È a dire poco improbabile che i soldati di trincea che nella Grande Guerra concertavano tregue per risparmiare il sangue avessero sentito parlare di Gandhi – a parte, forse, qualcuno degli indiani inquadrati nell’esercito britannico. E Gandhi li avrebbe compresi, lui che nel 1918 stava cercando di reclutare volontari per sostenere lo sforzo finale del Regno Unito e che non sembrava molto colpito dalla fraternizzazione?114
Come i soldati «facitori di pace», molti protagonisti di lotte nonviolente ignoravano le idee di Gandhi, a volte neppure sapevano che esistesse. Ma alla base di ogni pratica, oltre che di ogni teoria, c’è il suo pensiero e c’è la sua vita. Nel loro intreccio si possono cogliere le tappe che portano alla nonviolenza come azione politica, come lotta dei forti anziché dei deboli, come strumento per promuovere il conflitto, ma un conflitto governato dall’amore e dall’accettazione reciproca fra individui, fra religioni, fra culture.
Se Gandhi riesce a fondare questa nuova politica, è perché si è reso conto – con cinquant’anni di anticipo sui movimenti di liberazione nazionale – che il grande inganno del colonialismo consiste nell’aver costruito una cultura in cui gli oppositori sono continuamente tentati di lottare all’interno delle regole del gioco fissate dai colonizzatori. Sempre pronto alla mediazione e al compromesso, Gandhi su questo punto è intrattabile: piuttosto che un dissenziente «ornamentale», disposto a adattarsi al gioco altrui115, meglio essere un nemico disprezzato e irriso, un corpo estraneo alla politica – ma ben incuneato nella politica. Averlo capito fa del suo pensiero un evento116 che inaugura un diverso modo di raccontare l’India e che lo rende unico nel suo tempo.
Ma la sua storia anticipa molte verità comuni a altre storie: che la nonviolenza di rado è l’opzione iniziale; che per lo più è il frutto di una crescita (un pellegrinaggio spirituale, lo definisce Martin Luther King) in cui il primo passo è aver constatato l’inefficacia della violenza e il suo potere di contagio; che ha molti nemici interni; che deve misurarsi con forme di distruttività compresenti, e ha spesso in sé una particolare qualità di violenza diretta a costringere l’avversario alla trattativa – è la migliore conferma che la storia non è il prodotto di forze impersonali, ma del fronteggiarsi fra natura, strutture, soggetti (e caso), dove i soggetti sono il fattore principe.
Non è un terreno facile, l’India di Gandhi. La grande maggioranza della popolazione, che a dispetto degli stereotipi non è affatto dolce e mite, è sfruttata e stremata, ma alcuni hanno una dimestichezza con i britannici che li rende riluttanti a schierarsi contro di loro – il sahib bianco (e la memsahib) non sono sempre despoti. Il terrorismo si fa sentire, sia pure in modo sporadico, mentre il maggior partito nazionale, il Congresso, è diviso fra un’ala pronta a governare insieme con la Gran Bretagna, e un’ala «nativista», che punta all’indipendenza esaltando le culture autoctone. Il potere coloniale, a volte spietato fino al massacro a volte paternalistico, offre floride carriere all’élite locale.
In primo piano, i due grandi mali dell’India: la contrapposizione fra induisti e musulmani e un sistema rigidissimo di caste, che sancisce l’intoccabilità di quanti ne sono fuori.
Per la sua dignità e felicità, il paese ha bisogno di una rivoluzione politica, di casta, di genere, di classe, di culture. Programma immenso e a rischio di isolamento, perché le lotte anticoloniali erano ancora un’eccezione.
Tre patrie
Gandhi, il più esotico dei leader novecenteschi, ha tre patrie. La prima è l’India, dove nasce nel 1869 nel Gujarat, in una famiglia benestante della comunità modh.
La seconda è Londra, dove si sposta per seguire gli studi di legge. All’epoca, la capitale è un crogiuolo dove si possono incontrare intellettuali di molti paesi e seguaci di molte fedi, socialisti in esilio, anarchici, vegetariani, difensori degli animali e della natura, femministe, omosessuali (quasi) militanti, nazionalisti, cultori di dottrine esoteriche. E le relative associazioni, come la Società teosofica, che appoggia caldamente la causa dell’India e dell’Irlanda.
È una controcultura ante litteram117, al cui interno il giovane Gandhi stringe conoscenze e amicizie e ritrova gli insegnamenti jainisti della madre – il rifiuto della violenza, la compassione per ogni essere senziente, la tolleranza, l’attenzione alle diete e al corpo. Scrive sulla piccola rivista «The Vegetarian», legge di tutto, è folgorato dalla Baghavad Gita, un famoso testo della tradizione epica indiana. E, guardando le sue radici attraverso gli occhi dei nuovi interlocutori, ne scopre il valore – è un meccanismo tutt’altro che raro.
