V. La via africana
Un club esclusivo
Circoli ristretti, come quello di Giorgio Comerio, sono dei veri snodi. Visti da occhi esterni appaiono come una serie infinita di coincidenze, di uffici che condividono gli stessi indirizzi, di nomi che ritornano per anni nei faldoni di Procure italiane, dal Nord al Sud. Sembrano cuori pulsanti, dove si incrociano i flussi sanguigni dei traffici di armi e rifiuti. Battono, pompano, danno energia. Creano opportunità. Nella rete neurale dei broker ci sono gangli centrali, in grado di scambiare informazioni alla velocità della luce. Basta trovare la porta giusta, l’indirizzo esatto, al momento opportuno.
Non è un caso che dietro l’infinita storia dei trafficanti di rifiuti appaia – come un convitato di pietra – a intervalli regolari l’uomo che ha attraversato interi decenni di segreti italiani, Licio Gelli. Il nome del venerabile maestro di Arezzo riappare, nel 1989, negli accordi preliminari tra gli esponenti dei clan di Casal di Principe e gli imprenditori del Nord Italia, interessati ad utilizzare le terre dell’agro di Caserta come sversatoio. Quando alla fine del marzo del 1993 la Procura di Napoli avvia l’inchiesta Adelphi, che renderà visibile l’enorme traffico verso le terre campane, tra i primi atti istruttori vi fu anche una perquisizione a Villa Wanda, la residenza di Gelli. Il capo della P2 era considerato in stretto contatto con Gaetano Cerci, uno dei responsabili «ambientali» per conto del cartello dei Casalesi.
Sono tanti, tantissimi i nomi degli affiliati alla loggia riservata di Gelli che riappaiono nelle inchieste degli anni Novanta sui grandi traffici criminali. Segno di una rete ancora attiva, mai definitivamente sconfitta.
Quel che rimaneva della loggia P2 è un’ombra che attraversa gli anni terribili del traffico di rifiuti verso i paesi africani, facendo immaginare come quel modello di camera di compensazione tra l’economia, le oligarchie e lo Stato fosse qualcosa di più che un semplice gruppo massonico. Ci sono metodi – e personaggi – studiati a lungo dalla commissione parlamentare guidata da Tina Anselmi che puntualmente ritornano.
Per organizzare un traffico di rifiuti non serve in realtà molto. Il patrimonio da mettere a frutto è basato, prima di tutto, sulla conoscenza di quei circoli esclusivi che in Europa sono il motore occulto dell’economia. Le strutture che curano la raccolta, il trasporto e il trattamento finale dei rifiuti industriali devono avere, prima di tutto, il controllo assoluto di ogni passaggio. Mettere insieme questo tipo di operazione significa conoscere il piccolo trasportatore di assoluta fiducia, che girerà tra le fabbriche del Nord caricando i fusti, usando i codici di identificazione dei rifiuti più opportuni, in grado – molto spesso – di mascherare il vero contenuto; servono poi gli armatori, gente esperta capace di trovare navi discrete, di cambiare rapidamente un contratto di noleggio per un mercantile quando qualcosa non funziona; e alla fine della catena ci sono i paesi che accoglieranno le scorie mortali che i paesi europei espellono. Nazioni fragili, con governi assetati soprattutto di armi, per mantenere le decennali guerre che distruggono la loro gente e le loro terre. Ed ecco che nel trust invisibile dei mercanti di scorie entrano anche le potentissime organizzazioni dei trafficanti di armi. Businessmen che girano tra Montecarlo e Ginevra, tra le fabbriche del bresciano e i suk sparsi nell’Africa orientale, mercati attraversati dalle «tecniche», Land Rover con a bordo le micidiali mitragliatrici.
Dietro l’apparente sobrietà di una targa di un discreto studio legale svizzero non si nascondono, normalmente, solo i bilanci essenziali delle società di comodo costruite per evitare il fisco. Le strutture di holding e di società fiduciarie servono a conferire un’apparenza patinata ad affari che assomigliano più alle libere contrattazioni dei mercati rionali che alle borse d’affari londinesi. Il metodo, alla fine, è lo stesso utilizzato dal marsigliese Bernard Paringaux, che aveva nascosto i 41 fusti carichi di diossina venuti da Seveso in una macelleria dismessa nel Nord della Francia. Il primo problema è quello di trovare il materiale, che più pericoloso è, più redditizio sarà. I controlli, le leggi, gli accordi internazionali sono quella parte degli affari da trattare con la furbizia del truffatore, facendo girare carte che giocano con le parole e i cavilli tra le tante società coinvolte. E alla fine per trovare le porte giuste entrano i referenti politici, sia nei porti italiani di partenza, sia nelle terre da avvelenare che aspettano alla fine del viaggio le nostre scorie. È attraverso la politica che si aprono le porte più impensabili. Come avveniva con il gruppo di Licio Gelli.
Questa storia non potrebbe essere raccontata se i magistrati non avessero incontrato alcuni personaggi chiave, rimasti intrappolati quasi per caso, per reati talmente banali da sembrare improbabili per chi era abituato a frequentare i salotti buoni dell’economia italiana. Appare così uno squarcio denso di dettagli su un vasto gruppo di trafficanti, che per circa un decennio hanno stretto accordi per riempire il continente africano di rifiuti e di armi. Patti spesso scritti nero su bianco, su carta intestata di Stati inesistenti, ma talmente veri da creare imbarazzo in tanti governi. Una storia che ha al centro quella Somalia che Ilaria Alpi avrebbe voluto raccontare nel Tg della sera del 20 marzo 1994. Quel «caso particolare» ancora oggi nascosto.
Il Rasputin dei rifiuti
Il carcere di Ivrea non è uno dei peggiori d’Italia. Sovraffollato, come tutti, ma con un minimo di normalità garantita. Apertura delle celle alle nove del mattino, diverse ore di socialità e, fino a qualche anno fa, anche un giornalino interno, «Contro il muro», poi sospeso.
Quello che più pesava a Guido Garelli in quel carcere era la biblioteca. Pochissimi i volumi ancora utilizzabili e neanche un atlante decente. Niente mappe, niente carte dettagliate del Sahara, quasi a voler negare anche la possibilità di sognare un altrove, o la possibilità di almeno immaginare luoghi che hanno segnato la vita. Dicono che l’Africa crei una dipendenza così sottile da essere chiamata «male», qualcosa che diviene patologico. Per chi, come lui, ha iniziato a viaggiare giovanissimo il dettaglio millimetrico di una cartina militare può evocare emozioni che rendono la vita in cella un po’ meno dura.
Guido Garelli fuori dal carcere si presentava con la divisa verde e i galloni da ufficiale. Colonnello della Autorità Territoriale del Sahara. Militare, diplomatico, agente infiltrato, imprenditore che lavorava per il suo paese adottivo, l’ex Sahara spagnolo, la terra del popolo Saharawi. Un popolo che dagli anni Trenta chiede l’indipendenza, prima dalla Spagna colonizzatrice e poi dal Marocco. Parlano l’hassaniyya, un dialetto arabo originario della zona al confine tra la Mauritania e l’Algeria, sono berberi, nomadi del deserto, con tradizioni forti ancora oggi, nonostante una patria occupata e non riconosciuta e la vita forzata nei campi profughi.
Guido Garelli è pugliese di nascita, torinese d’adozione e figlio d’arte. Il padre Ettore lavorava anche lui per l’organizzazione dell’Amministrazione territoriale del Sahara, e aveva passato il testimone al figlio dopo la sua morte.
Il colonnello con la divisa verde ha una sfilza di pseudonimi che impressiona. Guy Rinaldi è quello che ama di più. E il suo ritratto potrebbe essere riscritto differentemente per ognuno di essi.
Per complicare ancora di più le cose, ogni ricerca di notizie sulla Amministrazione territoriale del Sahara è vana. È un fantasma della geopolitica, un’entità che lo stesso Frente Polisario – esercito di liberazione del popolo Saharawi – non ha mai sentito nominare. Viene il dubbio, alla fine, che forse Guido Garelli, alias Guy Rinaldi, la sabbia del deserto non l’abbia mai vista. Ma non è così, non si conclude così semplicemente questa storia.