Quando Gandhi torna in India, nel 1891, non è più il ragazzo semi-ateo incline a trasgredire i precetti religiosi. È un giovane uomo pieno di dubbi e di curiosità, avviato verso una transizione che prenderà forma in Sudafrica, la sua terza patria, il luogo del debutto in politica.
La svolta non è programmata né immediata. Chiamato a patrocinare una causa da una ditta indiana con sede in Natal, Gandhi si trova di fronte alle condizioni di semi-schiavitù in cui vivono i 150 mila connazionali emigrati per lavoro, subisce lui stesso il razzismo anti-indiano, ma condivide quello contro i neri. Nel 1903 fonda il Natal Indian Congress, nel 1904 il giornale «The Indian Opinion»; riesce a coagulare attenzione e solidarietà intorno alle leggi discriminatorie, si avvicina al Partito indiano del Congresso. Guadagna notorietà.
Ancora convinto che l’impero britannico «esista per il bene del mondo»118, caldeggia la partecipazione degli indiani alla seconda guerra anglo-boera, e nel 1906 alla spedizione punitiva contro la ribellione degli zulu. Per questa via, pensa, gli indiani potranno ottenere maggiori diritti e dimostrare che, a dispetto dei pregiudizi, hanno coraggio e senso dell’onore. Fa due scoperte chiave. Per gli indiani in Sudafrica non c’è alcun miglioramento – il governo ha mentito ventilandolo. Gli zulu sono per lo più contadini esasperati da una tassazione famelica – il governo ha mentito descrivendoli come belve.
Lo stesso anno 1906, in Transvaal viene promulgata una nuova legge per la registrazione – in realtà la schedatura – degli indiani residenti; scoppiano proteste di massa che si intensificano quando viene cancellato il riconoscimento legale ai matrimoni celebrati secondo la tradizione indù. Gandhi, che da anni sta lavorando intorno all’idea della nonviolenza, fonda la Passive Resistance Society e propone per la prima volta il metodo della resistenza inerme, chiamando i suoi a sfidare la nuova legge e a subire le violenze senza restituirle.
Ne nasce una lotta che dura sette anni, lungo i quali migliaia di indiani (fra cui lo stesso Gandhi) e cinesi, sono imprigionati, frustati, uccisi per aver fatto sciopero, rifiutato di registrarsi o bruciato i relativi moduli. Finché, dopo una marcia delle donne guidata dalla moglie di Gandhi, Kasturba, si arriva a un compromesso: i matrimoni induisti, musulmani e parsi sono resi nuovamente legali, si annulla la tassa prevista per la registrazione. È stata decisiva la protesta dell’opinione pubblica per la ferocia della repressione. Ed è stata decisiva la capacità negoziale di Gandhi, sorretta dalla popolarità che sta guadagnando119.
«Ahimsa» e «satyagraha»
Quelli del Sudafrica sono anni di scoperte intellettuali e spirituali, di letture (libri sacri dell’induismo e di altre religioni, Tolstoj, Ruskin, Thoreau, Carpenter), di nuove amicizie. Gli anni in cui Gandhi mette a fuoco il concetto di nonviolenza impiegando due parole distinte e interconnesse, ahimsa e satyagraha, legate al credo induista e alla tradizione del jainismo e del buddismo. Ahimsa indica il contrario della violenza, il rispetto affettuoso per ogni essere e ogni entità, la conquista dell’armonia, la ricomposizione della comunità. Satyagraha, un termine coniato dallo stesso Gandhi, significa avvicinamento a dio, fedeltà al bene, amore come potenza coesiva. E innanzitutto «forza della verità».
Il binomio ahimsa-satyagraha è esposto nel 1909 in un breve libro, Hind Swaraj120, che resterà la base del suo pensiero. È uno sguardo del tutto nuovo, in primo luogo sulla questione coloniale: «Gli inglesi – dice a un interlocutore immaginario – non hanno conquistato l’India, siamo noi che gliel’abbiamo consegnata. Non sono qui per la loro forza, ma perché ce li teniamo [...]. Ci piacciono i loro commerci, ci seducono con i loro modi gentili [...]. Incolparli per questo significa perpetuare il loro potere»121. Gandhi non amava né il concetto di nemico, né quello di vittima – di qui sconcerto e animosità da parte degli altri leader nazionalisti – e incitava i suoi a smettere di concentrarsi sui comportamenti dei «cattivi» per cominciare a agire loro stessi secondo giustizia, come soggetti responsabili in lotta per sopravvivere a proprio modo.
Ai co...