Dietro la sigla dell’Ats si nascondevano uffici commerciali apparentemente normali a Gibilterra, l’enclave britannica che si affaccia sull’accesso al Mediterraneo. «Compañía Minera Río de Oro» si chiama una delle società utilizzate da Garelli. È stata costituita a Gibilterra – quindi sotto il diritto commerciale inglese – il 19 novembre del 1979. Poteva fare di tutto: «agire come mercante, banchiere, mediatore di commodities, armatore, e importare, esportare, vendere, comprare, scambiare...». Due i soci, Albert Sciacaluga e Ana Maria Balloqui, due signori sconosciuti in Italia.
In un telex inviato alla Società dalla Banca svizzera di Martigny del 29 agosto 1980 appaiono i nomi dei veri amministratori della società: Hector Garelli, padre di Guido Garelli, e il commercialista spagnolo Emilio Perez de Lucia Suarez. Un nome quest’ultimo che appare ancora oggi sugli elenchi degli albi professionali spagnoli che operano in Catalogna, come amministratori di società di logistica.
Guido Garelli era molto di più di un semplice trafficante: secondo il suo racconto, il progetto che la società di copertura di Gibilterra aveva disegnato era immenso, il più grande deposito di rifiuti pericolosi del mondo, nel cuore del Sahara, nella terra teatro della guerriglia saharawi. Si chiamava Urano e le tre aree prescelte coprivano un territorio lungo centinaia di chilometri. Tre depressioni, nel cuore del deserto, in un luogo inaccessibile, difficile anche solo da visualizzare, descritto in diversi documenti sequestrati a Garelli: «Tah», meno 118 metri dal livello del mare, lunga 28 chilometri e larga 4; «Bin Lelulh», meno 174 metri dal livello del mare, lunga 40 chilometri, larga 8; «Saline di Jill», meno 130 metri dal livello del mare, lunga 80 chilometri e larga 25.
Aveva una missione ben precisa il colonnello di origine pugliese: studiare il mercato, creare gli agganci giusti, capire come funziona quel business che avrebbe potuto finanziare l’indipendenza del suo paese adottivo, cacciando l’esercito marocchino che dagli anni Settanta occupa la striscia del Sahara occidentale, stretto tra la Mauritania e il Marocco.
Ci sono incontri che passano alla storia. Guido Garelli finisce per l’ennesima volta in carcere nel 1998, con una sfilza di condanne che lo terranno in cella per una decina d’anni. Traffico di automobili, false generalità, roba, apparentemente, da piccolo truffatore di periferia. In quei mesi, però, il suo nome era apparso in due inchieste fondamentali per capire il grande traffico di rifiuti internazionale. C’era il pm di Milano Maurizio Romanelli, che aveva già ascoltato i racconti di Piero Sebri ed ora si trovava alle prese con quel gruppo così potente da sembrare irraggiungibile, capitanato da Nickolas Bizzio e Monser al-Kassar. E c’era il suo collega Luciano Tarditi, che partendo dall’inchiesta su Pitelli si era avventurato nella ricostruzione di quella che sembrava essere la via della monnezza pericolosa e forse radioattiva, dall’Italia verso la Somalia. Dunque l’Africa, il minimo comune denominatore dei traffici. Dunque, Guido Garelli, che con il progetto Urano prometteva di cambiare il volto alle rotte dei veleni. Con una novità: da qualche anno era nato Urano 2, versione somala del progetto originario.
Il 13 gennaio del 1999 il pm di Asti Luciano Tarditi, accompagnato dall’ispettore della Forestale Gianni De Podestà, incontra Guido Garelli. È ancora in una cella della bolgia romana di Rebibbia e solo dopo questo primo interrogatorio verrà trasferito nel carcere più discreto – e da un certo punto di vista più sicuro – di Ivrea.
Il capo d’imputazione per il colonnello del Sahara occidentale è ancora coperto. Tarditi le sue carte migliori preferisce mantenerle riservate. Vuole prima esplorare Garelli, pesarlo, guardarlo mentre parla.
Guido Garelli sa benissimo dove vuole arrivare. Sembra sapere cosa ha in mano la Procura di Asti – e dopo poco quella di Milano –, in quale circolo infernale si stanno cacciando quei due magistrati: «Lei sa chi è la Instrumag? Ne ha idea? Vuol dire Nsa, National Security Agency, dottore. Se lei riesce a mettersi contro quell’organismo lì, allora le dico: mettiamoci in barca io e lei ed io le preparo qua una bellissima stanzetta. Ci mettiamo insieme con il computer... Non perché la voglio detenuto, dottore. Dobbiamo essere sicuri che attraverso queste mura non arrivi nessuno, perché probabilmente non vi rendete conto di cosa stiamo parlando».
Il racconto di Garelli è quasi un flusso di coscienza, inarrestabile. Prima, però, fa capire senza mezzi termini qual è quella organizzazione che si cela dietro i traffici che Luciano Tarditi e Maurizio Romanelli stanno ricostruendo: «Ero nel carcere di Brindisi e cercarono di ammazzarmi, e non ci sono riusciti. E cosa hanno fatto? Un incidente stradale, vicino Battaglie, per farmi fuori. Ero steso sul lettino e un suo collega mi chiese, chi la vuole uccidere? Lei dottore, gli risposi. C’erano due signori muniti di una pistola Beretta S92. Dietro un sottufficiale della Marina Militare disse: ‘Se non vi togliete vi sparo a tutti e due’. E questi vanno via».
Non è un colloquio tranquillo. Qualcuno stava ascoltando, dopo aver messo una microspia nella saletta riservata del carcere di Rebibbia. Nella registrazione del colloquio ad un certo punto tutti si fermano: «Tutto quello che diciamo è registrato qua», spiega Garelli. Luciano Tarditi si guarda intorno, cerca di capire quello che sta accadendo: «Abbiamo fatto una bonifica prima... Faccia vedere... Dove era piazzata?». Gli investigatori che accompagnavano il magistrato avevano appena scoperto la microspia. Non si saprà mai chi l’aveva messa.
Guido Garelli riprende il gioco in mano. Spiega a Tarditi in che labirinto si sta avventurando. Sembra quasi voler capire fino a che punto ha intenzione di spingersi il magistrato arrivato da Asti per ascoltarlo. Sa che questa volta non si limiteranno a parlare di traffico di automobili o di qualche documento falso: «Io non tiro dentro nessuno, se però mi date fastidio vi tiro dentro tutti, dal primo all’ultimo e do tutti gli estremi che servono per infilarvi nei guai in un modo incredibile. Questo lo sanno tutti, ecco perché hanno paura». Anche perché qualcuno già era stato in carcere, per colloqui investigativi: «Sono venuti da me e mi hanno detto in modo informale, guardi vedremo come farla uscire. Qui è venuto il ministero di Grazia e Giustizia e mi ha detto non parli con nessuno, non dica niente a nessuno, soprattutto se sono magistrati».
Tarditi non si ferma. «Siamo qui proprio per questo, signor Garelli». La risposta del colonnello di uno Stato che non esiste è netta: «Consideri una cosa, consideri sempre che io userò lei, lei non riuscirà mai a usare me quanto io userò lei, perché io voglio arrivare alla nostra indipendenza».
Le prime dichiarazioni di questo colonnello di uno Stato inesistente sfiorano la sfida: «Parliamone, dunque, di questa realtà parallela. Parliamo delle barzellette che racconta il Garelli e andiamo ai riscontri. Quando troviamo i riscontri lei verrà qua e mi dirà: sa non posso più andare avanti perché Giuseppino ha detto questo, Franchino ha detto quest’altro. Lei, dottore, farà carriera, lei naturalmente scapperà».
Guido Garelli da anni gira il mondo, tra il Nord Africa, i Balcani – la Croazia è il paese della madre – il Centro Europa. Con una costante, che nessuno ha mai spiegato: «Perché non mi arrestano mai quando sono all’estero?», chiede al dottor Tarditi, che cercava, nella saletta di Rebibbia, di capire fino a che punto volesse arrivare quel trafficante di peso arrestato quasi per caso. Il magistrato di Asti non teme le parole di Garelli: «Non lo so – risponde –. Troppe cose sono strane, appena si raggiunge un livello che io definisco appena superiore alla banalità, non si capisce...».
La banalità non fa parte del mondo di Garelli. Molti racconti saranno puntualmente riscontrati dagli investigatori del Corpo Forestale dello Stato, guidati dall...